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VANGELO secondo LUCA

"A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche del Nuovo Testamento, i vangeli meritatamente eccellono, in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro salvatore" (DV 18).
INTRODUZIONE
Leggere il Vangelo significa diventare testimoni di Cristo, lasciarsi penetrare dalla potenza di Gesù risorto che continua a edificare la sua Chiesa lungo i secoli, ricevere lo Spirito Santo che si mostra attivamente presente nella vita degli uomini, e infine scoprire dei fratelli e delle sorelle con i quali stiamo camminando su una nuova strada, quella del Signore Gesù. Questa è l’avventura a cui ci chiama il Vangelo secondo Luca.
L’opera di Luca comprende due parti, che si richiamano e si completano a vicenda: il Vangelo di Gesù e gli Atti degli Apostoli. Negli Atti, Luca ci insegna che la vita di Gesù si scopre attraverso le comunità cristiane, concrete e diversificate, animate dal dinamismo dello Spirito.
Luca usa il termine Vangelo solo due volte negli Atti (15,7; 20,24). Il vangelo è la persona di Gesù annunciata e testimoniata, è la grazia che Dio dona a ogni uomo nella Parola che è suo Figlio. Ma se Luca usa solo due volte la parola Vangelo, si serve invece abbondantemente del verbo evangelizzare. Il Vangelo infatti è più un’azione che un contenuto: è una persona, Gesù Signore, che vive nei suoi testimoni per mezzo della potenza dello Spirito Santo. Il cuore dell’annuncio dei cristiani è Gesù Cristo. I destinatati della buona notizia sono tutti coloro che gli annunciatori incontrano sulle loro strade.
Il vangelo, per Luca, è la salvezza definitiva portata al mondo da Gesù e dai suoi testimoni.
Dante chiama Luca "scriba mansuetudinis Christi". Il suo è infatti il vangelo della misericordia: Diventate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. (6,36).
Questo tema, suonato e variato in tutti i fatti e le parole di Gesù, è il motivo conduttore di tutto il Vangelo.
Il vangelo di Luca canta l’amore infinito di un Dio innamorato dell’uomo, sua creatura. Questo amore, principio della vita del Figlio, nato dal Padre, diventa per tutti gli uomini sorgente di vita nuova ed eterna. Il Vangelo di Luca ci porta alla contemplazione dell’amore di un Dio, solidale con i malfattori, che ci apre il regno dell’innocenza originaria (23,40-43).
Luca è lo storico della salvezza. Per lui la chiave di lettura di tutta la storia è la storia di Gesù. Egli è il centro del tempo. In Gesù infatti si compie il passato delle promesse fatte a Israele e il futuro della salvezza aperta a tutta l’umanità.
Questo compimento si realizza nell’oggi della fede: chi ascolta la parola di Gesù e la mette in pratica si inserisce nel cammino di obbedienza di Gesù al Padre. Cristo si è perduto per incontrare gli uomini perduti e ricondurli al Padre: il cristiano deve imitare l’esempio del suo Signore (9,24).
Luca insiste molto sulla preghiera. Essa ci ottiene il dono dello Spirito Santo che ha un ruolo determinante nell’opera di Luca: è la vita e l’amore del Figlio, dono del Padre. Egli ci porta all’ascolto della parola di Dio e all’annuncio di essa ai fratelli (At 1,8).
Secondo il parere quasi unanime degli esegeti, Luca ha preso il genere Vangelo da Marco, da cui dipende in larga misura. Ma per una metà circa del suo testo (548 versetti su 1149) Luca utilizza un materiale proprio; si tratta principalmente dei racconti dell’infanzia.
Lo stile di Luca rivela una persona sensibile e colta. Nel Nuovo Testamento è l’autore più carico di allusioni all’Antico Testamento; in modo leggero e sfumato. Il suo scritto ha il potere di far risuonare in modo delicato e armonico i temi che più stanno a cuore a Israele e che ugualmente sono in grado di far vibrare il cuore di ogni uomo. In questo modo egli compie un’opera sublime di mediazione e di inculturazione, introducendo Israele tra i popoli pagani e i pagani nel vero Israele. Luca si rivolge a un lettore proveniente dal paganesimo, che è già credente e desidera conoscere sempre più a fondo il Signore Gesù.


CAPITOLO 01

1 Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, 2 come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, 3 così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, 4 perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.

Luca inizia la sua opera con un prologo, come si addice a uno scrittore del suo tempo. Possiamo confrontare questo inizio del vangelo con il prologo del medico Dioscorides (vissuto al tempo di Nerone), al suo libro sulla medicina: "Poiché molti, non soltanto degli antichi ma anche dei contemporanei, hanno scritto sulla preparazione e sull’efficacia delle medicine…, carissimo Areios, anch’io voglio tentare…".
In questa lunga frase del prologo, accuratamente meditata, Luca parla del motivo, del contenuto, delle fonti, del metodo e del fine del suo vangelo. La fonte della narrazione di Luca e di quelle dei suoi predecessori è la "tradizione della Chiesa", che risale ai testimoni oculari. Essi hanno visto i grandi avvenimenti della redenzione.
Questi testimoni sono diventati anche ministri della Parola. Dio li ha autorizzati e dotati dei doni necessari per mettersi a disposizione della divina grandezza della Parola.
Attraverso la parola di coloro che hanno visto, possiamo entrare in comunione "con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo" (1Gv 1,3).
La nostra fede non è fondata su miti o su leggende inventate, ma su precisi eventi storici. Ciò che si crede e si vive nella Chiesa ha la sua causa prima in Gesù Cristo, che visse e operò in questo mondo in un momento storico ben determinato.
E’ importante conoscere la vita di Gesù attraverso un "racconto di seguito", cioè ordinato: in questo modo si rendono ben visibili i lineamenti storici del suo volto. Luca li contempla e li descrive perché il lettore possa ricordare e riprodurre in sé il vero volto di Dio, rivelato nel volto di Gesù.
Dove si trascura di leggere il racconto dei testimoni oculari, il volto di Dio rimane sconosciuto e la vera rivelazione di Dio viene sostituita da false immagini di Cristo. Nascono così volti deformi di Cristo e del cristianesimo che non hanno nulla della verità trasmessa dai testimoni oculari.
Il destinatario del racconto di Luca è Teofilo, nome che significa "amato da Dio" e "amante di Dio". Il discepolo è amato da Dio per diventare amante di Dio. Luca si rivolge quindi al cristiano che vuole diventare adulto nella fede e consapevole della sua responsabilità davanti al mondo e alla storia. Teofilo è un nome greco: destinatario dell’opera di Luca non è l’ebreo-cristiano, ma tutti coloro che "Dio ha voluto scegliere tra i pagani" (At 15,14), ossia ogni uomo di buona volontà nel quale c’è la presenza amante di Dio.

5 Al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. 6 Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. 7 Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
8 Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, 9 secondo l’usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso. 10 Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso. 11 Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. 12 Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. 13 Ma l’angelo gli disse: "Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. 14 Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, 15 poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 16 e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. 17 Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto". 18 Zaccaria disse all’angelo: "Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni". 19 L’angelo gli rispose: "Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annunzio. 20 Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo".
21 Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. 22 Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto.
23 Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. 24 Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: 25 "Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini".

Zaccaria ed Elisabetta sono santi perché sono giusti davanti a Dio. Osservano tutti i comandamenti della legge del Signore. Santità equivale a obbedienza a Dio.
La storia di Giovanni Battista inizia nel tempio mentre si prega solennemente. L’inizio della buona notizia viene dal cielo, portata da un angelo. Egli appare alla destra dell’altare: la parte destra è di buon augurio, promette salvezza (cfr Mt 25,33-34).
Quando Dio si rivolge a una persona, inizia a parlare con un incoraggiamento: "Non temere!". Dio vuole incoraggiare l’uomo, metterlo a suo agio, non spaventarlo o opprimerlo.
Le preghiere di Zaccaria per avere un figlio sono state esaudite. Si conclude il tempo delle promesse e trovano compimento ogni speranza e ogni attesa umana.
Dio stabilisce il nome al bambino che nascerà a Zaccaria. Dandogli il nome gli dà la sua missione e il suo potere. Il nome Giovanni significa "Dio fa grazia". Il tempo della visita di Dio portatrice di grazia, è prossimo; Giovanni annunzierà che il tempo della salvezza è vicino.
La sua nascita porterà gioia per l’esaudimento della promessa ed esultanza per la salvezza. Giovanni ha la missione di chiudere il tempo della promessa e di proclamare il nuovo tempo della salvezza, apportatrice di gioia e di giubilo.
"Egli sarà grande davanti al Signore" (v. 15). La sua missione nel piano della salvezza lo eleva al di sopra di tutti i grandi della storia sacra. Quelli vivevano nell’attesa del regno di Dio e della salvezza, Giovanni la precede immediatamente e ne proclama l’inizio.
Poiché "sarà pieno di Spirito Santo" (v. 15) sarà profeta, annunciatore della parola e della volontà di Dio. Gli altri ricevettero il carisma profetico in età adulta, Giovanni è profeta fin dal primo istante della sua vita, già nel seno materno. Egli sarà un profeta di penitenza. Con lui si aprirà un movimento di conversione verso Dio. La predicazione di Giovanni ha lo scopo di preparare la venuta di Dio. Egli avrà lo spirito e la forza di Elia. La sua missione è quella di preparare al Signore che viene a visitare il suo popolo, una comunità di uomini retti e santi, pronti ad accoglierlo.
L’obiezione di Zaccaria (v. 18) serve a provocare un approfondimento, una chiarificazione del discorso avviato. L’angelo Gabriele è stato inviato per portare un lieto annuncio, ma poiché Zaccaria ha stentato ad accoglierlo, la verità di quanto ha annunciato sarà garantita da un segno punitivo: "Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno" (v. 20).
Per l’evangelista il silenzio di Zaccaria e il nascondimento di Elisabetta (v. 23) servono a celare il disegno di Dio fino all’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria: il concepimento di Giovanni è un segreto che spetta a Dio svelare.
Il miracolo che Dio ha operato in Elisabetta, le ridona la dignità e la gioia della maternità, e imprime un nuovo corso alla sua vita. Per Dio non è mai troppo tardi!

26 Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, 27  a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28 Entrando da lei, disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te". 29 A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. 30 L’angelo le disse: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33 e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine".
34 Allora Maria disse all’angelo: "Come è possibile? Non conosco uomo". 35 Le rispose l’angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. 36 Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: 37 nulla è impossibile a Dio". 38 Allora Maria disse: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto". E l’angelo partì da lei.

Nell’annunciazione di Giovanni Battista l’angelo Gabriele va al tempio di Gerusalemme. Nell’annunciazione di Gesù l’angelo va a Nazaret, territorio che era ritenuto pagano e trascurato da Dio, quella Galilea dalla quale "non era sorto alcun profeta" (Gv 7,52). Natanaele si chiede: "Può venire qualcosa di buono da Nazaret?" (Gv 1,46). Dio sceglie ciò che non ha appariscenza, ciò che è umile e disprezzato dagli uomini. La legge dell’incarnazione è questa: "Gesù annientò se stesso…umiliò se stesso" (Fil 2,7-8).
Ma a Gerusalemme, nel tempio, nel culto solenne, nel sacerdote che presiede la celebrazione Dio non trova la fede, cioè non trova amore, ubbidienza e accoglienza. A Nazaret invece, nella Galilea dei pagani, lontana dal tempio e dal culto, trova una fanciulla sconosciuta, la Maria, piena di grazia, di fede e di disponibilità.
Nell’Antico Testamento Dio abita nel tempio, nel Nuovo elegge la sua dimora tra gli uomini (Gv 1,14). Maria è il nuovo tempio, la nuova città santa, il popolo nuovo in mezzo al quale prende dimora Dio. Il nome di Gesù significa: Dio salva. "Jahvé, il tuo Dio, è dentro di te, potente salvatore" (Sof 3,17).
Il nome nuovo che Maria riceve: "Piena-di-grazia" è l’investitura per una particolare missione nel piano di Dio, destinata a modificare la sua vita e il corso intero della storia. L’espressione "il Signore è con te" indica la protezione e l’assistenza che Dio le accorda in vista del compito che è destinata ad assolvere.
Il turbamento di cui parla il vangelo (v. 29) indica la presenza di Dio e sottolinea l’origine divina della comunicazione che Maria riceve, ed è segno che le parole dell’angelo sono piene di mistero.
Maria cerca di capirne il significato ponendosi delle domande, ma inutilmente. Alla fine deve chiederne la spiegazione all’angelo. L’angelo dà la spiegazione di ciò che ha affermato nel saluto iniziale. La grazia accordata a Maria è la nascita miracolosa di un figlio. Dio attuerà il suo disegno intervenendo con la potenza del suo Spirito.
Le perplessità di Maria alle parole dell’angelo riecheggiano quelle di Abramo all’annuncio della nascita di suo figlio (Gen 18,14). La fede in Dio che può operare meraviglie e cose impossibili all’uomo, ha salvato dall’incredulità Abramo; la stessa fede salva Maria (v. 37).
"Servi di Dio" sono coloro che hanno ricevuto una missione particolarmente importante e contemporaneamente danno prova di disponibilità, di remissività e di fede. Sulla bocca di Maria l’espressione "serva del Signore" riassume la sua missione e il coraggio con cui ha accettato l’invito divino che dà un significato nuovo e inatteso alla sua vita.
"Serva del Signore" è il nome che ella stessa si attribuisce dopo quello datole dai genitori: Maria, e quello annunciatole dall’angelo: Piena-di-grazia. Maria è la serva del Signore perché accetta umilmente il disegno di Dio, anche se non riesce a comprenderne tutta la portata e tutte le conseguenze.
L’espressione "avvenga a me", nel testo originale greco, è una forma verbale chiamata ottativo e contiene in sé un desiderio ardente e un entusiasmo vivo di vedere attuato quanto le è stato proposto. Maria ci insegna che la volontà di Dio va accolta con fede ed eseguita con gioia.

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: "Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore".

Dopo l’annunciazione dell’angelo, Maria si mette in cammino verso la montagna, con sollecitudine. Per Gesù è il primo viaggio missionario compiuto per mezzo della madre, che anticipa l’azione evangelizzatrice della comunità cristiana. Prende qui l’avvio il grande andare, che riempie tutto il vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli. La parola di Dio va dal cielo alla terra, da Nazaret a Gerusalemme, da Gerusalemme in Giudea e fino ai confini della terra; va senza esitazioni, sempre in fretta.
Nel saluto di Maria, che porta Gesù nel grembo, Elisabetta e Giovanni incontrano il Salvatore. L’arrivo di Maria in casa di Elisabetta suscita grande sorpresa e Elisabetta esprime la propria meraviglia con le parole pronunciate da Davide al sopraggiungere dell’Arca dell’Alleanza: "Come potrà venire da me l’arca del Signore?" (2Sam 6, 9).
Nella casa di Zaccaria si realizza ciò che avverrà a Gerusalemme dopo la risurrezione del Signore. "Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno" (At 2,17-21; Gl 3,1-5). La storia dell’infanzia della Chiesa sarà la ripetizione e la continuazione dell’infanzia di Gesù.
Elisabetta, "piena di Spirito Santo" (v. 41), conosce il segreto di Maria, e la proclama: "Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo" (v. 42). Dio ha benedetto Maria con la pienezza di tutte le benedizioni che sono in Cristo (cfr Ef 1,3).
Maria viene considerata come l’arca dell’Alleanza del Nuovo Testamento: nel suo grembo porta il Santo, la rivelazione di Dio, la fonte di ogni benedizione, la causa prima della gioia della salvezza, il centro del nuovo culto.
Il saluto di Maria provoca l’esultanza di Giovanni Battista. Il tempo della salvezza è il tempo della gioia.
Il cantico di lode di Elisabetta finisce con le parole che esaltano Maria: "Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore" (v. 45). Maria è diventata la madre di Gesù perché ha obbedito alla parola di Dio. E quando una donna del popolo, rivolgendosi a Gesù, la proclamerà beata: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!", Gesù preciserà e completerà l’espressione di lode, dicendo: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!" (Lc 11,27-28).
Con un atto di fede comincia la storia della salvezza d’Israele; Abramo parte per un paese sconosciuto con la moglie sterile, solo, perché Dio lo chiama e gli promette una discendenza benedetta (Gen 12). Con un atto di fede comincia la storia della salvezza del mondo; Maria crede alla parola del Signore: vergine, diventa la madre di Dio.
La prima beatitudine del vangelo di Luca è l’esaltazione della fede di Maria. La fede è la virtù che ha accompagnato Maria nel suo cammino e l’ha radicata profondamente nel progetto di salvezza di Dio.

46 Allora Maria disse:
"L’anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre".
56 Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Questo cantico è molto vicino a quello che intonerà Gesù quando, esultando nello Spirito Santo, scoprirà che la benevolenza del Padre si rivela ai piccoli (Lc 10,21-22). Maria esalta l’opera di salvezza che Dio sta realizzando tra gli uomini.
Questo inno si sviluppa come un mosaico di citazioni e di allusioni bibliche, che trova un parallelo nel cantico di Anna (1Sam 2,1-10), considerato generalmente come la sua fonte principale sia dal punto di vista della situazione che della tematica e della formulazione. Qualche esegeta suggerisce di leggere questo cantico di Maria sullo sfondo della grande liberazione dell’Esodo e in particolare del celebre Cantico del mare (Es 15,1-18.21).
Maria canta la grandezza di Dio. Riconosce che Dio è Dio. La conseguenza della scoperta di Dio grande nell’amore è l’esultanza dello spirito. La scoperta dell’amore immenso di Dio per noi vince la paura. Chi conosce il vero Dio, gioisce della sua stessa gioia.
Il motivo del dono di Dio a Maria non è il suo merito, ma il suo demerito, la sua umiltà (da humus=terra, parola da cui deriva anche "uomo"). Maria è il nulla assoluto, che solo è in grado di ricevere il Tutto.
Dio è amore. L’amore è dono. Il dono è tale solo nella misura in cui non è meritato. Dio quindi è accolto in noi come amore e dono solo nella misura della coscienza del nostro demerito, della nostra lontananza, della nostra piccolezza e umiltà oggettive. Maria è il primo essere umano che riconosce il proprio nulla e la propria distanza infinita da Dio in modo pieno e assoluto. Il merito fondamentale di Maria è la coscienza del proprio demerito: ella riconosce la propria infinita nullità.
Per questo, giustamente, la Chiesa proclama Maria esentata dal peccato originale, che consiste nella menzogna antica che impedisce all’uomo questa umiltà fiduciosa, che dovrebbe essere tipica della creatura (cf. Sal 131).
L’umiltà di Maria non è quella virtù che porta ad abbassarsi. La sua non è virtù, ma la verità essenziale di ogni creatura, che lei riconosce e accetta: il proprio nulla, il proprio essere terra-terra. Tutte le generazioni gioiranno con lei della sua stessa gioia di Dio, perché in lei l’abisso di tutta l’umanità è stato colmato di luce e si è rivelato come capacità di concepire Dio, il Dono dei doni.
Dio è amore onnipotente. Lo ha mostrato donando totalmente se stesso. Il suo nome (la sua persona) è conosciuto e glorificato tra gli uomini perché Dio stesso santifica il suo nome rivelandosi e donandosi al povero.
Maria sintetizza in una sola parola tutti gli attributi di colui che ha già chiamato Signore, Dio, Salvatore, Potente, Santo: il nome di Dio è Misericordia. Dio è amore che non può non amare. E’ misericordia che non può non sentire tenerezza verso la miseria delle sue creature. San Clemente di Alessandria afferma che "per la sua misteriosa divinità Dio è Padre. Ma la tenerezza che ha per noi lo fa diventare Madre. Amando, il Padre diventa femminile" (Dal Quis dives salvetur, 37,2).
Maria descrive la storia biblica della salvezza in sette azioni di Dio. La descrizione con i verbi al passato significa quello che Dio ha già fatto nell’Antico Testamento, ma anche quello che ha compiuto nel Nuovo, perché il Cantico, composto dalla comunità cristiana, canta l’operato di Dio alla luce della risurrezione di Cristo già avvenuta.
A proposito di questa rivoluzione operata da Dio, che rovescia i potenti dai troni e manda a mani vuote i ricchi, notiamo che anche questa è un’opera grandiosa e commovente della misericordia di Dio: quando il potente cade nella polvere e il sazio prova l’indigenza, essi sono posti nella condizione per essere rialzati e saziati da Dio. Nell’esperienza del vuoto e nel crollo degli idoli, l’uomo si trova nella condizione migliore per cercare Dio.
In Maria è presente Dio fatto uomo. In lui si realizzano le promesse di Dio. E’ per la fede in Cristo che si è discendenza di Abramo (Lc 3, 8). Il compimento della promessa fatta da Dio ad Abramo è definitivo: "In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12,3).

57 Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58 I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei.
59 All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. 60 Ma sua madre intervenne: "No, si chiamerà Giovanni". 61 Le dissero: "Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome". 62 Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: "Giovanni è il suo nome". Tutti furono meravigliati. 64  In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65 Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66 Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: "Che sarà mai questo bambino?" si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui.

L’attuazione della salvezza comincia con la nascita di Giovanni. Essa riempie gli animi di gioia e li spinge ad elevare un canto di ringraziamento a Dio e a ricolmare di felicitazioni la madre del bambino.
Il centro di questo racconto è la questione del nome da dare al bambino. Il nome indica la natura della persona, la sua missione, il suo valore unico e irripetibile. Giovanni significa "Dio fa grazia"; significa dono, grazia, amore di Dio.
Il rito della circoncisione è movimentato. Tutto serve per mettere in rilievo la vocazione e la missione di Giovanni. Nel suo nome, che significa "Dio fa grazia", c’è tutto il programma che è chiamato a realizzare. Esso indica che Dio sta per dare una prova inaudita della sua misericordia verso gli uomini.
L’uso ebraico di imporre al neonato il nome del genitore o di un antenato voleva indicare la continuità con il passato. Qui viene interrotto perché questo bambino ha un cammino proprio da percorrere indipendentemente dalla parentela o discendenza carnale.
Ogni vita, ogni nascita è dono di Dio. La nascita di un uomo non è mai un caso, è sempre il compimento di un disegno d’amore di Dio. Il Signore mi ha disegnato con amore sul palmo della sua mano (Is 49, 16), fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome (Is 49,1), è lui che ha creato le mie viscere e mi ha tessuto nel grembo di mia madre (Sal 139,13).
L’uomo è il prodigio dell’amore di Dio: "Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio" (Sal 139, 14). Dio dice ad ogni uomo: "Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e ti amo" (Is 43,4). La nostra dignità si comprende solo se guardiamo a Colui dal quale abbiamo avuto inizio e al quale ritorniamo: alla fine Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).
Ogni nascita è una dilatazione dell’amore e della misericordia del Signore, la cui tenerezza si espande su tutte le creature (Sal 145,9). Solo se si capisce così una nascita, si può comprendere il vero valore e il vero spessore di una vita.
I vicini e i parenti si rallegrano con Elisabetta perché il Signore ha manifestato in lei la sua grande misericordia. Il credente è colui che vede l’azione di Dio dove il non credente vede solo l’azione dell’uomo.
Il nome di Giovanni viene da Dio (Lc 1,13). Il nome di ogni figlio, il suo essere, la sua vocazione, il suo destino vengono da Dio.
La meraviglia di tutti (v. 63) sta nella scoperta che Dio è grazia, misericordia e tenerezza.
Il v. 66 ci presenta un tema caro a Luca: l’ascolto della parola di Dio deve mettere radice nel cuore, crescere e fruttificare (cf. Lc 8,12ss).
Nel bambino Giovanni si manifestano la potenza e la mano di Dio per portare avanti la sua crescita e così prepararlo convenientemente ai suoi compiti futuri.

67 Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo:
68 " Benedetto il Signore Dio d’Israele,
perché ha visitato e redento il suo popolo,
69 e ha suscitato per noi una salvezza potente
nella casa di Davide, suo servo,
70 come aveva promesso
per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71 salvezza dai nostri nemici,
e dalle mani di quanti ci odiano.
72 Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
e si è ricordato della sua santa alleanza,
73 del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
74 di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, 75  in santità e giustizia
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
76 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,
77 per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
nella remissione dei suoi peccati,
78 grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge
79 per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
e nell’ombra della morte
e dirigere i nostri passi sulla via della pace".
80 Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

Con questo inno Luca ribadisce per il lettore non giudeo la lezione già data nel cantico di Maria: come leggere la storia con gli occhi della fede, secondo la promessa fatta ad Abramo. E’ un cantico di benedizione per il passato e di profezia per il futuro.
Il brano si divide in due parti. Nella prima (vv. 68-75) Zaccaria ringrazia per il Messia che Dio ha donato al suo popolo. Nella seconda (vv. 76-79) profetizza la funzione di suo figlio, che avrà il compito di precedere colui che " verrà a visitarci dall’alto come sole che sorge" (v. 78).
E’ un inno liturgico che ringrazia Dio per il dono delle sue promesse realizzate in Cristo. Anche in questo cantico viene messa in evidenza soprattutto la fedeltà di Dio alla sua promessa di salvezza, e il lettore è invitato a conoscere meglio la storia della salvezza per entrarvi di persona e aderirvi sempre meglio.
E’ lo Spirito Santo che dà a Zaccaria la fede e gli apre la bocca per annunciare la parola di Dio. E Zaccaria vede la realtà con gli occhi di Dio e ne parla come parlerebbe Dio, anzi è Dio che parla attraverso di lui.
La prima parola che lo Spirito Santo mette sulle labbra di Zaccaria è quella della benedizione e della lode a Dio. La lode si differenzia dal semplice ringraziamento, in cui si è grati a Dio per i suoi doni; essa va oltre i doni stessi e arriva al Donatore. Dietro le cose e i fatti l’uomo di fede vede Dio stesso che in essi si esprime come dono. Allora gode di Dio stesso, partecipa della sua gioia e ringrazia che Dio sia Dio.
Il potere di Dio è quello di dare la salvezza. La salvezza è Cristo, discendente della casa di Davide (2Sam 7). Il motivo di lode è solo e sempre Cristo: è lui il bene totale che il Padre ci ha dato ed è per questo dono che benediciamo Dio.
Ciò di cui i profeti hanno parlato è sempre la salvezza. E’ in essa che l’uomo può conoscere Dio nel suo amore per lui. In Gesù vediamo il vero volto di Dio, che è amore, tenerezza, compassione e sevizio: egli si immerge nel nostro male, come la medicina nel corpo del malato, se ne fa carico, dà la vita per noi e ci libera da ogni paura di Dio.
Il dio nemico dell’uomo, presentato dal serpente (Gen 3), non è Dio, ma lo stesso demonio. Da questa falsa immagine di Dio nasce la ribellione dell’uomo. La religione che impaurisce l’uomo, l’ateismo, il nihilismo hanno la stessa unica radice: la falsa immagine di un dio nemico, da affermare, da negare o da trascurare. Da questa inimicizia e sfiducia nasce la necessità che ogni uomo provveda a se stesso: nasce l’egoismo, la paura della morte e l’ansia della vita. Da qui deriva ogni alienazione e schiavitù dell’uomo a tutti i livelli: psicologico, economico, politico, religioso… Così l’uomo diventa peccatore, ossia fallito (in ebraico "peccare" significa mancare il bersaglio, fallire la meta).
Il Signore è venuto a liberarci da satana e da tutte le schiavitù nelle quali ci aveva precipitati. L’ultimo nemico ad essere vinto sarà la morte (1Cor 15,26). La paura di essa è la mano del nemico "che ha il potere sulla morte" e che "nel timore della morte" tiene gli uomini "soggetti a schiavitù per tutta la vita " (Eb 2,14).
Senza la paura di Dio, la morte non ci avrebbe fatto paura. L’avremmo accettata per quello che è: il ricongiungimento con Dio, sorgente della nostra vita.
Dio concede misericordia salvando l’uomo di tutti i tempi. Egli si ricorda di essersi impegnato unilateralmente con l’umanità per mezzo della sua alleanza con Abramo (Gen 15). Il giuramento fatto ad Abramo è un impegno unilaterale: anche se l’uomo viene meno ai suoi impegni, Dio rimane fedele. Dio ha giurato su se stesso di essere fedele alla sua promessa.
Per servire il Signore bisogna essere liberi dalla paura e passare dalla schiavitù dei nemici alla perfetta libertà. Questo servizio a Dio si esprime nella pietà e nella giustizia, cioè in una vita da cui traspare la gloria del volto di Dio (cf. Lc 6,27-38).
Dopo aver benedetto Dio per Cristo, Zaccaria parla di suo figlio: la realtà di Giovanni, come quella di ogni uomo, è comprensibile solo dopo Cristo e alla sua luce. Per mezzo di Giovanni viene data la conoscenza della salvezza, l’esperienza del Salvatore. Questa conoscenza è concessa nella remissione dei peccati. Solo lì l’uomo peccatore conosce il Signore (cf. Ger 31,31-34). Il peccato è la nostra realtà di cui il Battista ci fa prendere coscienza sulle rive del Giordano. Solo alla luce del perdono e della misericordia di Dio possiamo conoscere la nostra realtà di menzogna.
Questa conoscenza che si ottiene nel perdono è fare esperienza delle viscere materne della misericordia del nostro Dio dalle quali scaturisce. E’ Gesù il perdono dei peccati e la manifestazione della misericordia del Padre.
Il sole Gesù appare ad ogni uomo che è prigioniero del nemico, incatenato nel carcere del proprio peccato e in preda al terrore della morte. Illuminati da questa luce, diventiamo noi stessi luce. Gesù ha detto: "Io sono la luce del mondo: chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12). Solo in questa luce possiamo "dirigere i nostri passi sulla via della pace" (v. 79).
Nel v.80 ci viene presentato il Battista che si forma e cresce come gli antichi profeti.

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CAPITOLO 02

1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2 Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. 3 Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. 4 Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, 5 per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. 6 Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.
8 C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. 9 Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, 10 ma l’angelo disse loro: "Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia". 13 E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva:
14 "Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama".
15 Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: "Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere".

In questo brano siamo invitati a contemplare la bontà e l’amore di Dio verso di noi: "Si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini" (Tt 3,4). Dio nasce piccolo e indifeso, bisognoso di tutto e di tutti, perché è amore, per non incutere alcuna paura all’uomo e dargli ardimento di amare Dio con semplicità e disinvoltura. La passione d’amore di Dio per l’uomo l’ha spinto a nascere e a morire per lui. Il problema della fede cristiana è accogliere questa carne di Dio che si è fatto solidale con la nostra debolezza: "Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio" (1Gv 4,2). È questa stessa carne che ci rivela il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18). Gesù ha detto: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,9).
In questo brano viene presentata la potenza umana che si esalta, si dilata e raggiunge il massimo in un censimento mondiale, il primo della storia, e l’impotenza di Dio che si umilia, si restringe e si concentra in un neonato.
Se il Figlio di Dio fosse venuto con potenza, non sarebbe stato ignorato e rifiutato; tutti l’avremmo accolto, o per amore o per forza. Ma non sarebbe stata la rivelazione del vero Dio che è amore, ma quella di un dio falso, di un idolo. Il suo segno di riconoscimento sarà un neonato (v. 12) perché la caratteristica di Dio è la piccolezza. Sant’Ignazio di Loyola pone il criterio discriminante della fede nei due vessilli: il vessillo di Dio è "povertà, umiliazione e umiltà", quello di satana è "ricchezza, potere e superbia". Certamente, con questa scelta, Dio si è esposto al rifiuto. È la vulnerabilità dell’amore che rispetta la libertà dell’uomo. Ma il Dio-Amore non poteva manifestarsi che attraverso le scelte proprie dell’amore: la piccolezza, la povertà, il servizio.
La salvezza non è un’idea fuori dello spazio e del tempo: è una storia con fatti ben precisi e databili. In primo piano appare Cesare Augusto: si tratta di Ottavio, pronipote ed erede di Giulio Cesare, e primo imperatore romano (dal 27 a.C. al 14 d.C.). Il "secolo di Augusto" è l’epoca più brillante e più gloriosa di tutta la storia romana. Il successo di Ottavio e la magnificenza del suo regno gli hanno permesso di portare, ancora vivente, il titolo di Augusto (il Sublime), riservato fino a quel momento agli dei. In mezzo agli sconvolgimenti del suo tempo è apparso come un salvatore. A Priene, città dell’Asia minore, è stata scoperta un’iscrizione dell’anno 9  a.C. in cui si legge: "La provvidenza divina ha accordato agli uomini quanto c’è di più perfetto dandoci Augusto, che ha colmato di forza per il bene degli uomini e che ha inviato come salvatore per noi e per i nostri discendenti… Il giorno della nascita di dio fu per il mondo l’inizio delle buone notizie (in greco: euanghélia = vangeli) che vengono da lui". Il "salvatore"e il "dio" è l’imperatore Augusto, il quale fece associare il suo culto a quello della dea Roma.
Da tutto questo emerge un contrasto sorprendente: da una parte la figura di Cesare nell’esercizio del suo potere universale per mezzo del censimento; dall’altra il Salvatore di tutti che nasce povero in una lontana provincia orientale dell’impero. Il censimento è l’esaltazione del potere dell’uomo, la nascita di Cristo è l’umile atteggiamento di servizio di Dio nei confronti dell’uomo.
L’Altissimo si è fatto piccolo, l’Onnipotente bisognoso, La  Parola infante, l’Immortale mortale, la Gioia vagito. È il mistero dell’amore di Dio che raggiunge l’uomo. E perché nessuno si senta indegno o escluso, Dio si mette all’ultimo posto per abbracciare tutti e perché nulla vada perduto (Gv 6,39).
Questo bambino è chiamato "primogenito" non solo perché è il primo partorito da Maria, ma perché è "il primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29), "il primogenito di tutte le creature" (Col 1,15), "il primogenito di coloro che risuscitano dai morti" (Col 1,18). Questa parola "primogenito" non va quindi intesa nel senso che Maria, dopo aver generato il Figlio di Dio, ebbe altri figli da Giuseppe.
Il racconto dell’annuncio dell’angelo ai pastori ha uno stile nettamente apocalittico (di rivelazione).
L’angelo dà ai pastori la "buona notizia" e il "segno" che permetterà loro di riconoscere il bambino. Destinatario di questo meraviglioso annuncio è "tutto il popolo", tutti gli uomini che Dio ama.
Il primo titolo attribuito dall’angelo a Gesù è quello di Salvatore. In Israele questo appellativo era riservato a Iahvè, perché non c’è salvatore fuori di lui (Is 43,11; 47,15; Os 13,4; ecc.). L’angelo rende più esplicito l’annuncio contenuto nel nome di Gesù che significa "Iahvè-Salvatore". A questo nome viene aggiunto il titolo di Cristo che traduce l’ebraico Mashiah, "Messia", che significa "unto con l’unzione dell’olio". Un terzo titolo che viene dato al bambino è "Signore", che è la traduzione del nome di Dio: YHWH.
Il Vangelo, la grande gioia messianica, è data a pochi perché costoro l’annuncino a tutti. L’annuncio non riguarda una salvezza astratta, ma il Salvatore che è una persona concreta: Dio fatto uomo.
L’angelo dà un segno di riconoscimento. Noi ci aspetteremmo un segno di ricchezza, di potenza, di grandezza, ma Dio dà un segno di povertà, di debolezza, di piccolezza: un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia. Da questo momento è tolta ogni distanza tra Dio e uomo, perché Dio ha rivelato sulla terra il suo vero volto d’amore che l’ha portato a identificarsi con colui che egli ama: ha tanto amato l’uomo da diventare uomo. La benevolenza di Dio riposa ormai su tutti gli uomini per il fatto che Dio, incarnandosi, assume la nostra umanità e raggiunge tutti coloro che in Gesù possono scoprire il significato nuovo della propria vita di uomini.
All’annuncio degli angeli i pastori intraprendono il cammino di fede, esemplare per ogni credente, che li porterà a glorificare e lodare Dio per tutto quello che avevano udito e visto, come era stato detto loro. All’origine della fede c’è sempre una parola annunciata con cui il Signore fa conoscere il fatto della salvezza. A tutti è possibile giungere a questa fede, perché siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio e la sua parola trova in noi tutto l’occorrente per essere accolta e compresa.

16 Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. 19 Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
20 I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
21 Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.

Alla nascita di Gesù si apre il cielo e gli uomini possono assistere alla liturgia celeste che si svolge sopra questo bambino. A questa liturgia celeste, dischiusa dall’annuncio che ne dà la vera interpretazione, corrisponde una liturgia terrestre di povera gente obbediente alla parola di Dio che corre a vedere un povero bambino.
Essi, dopo aver constatato e sperimentato ciò che era stato detto loro, a loro volta l’annunciano. In questi pastori, primi ascoltatori che si fanno annunciatori, si profila chiaramente la Chiesa. È una Chiesa di poveri che riconosce, annuncia, glorifica e loda Dio che si è rivelato nell’impotenza di Gesù.
I pastori, che vanno in fretta a trovare Gesù, vengono presentati come modelli di fede. Ciò che gli angeli hanno fatto in cielo, i pastori continuano a fare sulla terra: annunciano il Salvatore. Si profila la dinamica necessariamente missionaria della Chiesa: chi è stato evangelizzato, a sua volta evangelizza.
La prima reazione al loro annuncio è la meraviglia provocata da una bella notizia e da una sorpresa sbalorditiva.
Maria custodiva con cura tutte queste parole-eventi, meditandole nel suo cuore. La parola di Dio dev’essere conservata, perché è chiamata a crescere ed è destinata a realizzarsi (Ap 1,3; 22,7-20). Anche per la madre di Dio la fede è un cammino, una ricerca lenta e faticosa. La piena luce giungerà anche per lei solo al termine della sua esistenza. Nel frattempo ella mantiene inalterati i suoi rapporti e i suoi impegni con Dio.
Dopo la presentazione del Salvatore agli umili, c’è la presentazione ufficiale di Gesù al popolo d’Israele. Otto giorni dopo la nascita, il bambino Gesù viene circonciso e riceve il nome che era stato annunciato dall’angelo.
L’alleanza di Dio con il popolo ebraico aveva il suo segno nella circoncisione. Essa significava l’appartenenza al popolo che si era impegnato con Dio. Con la circoncisione Gesù appartiene realmente al popolo dell’alleanza e sarà l’unico circonciso d’Israele totalmente obbediente a Dio.

22 Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, 23 come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; 24 e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore.
25 Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele; 26 lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. 27 Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, 28 lo prese tra le braccia e benedisse Dio:
29 "Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola;
30 perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
31 preparata da te davanti a tutti i popoli,
32 luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele".
33 Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34 Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: "Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione 35 perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima".
36 C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37 era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38 Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
39 Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. 40 Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.

Il Signore visita il suo tempio. Egli non viene per giudicare l’inosservanza della legge, ma per sottomettersi come uomo all’obbedienza al Padre al quale gli uomini hanno disobbedito. Viene a pagare il debito dell’uomo.
Dio non esige il sacrificio dell’uomo alla propria maestà (questa è la menzogna di Adamo e di tutte le perversioni religiose), ma esige il riconoscimento di sé come dono e sorgente di vita perché possiamo attingervi in abbondanza.
Presentandosi a Dio, l’uomo viene restituito a se stesso. Riconoscendo che la vita dell’uomo è data da Dio, noi scopriamo l’altissimo dono della vita.
Simeone significa "Dio ha ascoltato". Lo Spirito Santo era su di lui: per questo ascolta e osserva la Parola. Solo gli uomini illuminati dallo Spirito sanno spiegare esattamente la Scrittura e giudicare gli eventi della salvezza. Le braccia del vecchio Simeone rappresentano le braccia bimillenarie d’Israele che ricevono il fiore della nuova vita, la promessa di Dio.
Il Cantico di Simeone si pone sulla linea della grande tradizione del Servo di Jahvé: "Io ti renderò luce delle nazioni perché tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra" (Is 49,6). Ora si compie quanto era stato predetto: "Alzati, rivestiti di luce, la gloria del Signore brilla su di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare in te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere" (Is 60,1-3).
Solo chi vede Gesù salvatore può vivere e morire in pace. Solo l’incontro con Dio può sanare la vita dal veleno della paura della morte e guarire l’uomo dalla falsa immagine di Dio. Dietro la porta della morte non ci attende un abisso di tenebre, ma la sala illuminata del banchetto della vita eterna.
Alla salvezza e alla pace, già presenti nel Cantico di Zaccaria, qui si aggiunge la luce con una chiara connotazione di universalismo: la salvezza è per tutti i popoli.
Simeone, mosso dallo Spirito, ha riconosciuto Gesù; ora predice a Maria il destino del figlio. La persona di Gesù è spiegata ancora oggi a noi dall’Antico Testamento.
Gesù sarà insieme causa di caduta e di risurrezione per le moltitudini d’Israele, perché porta una salvezza "scandalosa" che nessuno è in grado di accettare. Gesù contraddice ogni pensiero dell’uomo. È scandalo e follia. Per questo tutti lo contraddicono, si scandalizzano di lui e cadono.
Viene qui adombrato il mistero della morte e risurrezione del Signore che come spada attraverserà il cuore di ogni discepolo e di tutta la  Chiesa, di cui Maria è figura.
Alla parola dura di condanna, di contraddizione e di spada, subentra la parola di felicitazione, di conforto e di sostegno. Il nome della profetessa e quelli dei suoi avi significano salvezza e benedizione. Anna vuol dire: Dio fa grazia; Fanuele: Dio è luce; Aser: felicità.
I nomi non sono privi di significato. E qui il loro significato illumina e immerge tutto nello splendore della gioia, della grazia e della clemenza di Dio. Il tempo messianico è tempo di luce piena.
Anna è tratteggiata come luminoso esempio delle vedove cristiane. "Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte" (1Tm 5,5).
Illuminata dallo Spirito Santo, Anna riconosce il Messia nel bambino che Maria porta al tempio. Facendo seguito a Simeone, loda Dio e parla continuamente di Gesù a tutti quelli che aspettano "la redenzione di Gerusalemme" (v. 38).
Nel tempio di Gerusalemme si svelano due aspetti: la contraddizione nei confronti di Gesù e l’accoglienza nella fede, la condanna e la salvezza, la caduta e la risurrezione.
Da Gerusalemme, nel cui tempio viene innalzato il segno, s’irradia la luce che rischiara i pagani e si manifesta la gloria d’Israele.
Ciò accade ora, mentre Gesù viene nel tempio; e accadrà ancora più chiaramente quando sarà "assunto" in Gerusalemme, cioè innalzato nella gloria. Allora si radunerà il nuovo popolo di Dio, e i suoi messaggeri da Gerusalemme si diffonderanno in tutto il mondo per raccogliere i popoli attorno al segno di Cristo.
L’infanzia di Gesù è segnata dalla pienezza della sapienza (2,40.52) e dalla presenza della grazia di Dio sopra di lui. Questo mistero di nascondimento di Gesù a Nazaret è il mistero più eloquente di Dio. Questi anni di vita privata e nascosta del Figlio di Dio danno pieno significato e valore alla vita umana nella sua insignificanza del limite, del tempo e dello spazio.

41 I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42 Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; 43 ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44 Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45 non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46 Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. 47 E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48 Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: "Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo". 49 Ed egli rispose: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?". 50 Ma essi non compresero le sue parole.
51 Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 52 E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Tre volte all’anno c’erano celebrazioni che richiamavano a Gerusalemme i pellegrini, secondo il comando del Signore: "Tre volte all’anno farai festa in mio onore: Osserverai la festa degli azzimi…Osserverai la festa della mietitura…la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio" (Es 23,14-17).
Il figlio Gesù perduto è ritrovato dopo tre giorni nel tempio cioè nella casa del Padre, seduto. Questo fatto è preannuncio della pasqua di Gesù risorto e seduto alla destra del Padre.
Luca narra l’infanzia del Salvatore alla luce degli avvenimenti della sua pasqua di risurrezione. Il racconto che ha sfiorato, con le parole di Simeone, il dramma della passione (la spada), si chiude con l’annuncio della risurrezione. Il quadro dello smarrimento e del ritrovamento presenta anticipatamente il mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Maria e Giuseppe rappresentano la comunità cristiana, che ha perso improvvisamente il suo maestro, ma dopo "tre giorni" di attesa e di ricerca riesce a ritrovarlo risuscitato nella gloria del Padre.
Qui Gesù nomina per la prima volta il Padre. Le prime e le ultime parole di Gesù riguardano il Padre (Lc 2,49 e 23,46). La paternità di Dio fa da inclusione a tutto il vangelo di Gesù secondo Luca. Gesù "deve" essere presso il Padre, ascoltare il Padre e rispondere a ciò che il Padre ha detto. L’espressione del testo originale greco en tois tou patros mou dei einai me (v. 49) non significa devo occuparmi delle cose del Padre mio, ma devo essere presso il Padre mio.
Non deve meravigliare che Maria e Giuseppe "non compresero le sue parole" ( v. 50). Il cammino della rivelazione è ancora lungo. Siamo solo agli inizi.
Maria non comprende subito il grande mistero dei tre giorni di Gesù col Padre, ma custodisce nel suo cuore i detti e i fatti. In questo ricordo costante della Parola accolta, il cuore progressivamente si illumina nella conoscenza del Signore.
Il racconto dell’infanzia si conclude con il ritorno a Nazaret. Per tutto il resto dell’adolescenza e della giovinezza di Gesù Luca non ha nulla di straordinario da segnalarci all’infuori della sua umile sottomissione ai genitori. Nella famiglia egli ha preso il suo posto di figlio rispettoso e obbediente verso quelli che, per volontà del Padre, hanno la responsabilità su di lui.
L’evangelista conclude annotando che Gesù cresceva in sapienza, in statura e grazia. Egli si rivela sempre più assennato e nello stesso tempo piacevole, amabile. Vi è certamente anche un riflesso della sua bontà e della sua santità, ma non è detto esplicitamente.
I cristiani sono chiamati a ripercorrere l’esperienza di Maria per diventare come lei, figura e madre di ogni credente. Quanto si racconta di Maria in questi due capitoli è quanto deve fare il cristiano. Ma il modello sublime da imitare e da incarnare fino alla perfezione è soprattutto e sopra tutti il nostro Signore Gesù Cristo.

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CAPITOLO 03

1 Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, 2 sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. 3 Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, 4 com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
5 Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle sia abbassato;
i passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati.
6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

La comparsa di Giovanni Battista è il prologo immediato dell’evento della salvezza che inizia con la venuta del Signore. I dati cronologici sono espressi nello stile della Bibbia. Il tempo della salvezza inizia il quindicesimo anno dell’impero di Tiberio Cesare, cioè nell’anno 28 della nostra era. Tutti i dati riportati da Luca sono scrupolosamente esatti.
Giovanni Battista agisce come i grandi profeti del passato e si riallaccia alla tradizione profetica. La parola di Dio lo chiama, lo mette al proprio servizio e continua ad essere la forza dominante della sua vita.
La parola di Dio sta per compiere il suo ingresso decisivo non più nella storia d’Israele, ma nella storia dell’umanità; per questo nella sintesi della situazione storica posta all’inizio di questo capitolo sono ricordate la suprema autorità dell’impero romano e le autorità subalterne, compresi i sommi sacerdoti Anna e Caifa.
Giovanni è l’araldo che precede il suo Signore e proclama ciò che sta per accadere. Il messaggio che egli annuncia è il battesimo di pentimento per la remissione dei peccati. La conversione è la condizione preliminare: per mezzo di essa l’uomo si rivolge a Dio, riconosce la sua verità e la sua volontà, si allontana dai propri peccati e li condanna; e in questo consiste essenzialmente la penitenza.
Il battesimo, l’immersione nel Giordano, collegato con una confessione dei peccati (Mc 1,5), deve sigillare questa volontà di ravvedimento e contemporaneamente garantire la remissione dei peccati da parte di Dio. Il battesimo dà ai penitenti la consapevolezza che il loro pentimento è valido, che viene riconosciuto da Dio e che quindi è in grado di salvarli dall’imminente giudizio.
Chi ha ricevuto il battesimo di Giovanni è ben preparato a far parte del nuovo popolo di Dio. Si esige però che il pentimento sia autentico e accompagnato dal mutamento di vita.
Ciò che Giovanni annuncia è nuovo e grande: sta per cominciare il tempo del compimento delle promesse di Dio.
La voce di Giovanni si leva nel deserto e invita a preparare la via del Signore che viene. La preparazione della strada va compresa in senso religioso e morale: significa penitenza, conversione a Dio, battesimo di pentimento per la remissione dei peccati.
Preparare la via del Signore significa rimuovere gli ostacoli che impediscono il suo accesso nel cuore dell’uomo. Dio non può entrare dove c’è orgoglio e arroganza (monti e colli), freddezza o indifferenza (burrone). Occorre eliminare le aspirazioni smodate e sregolate, la presunzione, la pigrizia spirituale e mentale, le tortuosità e gli inganni.
L’umanità è ingombrata da centri di potere e da squilibri sociali. Queste e altre cose devono scomparire per fare spazio alla salvezza di Dio. Sono le stesse previsioni cantate da Maria: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili" (Lc 1,52).
La salvezza del Signore è universale, è destinata a tutti. L’unica condizione per riceverla è che ognuno si senta peccatore e bisognoso di essere perdonato e salvato da Dio.

7 Diceva dunque alle folle che andavano a farsi battezzare da lui: "Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? 8 Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre. 9 Anzi, la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco".

Tutti siamo "figli di vipere", figli del serpente (Gen 3,15), generazione velenosa, "per natura meritevoli d’ira" (Ef 2,3). Obbedendo alla menzogna del serpente antico, noi consideriamo Dio come cattivo e resistiamo al suo amore. A questa generazione del serpente si contrappone la generazione dei figli di Dio, che seguono Gesù nella sua missione: su costoro il veleno del serpente non ha più potere (Lc 10,19; At 28,3ss).
I frutti degni della conversione sono i frutti dell’albero buono, Cristo, in cui siamo innestati (Lc 6,43), sono i frutti dello Spirito (Gal 5,22).
Alludendo forse a Isaia 10,33-34, il Battista smonta la sicurezza di una falsa religiosità, che non regge il giudizio di Dio (cf Ger 7,1-7; 26,1-9). È la religiosità di cui parla la lettera di Giuda 4 a proposito degli "empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio", in quella religiosità che consiste in una fede senza le opere, e che Giacomo chiama demoniaca (Gc 2,14-26).
Il forte richiamo al giudizio è un pressante appello ad accogliere la salvezza. Gesù è venuto per liberarci dalla trappola della disobbedienza e per manifestare a tutti la misericordia del Padre (Rm 11,32).

10 Le folle lo interrogavano: "Che cosa dobbiamo fare?". 11 Rispondeva: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". 12 Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: "Maestro, che dobbiamo fare?".
13 Ed egli disse loro: "Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato". 14 Lo interrogavano anche alcuni soldati: "E noi che dobbiamo fare?". Rispose: "Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe". 15 Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, 16 Giovanni rispose a tutti dicendo: "Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 17 Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile".
18 Con molte altre esortazioni annunziava al popolo la buona novella.
19 Ma il tetrarca Erode, biasimato da lui a causa di Erodìade, moglie di suo fratello, e per tutte le scelleratezze che aveva commesso, 20 aggiunse alle altre anche questa: fece rinchiudere Giovanni in prigione.

Un vero spirito di penitenza pone sempre la domanda: "Che cosa dobbiamo fare?". La predica di Pietro a Pentecoste toccò il cuore degli ascoltatori ed essi dissero: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?" (At 2,37). La domanda sulle opere da fare manifesta il valore della penitenza.
Le opere in cui si manifesta il mutamento di vita e la seria penitenza sono l’amore sincero del prossimo, lo spartire con gli altri quello che si ha. La condivisione è l’unica prova dell’avvenuta conversione.
Giovanni non pretende che i suoi ascoltatori diano anche l’unica tunica che possiedono. Non pretende dalla gente l’eroismo, ma la misericordia, il concreto amore del prossimo, la solidarietà sociale. La vera conversione si dimostra dal posto dato all’uomo, soprattutto bisognoso e povero, prima ancora che dal posto dato a Dio.
I pubblicani incarnano la cupidigia del guadagno, la malafede, il tradimento verso il proprio popolo, perché spesso stavano al servizio dei dominatori stranieri. Neppure loro sono esclusi dalla strada verso la salvezza. Giovanni non esige che abbandonino il loro mestiere di gabellieri, ma che non arricchiscano frodando. Più tardi Gesù tratterà il pubblicano Zaccheo come fa ora Giovanni.
Ai giudei era proibito il servizio militare. Perciò questi soldati che si rivolgono a Giovanni sono dei pagani. Ogni restrizione è superata. "Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio" (Lc 3,6).
I peccati consueti del militare sono il latrocinio vessatorio, l’estorsione con false denunce, l’abuso di potere. La radice di questo modo di agire è l’avidità. L’avidità delle ricchezze dev’essere sostituita con la soddisfazione dello stipendio guadagnato onestamente. Neanche ai militari viene chiesto di cambiare professione.
Non si pretendono neppure particolari pratiche ascetiche. Giovanni segue la predica profetica di Michea: "Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio" (Mi 6,6-8).
Giovanni è un predicatore di penitenza, ma soprattutto è l’annunciatore della venuta del Signore. Tutto ciò non era molto chiaro per la gente. Per questo Giovanni presenta la sua vera identità: egli è un servo del Signore Gesù Cristo, un servo indegno di prestare anche il più umile servizio: quello di sciogliere i lacci dei sandali del suo Signore. Il suo abbassamento nei confronti del Messia non poteva essere più radicale.
Il punto più alto del discorso è la presentazione del Cristo come "il più forte di me" (v. 16). Giovanni spiega che lui non innalza l’uomo a Dio. Semplicemente lo immerge nella sua verità, nell’acqua del suo limite e della sua morte, nella sua creaturalità, in attesa che venga "il più forte di lui". Costui immergerà l’uomo nello Spirito Santo, nella vita stessa di Dio. Questo Spirito sarà la vera salvezza dell’uomo: lo farà partecipe della vita divina. Il fuoco di Dio brucia nell’uomo ogni male e lo purifica portandolo alla salvezza.
Connesso al tema del fuoco ritorna il tema del giudizio con allusione a Ml 3,19-20 e a Is 66,24. Il senso non è quello di condanna, ma quello di rivelazione della realtà per portare l’uomo alla conversione.
Sulla linea del testo iniziale (3,4-6) preso dal libro delle consolazioni di Isaia, la predicazione di Giovanni è chiamata "consolazione" più che esortazione, come troviamo nella traduzione del testo (v. 18).
Il ministero di Giovanni si conclude con uno sguardo riassuntivo della sua predicazione popolare. Egli reca la buona notizia, cioè il vangelo. Ciò sottolinea che il compito principale del Battista non è quello di annunciare un messia giudice, ma salvatore.
Il Battista è figura e trasparenza di Gesù che egli annuncia ed attende. Come Gesù, ha la sorte del rifiuto, dell’arresto e dell’uccisione. Il motivo per cui viene imprigionato ed ucciso è l’adulterio del re. In questo adulterio del capo si può vedere il popolo stesso che, da sempre ha ripudiato il suo Sposo e Signore. A causa di questo adulterio, che porta a rivolgersi agli idoli invece che a Dio, anche Gesù verrà ripudiato ed ucciso.

21 Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22 e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto".

L’evangelista non descrive il battesimo di Gesù. Fa vedere solamente che il battesimo di conversione dato da Giovanni ha consacrato l’appartenenza di Gesù al suo popolo. Il tema del cielo aperto è frequente nella letteratura apocalittica (cf. Ez 1,1ss) per esprimere la contemplazione delle verità celesti.
Luca ci ricorda che Gesù pregava. La preghiera è il luogo dell’esperienza dello Spirito Santo, cioè della vita e dell’amore di Dio in cui il battesimo ci ha posto. La preghiera apre il cielo.
Lo Spirito Santo rimane invisibile in noi, ma ne sentiamo la voce e ne riscontriamo gli effetti nei suoi frutti, che sono amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé (cfr Gal 5,22).
L’aleggiare della colomba richiama l’aleggiare dello Spirito di Dio sulle acque del caos primordiale (cfr Gen 1,2). È anche un’allusione a Noè, il padre dei salvati dall’acqua, che attende con trepidazione il ritorno della colomba che annunzia la fine della perdizione (cf. Gen 8,8-14). Ma questa colomba, che di continuo tuba il suo amore in ogni stagione, è la fedeltà stessa dell’amore di Dio che sempre e ininterrottamente canta il suo canto d’amore per l’uomo, in attesa di risposta. Ora scende sul nuovo Israele, sua sposa. E questa diviene la colomba che finalmente fa sentire allo sposo la sua voce, compiacendo il suo desiderio d’amore (Ct 2,14).
L’accentuazione della visibilità dello Spirito Santo è propria di Luca. Egli insiste sul carattere concreto e tangibile dell’esperienza dello Spirito. In Gesù di Nazaret lo Spirito si lascia vedere, ascoltare, toccare all’interno della storia umana.
A partire dal Cantico dei cantici (2,14; 5,2; 6, 9) e soprattutto dal Libro di Giona (Yonah vuol dire "colomba"), la colomba rappresenta la comunità credente, amata da Dio e missionaria.
Associare in forma così immediata la colomba allo Spirito Santo significa sottolineare che lo Spirito è disceso realmente su Gesù e la comunità cristiana ne fa esperienza in modo tangibile.
La voce del Padre esprime la Parola che è suo Figlio. Egli è l’amato, il Figlio unico del suo amore, votato come Isacco al sacrificio dell’obbedienza e, proprio per questo, principio del nuovo popolo di Dio (cf. Gen 22,2).
Nel battesimo Gesù fa propria la storia del peccato dell’umanità, scendendo fino in fondo nelle acque del diluvio, nel male degli uomini imprigionati nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia (Rm 11,32): su di lui riposa, infatti, la colomba di Noè, che annuncia la salvezza per una terra riemersa dal caos.

23 Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent’anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli, 24 figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innài, figlio di Giuseppe, 25 figlio di Mattatìa, figlio di Amos, figlio di Naum, figlio di Esli, figlio di Naggài, 26 figlio di Maat, figlio di Mattatìa, figlio di Semèin, figlio di Iosek, figlio di Ioda, 27 figlio di Ioanan, figlio di Resa, figlio di Zorobabèle, figlio di Salatiel, figlio di Neri, 28 figlio di Melchi, figlio di Addi, figlio di Cosam, figlio di Elmadàm, figlio di Er, 29 figlio di Gesù, figlio di Elièzer, figlio di Iorim, figlio di Mattàt, figlio di Levi, 30 figlio di Simeone, figlio di Giuda, figlio di Giuseppe, figlio di Ionam, figlio di Eliacim, 31 figlio di Melèa, figlio di Menna, figlio di Mattatà, figlio di Natàm, figlio di Davide, 32 figlio di Iesse, figlio di Obed, figlio di Booz, figlio di Sala, figlio di Naàsson, 33 figlio di Aminadàb, figlio di Admin, figlio di Arni, figlio di Esrom, figlio di Fares, figlio di Giuda, 34 figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo, figlio di Tare, figlio di Nacor, 35 figlio di Seruk, figlio di Ragau, figlio di Falek, figlio di Eber, figlio di Sala, 36 figlio di Cainam, figlio di Arfàcsad, figlio di Sem, figlio di Noè, figlio di Lamech, 37 figlio di Matusalemme, figlio di Enoch, figlio di Iaret, figlio di Malleèl, figlio di Cainam, 38 figlio di Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio.

Alla scena del battesimo fa seguito la genealogia di Gesù. Per Luca Gesù non è soltanto il discendente di Davide in cui si realizzano le promesse fatte da Dio al re di Giuda; non è soltanto un discendente di Abramo. È il compimento di tutta la discendenza di Adamo. E c’è ancora un passo da fare: attraverso Adamo, Gesù è il Figlio di Dio. Possiamo pensare che Luca intenda suggerire che ogni uomo è di stirpe divina, come viene affermato in Atti 17,28: "Noi siamo stirpe di lui".
Per Luca la genealogia di Gesù conferma e universalizza la presentazione che di lui ci ha fornito l’episodio della discesa dello Spirito Santo (3,21-22). Nella scena descritta dall’evangelista, Gesù appare in preghiera e nello stesso tempo solidale con tutto il popolo: Figlio di Dio e fratello degli uomini. Nella genealogia lo troviamo Figlio di Dio e radicato nella storia degli uomini.
Tra Gesù, proclamato dal Padre "Figlio mio", e Adamo, c’è tutta una distanza di 76 generazioni che hanno abbandonato Dio. Nell’obbedienza di Gesù al Padre, tutto è riportato a Dio. Per questo Gesù si pone come servo di tutti e ultimo di tutti: questo ultimo anello della catena di tutti gli uomini porta su di sé il male e la disobbedienza dei fratelli e riunisce tutti al Padre con la sua obbedienza. Senza Gesù le generazioni sono 66 e senza Dio; con Gesù sono 77 e unite a Dio. Gesù è chiaramente il nuovo Adamo. Come nel vecchio Adamo ogni uomo si staccò da Dio, così in Cristo ogni uomo si ricongiunge al Padre e trova la salvezza.
Colui che sta per essere condotto dallo Spirito nel deserto è davvero la salvezza di ogni uomo (Lc 3,6).

                                                                                           
CAPITOLO 04

1 Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto 2 dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame. 3 Allora il diavolo gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane". 4 Gesù gli rispose: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo". 5 Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: 6 "Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. 7 Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo". 8 Gesù gli rispose: "Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai". 9 Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; 10 sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano;
11 e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra".
12 Gesù gli rispose: "È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo". 13 Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.

Questo racconto serve per far comprendere il messianismo di Gesù che rifiuta di prendere il potere politico (cf. Mc 6,45; Gv 6,15), di fare un segno divino per costringere tutti a credergli (cfr Lc 11,16; Mc 8,11) e di seguire una via satanica che gli facesse evitare la croce per ottenere il Regno (cf. Mc 8,31-33).
Le tentazioni non sono da relegare solo all’inizio del ministero di Gesù. La sua vita fu tentazione e lotta fino alla fine.
Gesù esce dal Giordano pieno di Spirito. Lo stesso Spirito riempie anche noi e ci conduce nel deserto di questa vita perché usciamo vittoriosi dalla prova.
Il deserto è il simbolo della vita umana; è il cammino verso la terra promessa, verso Dio. È figura della vita stessa del battezzato, con tutti i suoi pericoli e le sue paure attraverso i quali lo Spirito lo conduce.
I quaranta giorni sono un’allusione ai quarant’anni trascorsi dal popolo d’Israele nel deserto.
Il diavolo è colui per la cui invidia entrò la morte nel mondo (cf. Sap 2,24), colui che insinuò nel cuore di Adamo il sospetto e la sfiducia in Dio e lo portò a disubbidire e ad allontanarsi da lui (cf. Gen 3). È il vero protagonista del male contro il quale Cristo lotta e vince.
La radice con cui questo male si radica nell’uomo è l’egoismo. Il rimedio al male è la fede.
Gesù è venuto nel mondo per mostrare il vero volto del Padre vivendo da Figlio. La tentazione continua dell’uomo è quella di non credersi creatura di Dio.
La forza per vincere la tentazione è il ricorso alle Scritture, l’obbedienza alla parola di Dio. Il primo pane, la prima sorgente della vita è Dio stesso. Egli non si pone in antagonismo con l’uomo, ma in rapporto di priorità rispetto a tutto il resto: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" (Mt 6,33).
Gesù non ottiene il Regno perché si abbassa ad adorare il diavolo, ma proprio perché lo rifiuta radicalmente. E questa scelta lo porterà sulla croce.
Proprio sulla croce Gesù inaugura il suo regno. Uno dei malfattori aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gli rispose: "In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,42-43).
Il regno di Dio sulla terra è l’adorazione del vero Dio perché è la libertà dell’uomo da ogni idolo. L’uomo, immagine di Dio, realizza se stesso solo se si pone in adorazione davanti a Dio.
Bisogna obbedire a Dio, non tentarlo. La nostra vita è salva se ci mettiamo nelle sue mani senza porre condizioni, vivendo radicalmente la preghiera insegnataci da Gesù: "Padre, … sia fatta la tua volontà".
Gesù supera ogni specie di tentazione. Così egli vince tutto il male dell’uomo e crea lo spazio di libertà dal maligno.
Il "tempo fissato" per il ritorno del diavolo è evidentemente il momento della Passione, dove l’istigazione di satana si manifesterà attraverso i capi del giudaismo e perfino attraverso qualche discepolo.
L’opposizione contro Gesù non è stata mossa da zelo religioso o da interesse per l’onore di Dio e dell’uomo, ma dall’attaccamento al proprio potere e al proprio prestigio.
Luca vuole indicare in Gesù, vincitore delle tentazioni del demonio, un modello a cui i cristiani devono ispirarsi nelle lotte che sostengono per non tradire i propri impegni battesimali.

14 Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15 Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18 Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 e predicare un anno di grazia del Signore.
20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui.

Gesù ha cominciato la sua vita per opera dello Spirito Santo, ora comincia la sua opera nella potenza dello stesso Spirito Santo.
Lo Spirito lo conduce in Galilea: Là era iniziata la sua vita, là comincia la sua opera. Nella disprezzata "Galilea dei pagani" zampilla la salvezza per la forza dello Spirito.
L’operare dello Spirito Santo provoca ammirazione e fama, che si diffonde per tutti i paesi all’intorno. Lo Spirito agisce in estensione: la sua forza vuole mutare il mondo, santificarlo, riportarlo a Dio.
In una città della Galilea, di nome Nazaret, Gesù fu concepito e allevato, giunse a maturità e dovette cominciare la sua opera secondo la volontà dello Spirito. Il suo inizio porta l’impronta di questa città insignificante e non credente, che si scandalizza del suo messaggio e cerca di assassinarlo. Il suo inizio parte dal nulla, dalla mancanza di fede dei suoi compaesani, dal peccato, dal rifiuto… Eppure Gesù comincia!
Comincia nella sinagoga annunciando che lo Spirito Santo è sopra di lui e che Dio l’ha mandato a portare la salvezza ai poveri, ossia a tutti, perché tutti siamo poveri.
Alla lettura segue la spiegazione, che è riassunta in una frase piena di penetrazione e di forza: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" (v. 21). La parola di Dio ha la sua radice nel passato, ma si realizza nell’"oggi", ogni volta che la Parola è annunciata. La Scrittura trova il suo compimento nell’orecchio dell’uditore che ascolta e obbedisce.
Anche per il lettore del vangelo il problema dell’attualizzazione della Parola consiste prima di tutto nell’ascolto del vangelo: l’obbedienza ad esso ci rende attuali all’oggi di Dio, contemporanei di Gesù, moderni, perché in Cristo ogni uomo trova il suo compimento.
Gesù annunzia e insieme porta il tempo della salvezza. Che il tempo della salvezza sia iniziato e che il Salvatore sia ormai presente, lo si può comprendere solo accogliendo questo messaggio. Non lo si vede né lo si sperimenta. Il messaggio della salvezza esige la fede; e la fede viene dall’ascolto, è risposta a una proposta.
Tutto il vangelo è un ascolto della parola di Gesù che ci rende contemporanei a lui: nell’obbedienza della fede, accettiamo in lui l’oggi di Dio che ci salva.
La profezia, che ora si compie, è il programma di Gesù. Egli non se l’è scelto da sé, ma gli è stato preparato dal Padre. Egli è l’Inviato del Padre. In lui il Padre visita gli uomini.
Gesù opera con la parola e con i fatti, con l’insegnamento e la potenza. Il tempo della grazia è sorto per i poveri, per i prigionieri e per gli oppressi. Il grande dono portato da Gesù è la libertà: libertà dalla cecità fisica e spirituale, libertà dalla miseria e dalla schiavitù, libertà dal peccato.
Finché Gesù rimane in terra, dura l’"anno di grazia del Signore". Cristo è anzitutto il donatore della salvezza, non il giudice che condanna. È il centro della storia, la più grande delle grandi opere di Dio.

21 Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi". 22 Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: "Non è il figlio di Giuseppe?". 23 Ma egli rispose: "Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!". 24 Poi aggiunse: "Nessun profeta è bene accetto in patria.
25 Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27 C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro".
28 All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29 si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.

La parola di Gesù non è un commento alla promessa di Dio giunta a noi per mezzo dei profeti, ma è la realizzazione che compie ciò che era promesso: è la buona notizia che è giunto tra noi colui che era stato promesso.
La Scrittura si compie sempre "oggi" e negli "orecchi" di chi ascolta. La parola di Gesù è chiamata "parola di grazia": in lui la grazia e la benevolenza di Dio si sono rese visibili e operanti.
Invece di aprirsi nella fede e lasciarsi coinvolgere nel dono di Dio, i suoi compaesani si bloccano e si irritano. Il messaggio viene accolto, ma il messaggero viene rifiutato. Il rifiuto nasce perché il messaggero pretende di essere ascoltato come inviato da Dio. La patria di Gesù lo rifiuta perché è un cittadino qualunque e non porta prove per sostenere la sua pretesa di essere l’Inviato da Dio.
Gli abitanti di Nazaret vogliono un segno che dimostri che Gesù è veramente il Salvatore promesso; pretendono che Dio dimostri la missione del suo profeta in un modo che piaccia a loro: in altre parole, tentano Dio. Ma l’agire di Gesù non è influenzato da ciò che gli uomini pretendono: fa soltanto ciò che Dio vuole.
Il profeta non agisce di sua iniziativa, ma è a disposizione solamente di Dio che l’ha mandato. Nell’Antico Testamento Dio ha disposto che Elia ed Eliseo non portassero il loro aiuto miracoloso ai loro connazionali, ma a dei pagani stranieri. A Gesù non è concesso di compiere miracoli nella sua città, ma a Cafarnao. Dio distribuisce la sua salvezza secondo la sua insindacabile volontà, perché la salvezza è grazia e non può essere pretesa per nessun motivo.
Gesù non dà prova di sé con i miracoli; per questo gli abitanti di Nazaret si sentono in diritto, o addirittura obbligati, a condannarlo a morte come bestemmiatore. La punizione della bestemmia si iniziava spingendo all’indietro il colpevole, per mezzo dei primi testimoni, fino a farlo cadere da un’altura.
Tutta l’assemblea della sinagoga di Nazaret giudica Gesù, lo condanna e cerca di eseguire immediatamente la sentenza. Si preannuncia l’insuccesso di Gesù in mezzo al suo popolo.
Egli verrà escluso dalla comunità del suo popolo, condannato come bestemmiatore e ucciso. Ma l’ora della sua morte non è ancora giunta. Della sua vita e della sua morte dispone Dio.
Nazaret viene abbandonata per sempre. Gesù prende la strada verso altre terre. I testimoni delle sue grandi opere non saranno i suoi concittadini, ma gli estranei, i pagani. Dio può suscitare figli di Abramo dalle pietre del deserto.
Il modo in cui Gesù ha scandalizzato i "suoi" di allora è identico a quello con cui scandalizza i "suoi" di oggi. La tentazione di addomesticare Cristo è di tutti e di sempre, ma Gesù non si lascia intrappolare: o lo si accoglie nel modo giusto o se ne va.

31 Poi discese a Cafarnao, una città della Galilea, e al sabato ammaestrava la gente. 32 Rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché parlava con autorità. 33 Nella sinagoga c’era un uomo con un demonio immondo e cominciò a gridare forte: 34 "Basta! Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? So bene chi sei: il Santo di Dio!". 35 Gesù gli intimò: "Taci, esci da costui!". E il demonio, gettatolo a terra in mezzo alla gente, uscì da lui, senza fargli alcun male. 36 Tutti furono presi da paura e si dicevano l’un l’altro: "Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?". 37 E si diffondeva la fama di lui in tutta la regione.

Dopo averci offerto una sintesi della predicazione di Gesù, Luca ci offre un saggio della sua attività di guaritore. Egli non solo insegna con autorità, ma comanda agli spiriti maligni con autorità e potenza (v. 46). La potenza di Gesù è la potenza dello Spirito santo che è in lui e lo rende forte contro satana (cf. 4,1-13).
I demoni sono i "teologi" di Cristo. Qui ne troviamo una conferma. Lo spirito maligno dice a Gesù:" Io so chi tu sei: il Santo di Dio" (v. 34). Il messia Gesù è venuto a sconfiggere le potenze del male. Questo primo miracolo ne è la conferma.
L’insegnamento di Gesù che aveva suscitato l’ira degli abitanti di Nazaret, qui a Cafarnao suscita un’esplosione di entusiasmo. Gesù stupisce per quello che dice, ma soprattutto per come lo dice, perché ha la capacità di rendere la sua parola credibile e accettabile ai suoi ascoltatori. Matteo scrive: "Egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi" (7,29).
Il demonio riconosce che Gesù è il Santo di Dio, perché, dovunque andava, Gesù rimuoveva e distruggeva tutto ciò che era immondo, impuro: il male, il peccato, le infermità, la morte. Il riconoscere che Gesù è il Santo di Dio, da parte del demonio, è la dichiarazione di una coscienza lucida che sa, ma che è staccata dal cuore, che vuole il contrario.
Questo conoscere il bene e la verità con la mente, e volere il contrario, questa scissione tra mente e cuore, tra verità e bene, è la stessa rottura che il demonio ha prodotto nell’uomo. Gli uomini devono essere liberati da questo male che impedisce loro di volere il bene.
Gesù è venuto a liberare l’uomo da tutte le forme di male. Questa liberazione è prodotta dalla potenza della sua parola. Ogni giorno possiamo fare esperienza anche noi di questa potenza di salvezza, se ascoltiamo con fede umile e sincera la parola del Dio vivente.

38 Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39 Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all’istante, la donna cominciò a servirli.
40 Al calare del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41 Da molti uscivano demoni gridando: "Tu sei il Figlio di Dio!". Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo.
42 Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro. 43 Egli però disse: "Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato". 44 E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.

Il breve racconto della guarigione della suocera di Pietro si conclude con un insegnamento importante: "Levatasi all’istante, la donna cominciò a servirli" (v. 39). Qui troviamo il significato di tutto il miracolo e di tutti i miracoli. Il fatto che essa si metta al servizio degli altri indica una guarigione molto più profonda di quella dalla semplice febbre del corpo. Essa è liberata da quella febbre che le impedisce di servire e la costringe a servirsi degli altri per essere servita. "Servire" è una parola carica di significati nel Nuovo Testamento. Gesù è il Servo di Dio e dei fratelli, il Giusto che per amore si fa carico del peso della debolezza altrui.
Il servirsi degli altri è il principio di ogni schiavitù nel male, il servire gli altri è il principio di ogni liberazione dal male. È nel servire che l’uomo diventa se stesso e rivela la vera identità di Dio di cui è immagine e somiglianza.
Con la parola "servire" il Nuovo Testamento intende l’amore fraterno concreto "non a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1Gv 3,18). Questa è la caratteristica specifica e fondamentale di Gesù, lasciata in eredità ai suoi discepoli prima di morire (Lc 22,24-27; Gv 13,1-17).
La liberazione che Gesù ci ha portato non ottiene il suo risultato nella semplice professione della fede, come fanno i demoni (Lc 4,34.41; Gc 2,19), ma nel servire, che è la vera liberazione dal male profondo dell’uomo, l’egoismo, che lo fa essere il contrario di Dio che è amore (1Gv 4,8.16). Alle tante domande "chi conta veramente nella Chiesa?; con quali occhi dobbiamo leggere la storia della Chiesa?; chi dobbiamo guardare per imparare dal vivo il vangelo?;... la risposta è una sola: a quelle persone "insignificanti" per il mondo, ma tanto significative per i credenti, che servono con umiltà e nel nascondimento. Essi ed esse sono la presenza viva e costante del Signore in mezzo a noi, essi ed esse sono i nostri maestri di vita cristiana.
Anche alla fine della sua vita Gesù chiamerà i suoi discepoli ad osservare una povera vedova che "dà tutta la sua vita"(Lc 21,4) perché imparino da lei la lezione fondamentale del suo vangelo.
Nei vv. 40-41 Gesù ci insegna come dobbiamo accostarci ai malati. Prima di tutto per Gesù il malato non è un numero: "egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva"; inoltre Gesù si occupa del malato, non del male. Il malato non è un caso clinico o un oggetto di studio: è una persona.
All’arrivo di Gesù, il demonio, che è la causa del male, è sconfitto e fugge. Il diavolo conosce la vera identità di Cristo e la proclama, ma la vera fede che salva viene solo dall’adesione del cuore all’annuncio della salvezza (Rm 10,8-10). E questa adesione del cuore e della vita il demonio non ce l’ha.
Il popolo comincia a seguire Gesù, ma Gesù si sottrae da loro perché la volontà del Padre, che egli ha compreso a pieno di buon mattino nel luogo deserto dove aveva conversato filialmente col Padre suo, lo vuole altrove. Questa volontà del Padre è presentata con le parole: "Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato".
Il regno di Dio è esattamente il contrario del regno dell’uomo. Questo regno ci viene donato da Dio in Gesù. Esso non viene né per azione, né per evoluzione, ma solo per umile invocazione: "Venga il tuo regno" (Lc 11,12).
Nei vv. 40-41 Luca ci offre un primo sommario di opere miracolose. Nella storia della salvezza Dio si è sempre rivelato con parole e azioni, e Gesù ora fa lo stesso. Un lungo discorso aveva aperto il suo ministero a Nazaret, una lunga serie di guarigioni conclude ora a Cafarnao la sua attività missionaria. Per la prima volta Gesù si incontra con una folla numerosa di malati, venuti o trasportati da ogni luogo.
I vangeli presentano più spesso Gesù attorniato da folle bisognose di guarigione che desiderose di ascoltare la parola di Dio. In questa circostanza egli appare come un medico premuroso che si prende cura di ciascuno e impone le sue mani ad uno ad uno dei malati e li guarisce.
I miracoli biblici sono stati visti spesso più come una manifestazione della potenza di Dio che come momenti della salvezza dell’uomo. Essi, invece, sono come delle piccole luci che Dio accende sul cammino dell’uomo per dimostrargli che fa storia con lui, che non l’abbandona a se stesso o in balia del male, ma che l’assiste sempre con la sua paterna presenza.
Il miracolo ha pure un significato di protesta contro il male e di annuncio di salvezza presente e futura. Cristo combatte il male con tutte le sue forze e comanda a noi di continuare la sua missione facendo altrettanto, ossia il massimo.
La malattia, la miseria d’ogni genere non sono un bene, ma uno squilibrio che deve scomparire grazie all’operosità congiunta di Dio e dell’uomo.
Gesù ha bisogno di solitudine e di raccoglimento. Deve incontrarsi con il Padre per comprendere le scelte da fare e il cammino da percorrere.
L’inseguimento della folla è ben spiegabile, dopo i successi e i prodigi del giorno prima.
Forse qui c’è anche un richiamo polemico ai suoi concittadini di Nazaret: qui a Cafarnao è trattenuto perché non parta, lì era stato cacciato con ira e con violenza, rischiando persino di essere spinto nel burrone.
Gli uomini vogliono trattenerlo, ma la sua partenza è fuori discussione perché non dipende dalla sua volontà. Il suo cammino ha ben altre motivazioni e non può essere arrestato né dai nemici né tanto meno dagli amici. Nemmeno da lui stesso. L’incontro con il Padre suo, nel luogo deserto (cf. v. 42), gli ha rivelato con certezza la volontà di Dio:" Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato (dal Padre)". Il cammino che Gesù è chiamato ad intraprendere fin dal suo battesimo è quello del servo-figlio obbediente e non del signore.
Gesù annuncia il regno di Dio. L’instaurazione di questo regno segnerà la fine del peccato, del male e di qualunque ingiustizia. Per Gesù "evangelizzare il regno di Dio" sintetizza tutta la sua missione. Evangelizzare i poveri significa aprire ad essi le porte del regno: qui la loro miseria finirà e le loro aspirazioni saranno pienamente esaudite.
Il Signore non verrà a sedersi tra i sovrani della terra, accanto a quelli che opprimono gli uomini, ma instaurerà, in mezzo ai credenti e agli uomini che seguono onestamente i dettami della loro coscienza, lo stesso regime di vita, di pace, di santità che vige presso di lui in cielo.
Il regno di Dio è già instaurato e la strada per arrivarci è quella percorsa da Cristo. Egli è il salvatore e il liberatore nel senso più pieno e totale della parola.

CAPITOLO 05

1 Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret 2 e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3 Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca.
4 Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: "Prendi il largo e calate le reti per la pesca". 5 Simone rispose: "Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti". 6 E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. 7 Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. 8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore". 9 Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; 10 così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: "Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini". 11 Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Sullo sfondo dell’attività di Cristo appaiono Pietro e i suoi colleghi. Essi sono i collaboratori di un fatto prodigioso, ma rimangono pur sempre le povere persone che erano in precedenza. Pietro lo confessa a nome proprio e dei colleghi dichiarandosi peccatore. Davanti alla verità di Dio, Pietro scopre la propria verità e si sente indegno. Non c’è rivelazione di Dio senza coscienza del proprio peccato. Possiamo conoscere l’infinita grandezza di Dio solo contemporaneamente alla scoperta della nostra bassezza.
L’efficacia della pesca miracolosa non è dovuta alla loro abilità, ma al comando impartito da Gesù. Tutto il loro merito è di aver creduto alla sua parola. L’inutilità della fatica notturna indica la vanità di tutti gli sforzi umani fatti di propria iniziativa per instaurare il regno di Dio. Solo nell’obbedienza alla parola del Signore si può ottenere ciò che è impossibile alle forze umane. La fede non ha altro appoggio che la parola di Dio. Proprio per questa fede Gesù cambia il nome di Simone in Pietro e gli dà un incarico nuovo: "D’ora in poi sarai pescatore di uomini" (v. 10).
Pietro riceve la sua missione proprio mentre si riconosce peccatore. Ciò vuol dire che essa non decadrà neanche per il suo peccato di infedeltà, perché si fonda sulla fedeltà di Dio. Simone diventerà Pietro e riceverà l’incarico di confermare nella fede i suoi fratelli proprio quando avrà consumato fino in fondo la propria esperienza di debolezza, di infedeltà, di peccato (Lc 22,31-34). Non sarà quindi "pietra" per le sue qualità, ma per la fedeltà di Dio.
Questi pescatori, che hanno creduto nella parola di Cristo, lasciano subito barche e reti e si mettono a seguire Gesù. Egli li manda a liberare gli uomini dal potere della morte e a trasferirli nel regno della vita, nel regno di Dio.
L’azione missionaria di Gesù passerà a dei poveri, sprovveduti pescatori di Galilea, i quali lasciano il loro mestiere e si avventurano sui mari tempestosi del tempo per salvare dalla morte eterna tutti i popoli della terra.
Ma per essere veri discepoli di Gesù bisogna lasciare tutto, incominciando a lasciare se stessi per diventare proprietà esclusiva di Cristo.

12 Un giorno Gesù si trovava in una città e un uomo coperto di lebbra lo vide e gli si gettò ai piedi pregandolo: "Signore, se vuoi, puoi sanarmi". 13 Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: "Lo voglio, sii risanato!". E subito la lebbra scomparve da lui. 14 Gli ingiunse di non dirlo a nessuno: "Va’, mostrati al sacerdote e fa’ l’offerta per la tua purificazione, come ha ordinato Mosè, perché serva di testimonianza per essi". 15 La sua fama si diffondeva ancor più; folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. 16 Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare.

La guarigione del lebbroso manifesta la salvezza dell’uomo pienamente reintegrato nel popolo e nei privilegi dell’alleanza. La benedizione di Dio si manifesta in forma tangibile in mezzo al suo popolo attraverso la potenza di guarigione di Gesù.
L’uomo che si presenta a Gesù è pieno di impurità e di morte. È esattamente il contrario di Gesù che è uscito dal Giordano "pieno di Spirito Santo" (4,1), cioè pieno della vita di Dio. La lebbra rende l’uomo un morto civile e religioso, che la legge esclude dalla società e dal culto (Lv 13). L’unica legge che il lebbroso è tenuto ad osservare è quella di escludersi totalmente dal consorzio umano (Lv 13,45).
È importante il fatto che Gesù toccò il lebbroso. Egli tocca colui che non poteva essere toccato, sfonda barriere e leggi, e raggiunge l’uomo nella sua debolezza. Con questo gesto Gesù si identifica con l’umanità piena di lebbra e di peccato. In Gesù, Dio si rivela come identità tra volere e potere: "Lo voglio, sii risanato!" (v. 13). Il contatto con Gesù sana l’uomo dalla lebbra della morte e lo purifica.
Gesù non ha mai cercato la pubblicità: è ciò che deve anche distinguere il cristiano dagli altri. Egli invia il lebbroso guarito dai sacerdoti, tutori della legge, perché constatino che ciò che la legge non può fare è avvenuto: mondare l’uomo dalla morte.
Nei versetti immediatamente successivi, gli scribi e i farisei constateranno il perdono di Dio sulla terra, che nessuna legge può dare. La legge infatti può solo condannare il peccato. Dio invece tocca l’uomo nella sua miseria e lo libera.
Nel v. 15 è interessante l’accostamento tra "ascoltare" ed "essere guariti". La parola di Gesù è la potenza stessa di Dio che guarisce coloro che accorrono a lui con la coscienza e la fede del lebbroso.
L’accenno alla preghiera di Gesù del v. 16 è importante. Egli non si lascia assorbire dall’attività della predicazione e delle guarigioni. La sua dimora e il termine del suo cammino è il Padre (cf. Lc 2,49; 23,46).

17 Un giorno sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18 Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. 19 Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. 20 Veduta la loro fede, disse: "Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi". 21 Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: "Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?". 22 Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: "Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? 23 Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? 24 Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico - esclamò rivolto al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua". 25 Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. 26 Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: "Oggi abbiamo visto cose prodigiose".

L’insegnare e il guarire costituiscono l’attività di Gesù. La fama delle sue guarigioni e della sua dottrina si è diffusa in tutta la  Palestina.
In questa occasione Gesù opera in una casa. La folla è così numerosa che è impossibile giungere da lui passando per la porta di casa. Ma la fede dei credenti che portano il malato da Gesù non si lascia scoraggiare da questo inconveniente, anzi, la difficoltà aguzza l’ingegno. La fede vera si fa carico anche delle difficoltà e degli ostacoli, ha perseveranza, coraggio e fantasia, non cerca scuse per desistere, ma sfida le difficoltà. Il malato viene calato all’interno della casa attraverso il tetto scoperchiato.
Coloro che portano il paralitico da Gesù non chiedono niente, ma il gesto da loro compiuto è più eloquente di qualunque supplica. Gesù l’interpreta come una dimostrazione di fiducia in lui, accoglie la loro tacita richiesta e dice al paralitico: "Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi" (v. 20).
La paralisi è simbolo del peccato che immobilizza l’uomo nel suo cammino verso Dio. Questo paralitico rappresenta tutta l’umanità incapace di muoversi verso il proprio fine. Sembra che l’accesso a Gesù sia impedito dagli scribi e dai farisei. È forse un’allusione alle difficoltà che incontrano gli esclusi, i peccatori e i pagani per arrivare a Cristo a causa dei farisei di allora e di tutti i tempi.
Gli scribi e i farisei sono i rappresentanti e i custodi della legge. E la legge non perdona il peccato: lo evidenzia. Il perdono è una "bestemmia" per qualunque legge perché è contro la sostanza stessa della legge. Quando la legge viene assolutizzata e assume il valore stesso di Dio, diventa un idolo impersonale, cieco e spietato, presso il quale non esiste tribunale d’appello. L’uomo è liberato dalla maledizione della legge così intesa, solo se accetta il dono di Dio che è gratuito, cioè l’amore e il perdono, offerti come grazia.
Per i farisei è più difficile perdonare i peccati che far camminare un paralitico. Gesù fa le due cose: guarisce il corpo e perdona i peccati.
In Gesù è presente sulla terra la potenza di Dio che sana e perdona i peccati. Il paralitico ora cammina sulla via di casa sua e nello stesso tempo ha ripreso a camminare verso la casa del Padre con il quale è stato riconciliato per mezzo del perdono. Ritornando a Dio, l’uomo ritrova veramente se stesso.
È l’esperienza di risurrezione di tutti coloro che incontrano Gesù. È l’esperienza del battezzato che è risorto a vita nuova e può camminare verso Dio, cantando la sua gioia e la sua riconoscenza.

27 Dopo ciò egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi!". 28 Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì.
29 Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. 30 I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: "Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?". 31 Gesù rispose: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; 32 io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi".

L’essenza del cristianesimo non è una dottrina, ma la persona di Gesù. Egli rivolge ad ogni uomo l’invito: "Seguimi" (v. 27).
Levi lascia tutto e segue Gesù. Non è un atto di rinuncia fine a se stesso. È il gesto di uno che ha scoperto il vero tesoro nel campo della sua vita, di chi ha trovato la perla preziosa (cf. Mt 13).
Gesù mangia con Levi e i suoi amici. Dio diventa nostro commensale e noi diventiamo un’unica famiglia con lui. Egli chiama a questo banchetto gli esclusi e i peccatori. La sua cena non è riservata ai "puri". Proprio per questo essi rifiutano di parteciparvi e brontolano.
Gesù si immerge nel mondo dei peccatori per far sorgere in esso la conversione. La sua missione è di salvare i peccatori, come quella del medico è di guarire i malati.
Il guaio dei farisei di tutti i tempi è di non voler capire che la salvezza è dono dell’amore di Dio e non merito dell’uomo. Ciò che salva l’uomo non è il suo amore per Dio, ma l’amore gratuito di Dio per lui.

33 Allora gli dissero: "I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!". 34 Gesù rispose: "Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro? 35 Verranno però i giorni in cui lo sposo sarà strappato da loro; allora, in quei giorni, digiuneranno". 36 Diceva loro anche una parabola: "Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. 37 E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. 38 Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi. 39 Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!".

È utile spiegare il significato del digiuno e della supplica. Come il cibo è vita, così il digiuno è privazione di vita, cioè morte. Esso è una pratica religiosa indispensabile per prendere coscienza della propria realtà di creatura e del proprio limite: l’uomo non ha la vita in proprio, ma la riceve da Dio come dono. Questo è il fondamento di un rapporto corretto con Dio, con se stessi, con gli altri e con le cose. È il gesto più alto di libertà della creatura, che consiste nel riconoscere la propria verità senza mentire.
Così anche la supplica, che è la forma primordiale della preghiera, è sempre invocazione di qualcosa che non si possiede e di cui si ha bisogno. Essa esprime con lo spirito la fame e la sete di Dio che il corpo manifesta attraverso il digiuno.
Nel Vangelo questi due aspetti fondamentali dell’uomo vengono superati: al digiuno subentra il banchetto, alla supplica lamentosa la danza della gioia nuziale. I cristiani sostituiscono ogni pratica religiosa con il mangiare e il bere, cioè con l’Eucaristia. Invece di digiunare e di supplicare, mangiano e bevono.
Gesù dice il motivo di questa sazietà ed ebbrezza di vita concessa ai discepoli. Essi stanno partecipando al banchetto di nozze tra Dio e l’uomo. In Gesù l’umanità, che è la sposa, consuma le nozze con lo sposo, che è Dio.
Le nozze sono uno dei simboli preferiti dell’Antico Testamento per esprimere il significato profondo del rapporto tra l’uomo e Dio che gli ha dato come primo comandamento: "Ascoltami!… Amami!" (Dt 6,4-5).
Questa immagine ci permette di conoscere chi sia Dio per l’uomo e l’uomo per Dio. Dio è passione per l’uomo, lo ama e cerca di unirsi a lui. L’amore porta ad unirsi, a fondersi e a identificarsi con la persona amata.
Così Dio, in Gesù si unisce, si fonde, si identifica con l’uomo, perché ogni uomo possa, a sua volta, amare Dio "con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5) e identificarsi con Dio in Cristo.
La natura vera dell’uomo può essere capita solo se si considera la passione che Dio ha per lui, come quella di uno sposo per la sua sposa (Ef 5,32). È questo amore di Dio che dà all’uomo la sua essenza, la sua esistenza e la sua smisurata dignità.
Solo ponendo il suo capo sul cuore di Dio, l’uomo è appagato in ogni suo più profondo desiderio. L’uomo è se stesso solo nel suo rapporto con Dio. Dio è qui e si è unito all’uomo.
La parabola dei vv. 36-39 ci insegna che il vestito nuovo dell’uomo è Cristo risorto (Gal 3,27). Per il battezzato è indispensabile prendere coscienza di questa novità di vita, per non fare operazioni inutili e dannose come strappare una pezza dal vestito nuovo per cucirla su quello vecchio. Fuori metafora: non si può continuare a vestire l’uomo vecchio rattoppandolo con qualche novità evangelica. Ciò che è vecchio va buttato: "Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera" (Ef 4,22ss).
Gli otri nuovi sono gli uomini nuovi che contengono il vino nuovo che è lo Spirito Santo. Il vino migliore è proprio quello nuovo, offerto generosamente dal Cristo (Gv 2,10).
È un invito a superare la falsa sapienza dell’ovvio, del ripetitivo, che è sempre rivolta al passato, e ad avere il coraggio del nuovo che è ignoto.

CAPITOLO 06

1 Un giorno di sabato passava attraverso campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe, sfregandole con le mani. 2 Alcuni farisei dissero: "Perché fate ciò che non è permesso di sabato?". 3 Gesù rispose: "Allora non avete mai letto ciò che fece Davide, quando ebbe fame lui e i suoi compagni? 4 Come entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non fosse lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?".
5 E diceva loro: "Il Figlio dell’uomo è signore del sabato".

Presso gli ebrei i poveri, quando erano affamati, potevano raccogliere le spighe dai campi, secondo la norma di Deuteronomio 23,26: "Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne spighe con la mano, ma non mettere la falce nella messe del tuo prossimo". Le spighe venivano stropicciate tra le mani e si mangiavano i chicchi che ne uscivano. Allora dove sta il problema? Secondo l’interpretazione della legge, questo poteva essere fatto tutti i giorni della settimana, fuorché il sabato. E c’era anche una penale. Se il lavoro di sabato era compiuto inavvertitamente, il colpevole veniva ammonito e doveva offrire un sacrificio espiatorio. Se invece il sabato era trasgredito nonostante i testimoni e la precedente ammonizione, il reato prevedeva la pena di morte per lapidazione. L’ammonizione è rivolta direttamente ai discepoli, però allude a Gesù. E Gesù risponde con una contro-obiezione, citando la Scrittura (1Sam 21,1-7), cioè l’autorità più alta e da tutti riconosciuta come parola di Dio. I pani dell’offerta, in numero di dodici, uno per ogni tribù d’Israele, rimanevano su un tavolo per la durata di una settimana nel Santo del tempio, come offerta a Dio. Nessuno poteva mangiarli, se non i sacerdoti quando era passata la settimana. Davide però e i suoi compagni li mangiarono, perché erano affamati e non c’era altro pane a disposizione. Nessuno biasima per questo Davide, né la Scrittura, né i dottori della legge, perché la necessità scusa la trasgressione della legge. Quindi anche i discepoli di Gesù non trasgrediscono la legge, se di sabato stropicciano le spighe perché hanno fame. Nell’interpretazione della legge bisogna cercare la volontà di Dio e il vero bene dell’uomo. E Dio non ha dato la legge per tormentare gli uomini, ma per renderli felici. Il sabato serve per risolvere le necessità del prossimo, non per creargli ulteriori grattacapi.

6 Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. Ora c’era là un uomo, che aveva la mano destra inaridita. 7 Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva di sabato, allo scopo di trovare un capo di accusa contro di lui. 8 Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano inaridita: "Alzati e mettiti nel mezzo!". L’uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. 9 Poi Gesù disse loro: "Domando a voi: È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o perderla?". 10 E volgendo tutt’intorno lo sguardo su di loro, disse all’uomo: "Stendi la mano!". Egli lo fece e la mano guarì. 11 Ma essi furono pieni di rabbia e discutevano fra di loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.

Nella Bibbia l’occhio indica l’intelligenza, il cuore la volontà, la mano l’azione. Guarendo la mano inaridita dell’uomo, Gesù gli dà la capacità di fare nuovamente il bene. Commentando questo brano sant’Ambrogio scrive: "Il Signore impregna del salutare frutto delle buone opere quella mano che Adamo aveva allungato per cogliere i frutti dell’albero proibito, in modo che essa, inaridita per la colpa, sia guarita per le buone opere". Con questo miracolo l’uomo viene restituito alla sua capacità originaria di continuatore dell’opera di Dio. Nell’incontro con Gesù siamo finalmente guariti dal male di non riuscire a fare il bene.
Gesù davanti a un malato non può restare indifferente, ma ricorre a tutti i suoi poteri per soccorrerlo e guarirlo. Il principio che guida Gesù è la legge della carità che è superiore a qualsiasi altra legge, anche a quella del sabato. Secondo quanto Gesù ci ha insegnato, "il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato" (Mc 2,27) e quindi il sabato è per il bene dell’uomo, perché l’avvicina maggiormente a Dio e ai fratelli. Dunque, non solo Gesù non trasgredisce il sabato, ma è l’unico che lo osserva alla perfezione, perché fa il bene. I suoi avversari, invece, non osservano il sabato perché non fanno il bene e, se fosse loro possibile, impedirebbero anche a Gesù di compierlo.
Al centro della vita, della storia, della religione e di quant’altro Gesù mette l’uomo, non la legge; l’uomo malato, colui che solitamente viene emarginato perché non soddisfa il nostro egoismo e fa appello al nostro poco amore. Ogni giorno della vita, compresa la domenica cristiana, è voluto da Dio per il bene dell’uomo. Non fare il bene è male, è un peccato di omissione. La lettera di san Giacomo non lascia dubbi: "Chi sa fare il bene e non lo compie, commette peccato" (4,17).

12 In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. 13 Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: 14 Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15 Matteo, Tommaso, Giacomo d’Alfeo, Simone soprannominato Zelota, 16 Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore.
17 Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18 che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. 19 Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.

Gesù ha compiuto la sua prima manifestazione, ha avuto il suo primo incontro con il popolo e le autorità religiose del paese; ora ha bisogno di una lunga notte di riflessione, di preghiera e di contatto con il Padre.
L’opera che ha avviato è destinata a sopravvivere nel tempo, per questo egli deve scegliere degli uomini che condividano la sua causa e la portino avanti nei secoli. Secondo il vangelo di Luca, la Chiesa e la sua organizzazione essenziale provengono direttamente da Cristo.
Gesù sale sul monte per trovare nell’incontro con il Padre la chiarezza necessaria per scegliere i dodici apostoli. Il numero dodici richiama quello dei patriarchi dell’Antico Testamento. Si delinea così la nascita del nuovo popolo di Dio.
La preghiera sta all’origine di ogni scelta e azione apostolica di Gesù e della Chiesa. Il giorno della Chiesa spunta dalla notte di Gesù passata in comunione col Padre. Ciò non vuole assolutamente dire che le scelte che il Padre e il Figlio fanno, chiamando i dodici e gli altri dopo di loro lungo i secoli, saranno le migliori secondo la nostra logica umana. La struttura portante della Chiesa è zoppicante fin dall’inizio, sempre aperta al tradimento e al rifiuto del Signore. Pietro e Giuda ne sono le figure emblematiche. E tutto questo non è uno spiacevole imprevisto, ma è una realtà che fa parte del progetto di salvezza.
Il motivo che spinge la gente verso Gesù è il bisogno di ascoltare la parola di Dio e di essere guarita. Come la parola del serpente portò il male e la morte (cfr Gen 3), così la parola di Dio guarisce dal male e dà la vita. C’è infatti una stretta connessione tra l’ascolto della parola di Dio e la guarigione, come tra la disobbedienza alla parola di Dio e la morte (cf. Dt 11,26-32). "Il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte" (Rm 5,12) perché l’uomo ha ascoltato il serpente. L’uomo diventa ciò che ascolta. Se ascolta Dio diventa figlio di Dio, se ascolta il diavolo diventa figlio del diavolo.
Come la gente di allora, anche noi possiamo toccare e sperimentare la potenza di Gesù se ascoltiamo la sua parola. La parola di Dio infatti "è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16). Infatti "è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione" (1Cor 1,21).

20 Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva:
"Beati voi poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
21 Beati voi che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi che ora piangete,
perché riderete.
22 Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. 23 Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti.
24 Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già la vostra consolazione.
25 Guai a voi che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete.
26 Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti.

In questo testo del vangelo Gesù annuncia l’arrivo della salvezza promessa da Dio. Egli proclama il mondo dei valori di Dio, capovolge la scala dei valori dell’uomo e annuncia il modo con il quale Dio salva. Le beatitudini per i poveri e le lamentazioni per i ricchi non vanno lette in chiave moralistica, cioè non dicono che cosa deve fare l’uomo. Manifestano invece che cosa fa Dio in Gesù e rivelano come agisce Dio nella storia umana. Nella discesa di Mosè dal monte, Dio, per mezzo dei dieci comandamenti, rivelò all’uomo cosa doveva fare; nella discesa di Gesù dal monte, Dio rivela che cosa fa lui. L’intento di questo proclama è di rivelarci il volto di Dio in Cristo. In lui vediamo come Dio dona a noi il suo regno.
Il verbo al presente della prima beatitudine e della prima lamentazione (v. 20:è, v. 24: avete) significa che il regno di Dio è già ora dei poveri e che già ora i ricchi se ne escludono con un surrogato di consolazione.
Le beatitudini si possono comprendere solo conoscendo che Dio è amore per tutti. Per questo la sua giustizia è togliere a chi ha abusivamente e dare a chi non ha ingiustamente. Il nostro concetto di giustizia "a ciascuno il suo", più che sulla giustizia di Dio che è amore, si fonda sull’ingiustizia umana e ne codifica l’egoismo da cui trae origine.
La distinzione poveri-ricchi è di facile attribuzione all’esterno, ma di difficilissima lettura all’interno della coscienza dell’uomo. Solo la parola di Dio che penetra nel profondo dell’uomo ci fa capire se siamo dei poveri-beati o dei ricchi-infelici.
Gesù proclama felici i poveri non perché sono bravi o hanno dei meriti speciali, ma perché Dio ama ciascuno secondo il suo bisogno, e il povero è colui che ha più bisogno.
Il cristiano deve impegnarsi a favore dei poveri per imitare Gesù. La storia e la cronaca del mondo attuale, piena di miserie, di fame, di pianto e di ogni genere di mali è lo spazio d’azione del credente, se vuole essere anche credibile.
I discepoli sono beati anche perché partecipando al mistero di persecuzione e di morte del Cristo sono associati più profondamente alla sua missione di salvezza. In questa circostanza non devono accontentarsi di avere pazienza o di attendere che passi al più presto il momento della prova, ma devono vivere intensamente in sé quanto dice il Maestro:" Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli" (6,23).
Le felicitazioni e le congratulazioni per i poveri si fanno lamentazioni e condoglianze per i ricchi. Il "guai a voi" non è un grido di vendetta o di minaccia, ma un estremo grido di compianto, di compassione e di lamento che Gesù rivolge ai ricchi perché mettono le cose al posto di Dio e non hanno ancora sperimentato la gioia di colui che vende tutto per acquistare il tesoro che è Cristo (cf. Mt 13,44).
Il regno di Dio progredisce là dove il male e la miseria di ogni genere regrediscono e scompaiono. La comunità cristiana è sulla strada di Cristo solo quando si prende cura dei poveri, degli affamati, degli afflitti, e lotta contro le persone o le situazioni che sono la causa di questi squilibri. L’ingordigia di alcuni è la causa della miseria di molti. E quel che è peggio è che i ricchi hanno sempre ragione. Per questo la Chiesa deve stare molto attenta a non "benedire" i tiranni, i malfattori, gli affamatori di popoli..., o a tacere, a fin di bene, lì dove Cristo avrebbe alzato solennemente la sua voce senza paura di andare alla morte di croce. Una Chiesa che non è osteggiata e perseguitata dai potenti di questo mondo può essere veramente la Chiesa di Cristo?
Il messaggio cristiano ha pure una prospettiva oltre la morte: la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Ma prima bisogna giocare tutte le carte che la situazione presente ci fornisce. È vero costruttore del regno di Dio chi si impegna con tutte le sue possibilità a rendere più abitabile la terra. La risurrezione non cancella la storia, ma divinizza tutto ciò che noi stiamo umanizzando.

27 Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, 28 benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. 29 A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. 30 Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. 31 Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. 32 Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. 33 E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. 34 E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. 35 Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.
36 Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. 37 Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; 38 date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio".

Queste parole di Gesù sono strettamente autobiografiche: lui per primo ha fatto quello che ora comanda a noi. Di conseguenza dobbiamo amare il prossimo come Dio lo ama e ama noi.
Il comandamento dell’amore riguarda innanzitutto i nemici. Infatti l’esperienza primordiale del credente è quella di essere stato amato da Dio quando era ancora suo nemico (Rm 5,6-11).
Questo amore verso il nemico è l’agàpe, l’amore stesso con il quale Dio ci ama, ed è Dio stesso. L’amore per il nemico è la prova per vedere se realmente abbiamo conosciuto Dio. Chi non ama il nemico non conosce Dio.
L’amore per il nemico è il fondamento pratico del cristianesimo, che in altre parti del vangelo si esprime come perdono (cf. Lc 6,36-38; Mt 6,11-12.14-15; 18,21-35).
Gesù ama i peccatori perché odia il peccato. Noi odiamo i peccatori perché amiamo il peccato. Se non amiamo i nemici, siamo nemici di Dio stesso, che li ama perché sono suoi figli. Separarsi dai nemici è separarsi da Dio, che nella sua misericordia si è unito a loro.
L’inimicizia dell’altro proviene quasi sempre dal mio egoismo che lo vuole asservire. L’altro non è visto come fratello, ma come strumento del mio egoismo.
Amare i nemici e amare il prossimo è la stessa cosa: "I nemici dell’uomo sono quelli di casa sua" (Mi 7,6; Mt 10,36). Il nemico lontano è meno detestabile del prossimo vicino.
L’amore non è solo un atteggiamento interiore di misericordia. Come ogni amore, si esprime più nei fatti che nelle parole. Come la fede senza le opere è morta, così l’amore del nemico non esiste se non gli facciamo del bene con creatività e fantasia. Dev’essere però un bene per lui, non per me. Dev’essere un’esaltazione del nemico nell’amore, non l’umiliazione del fratello nel disprezzo e nell’odio. Il perdono è umiltà e amore, non atteggiamento di superiorità e vendetta. Il bene fatto al nemico con atteggiamento moralistico e compassione superba lo porta al rifiuto del perdono e all’indurimento nel male e manifesta la nostra cattiveria e stupidità.
Il nostro sommo bene ci viene proprio dall’amore dei nemici, perché ci dà la possibilità di amare come ama Dio, nella totale gratuità.
"Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (v. 31). È la regola d’oro che sintetizza tutto quanto è stato detto finora. Rabbì Hillel l’aveva insegnata in forma negativa: "Ciò che dispiace a te, non farlo a nessuno. Questa è tutta la legge: il resto è commento". Ma per osservare questo comandamento negativo basta non fare nulla. Gesù invece comanda di fare tutto il bene con la creatività propria dell’amore: impegno da infarto quotidiano! Ovviamente, per vivere queste parole di grazia occorre il dono dello Spirito che ci dà il cuore nuovo.
Per amare come Dio bisogna amare a senso unico: dare tutto senza pretendere nulla. Il fondamento di ogni morale è "essere come Dio". Dio ci ama senza condizioni e senza riserve e ci rende capaci di amare gli altri così come sono, senza condizioni e senza riserve. E i primi aventi diritto al nostro amore sono i più bisognosi, i più disgraziati, i nemici.
L’amore di misericordia è il solo amore capace di creare un mondo nuovo, salvandolo dalla distruzione in cui l’egoismo l’ha precipitato. L’amore di scambio è tipico dei peccatori. Il prezzo della vita è la gratuità.
Quanto Dio ha fatto nella creazione e nella redenzione è amore e gratuità: non ha investito, non ha speculato su di noi. Ha dato tutto se stesso, rimettendoci la vita. E ci ha lasciato un comandamento: "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8).
L’amore senza condizioni, senza riserve e senza alcuna speranza di contraccambio ci otterrà un premio grande: amando in questo modo diventiamo figli del Padre. Il premio della vita cristiana, la salvezza eterna, il paradiso non è una cosa, ma diventare ciò che amiamo: Dio. Nell’amore dei nemici giunge a maturazione e fruttifica lo Spirito di Dio ricevuto nel battesimo che ci ha resi veramente "figli dell’Altissimo".
"Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro". Questo versetto è il culmine della rivelazione di chi è Dio per noi e di che cosa ci ha donato. Questo amore di misericordia è l’unico possibile nella situazione in cui ci troviamo di fatto. Il male, che sembra sfuggire di mano alla potenza di Dio, è raggiunto e cambiato in bene dalla misericordia. Ciò che Dio non compie con la potenza della sua mano libera di agire, lo compie con l’impotenza della sua mano inchiodata per amore alla croce.
I vv. 37 e 38, prima ancora che linee di comportamento per noi, sono i lineamenti del volto del Padre misericordioso. La prima immagine che l’uomo ha di Dio è quella del giudice. L’immagine di Dio che giudica con severità è l’ultimo idolo che Gesù riesce a togliere, facendoci vedere che il nostro male lo porta lui sulla croce: "Ecco l’Agnello di Dio che porta via il peccato del mondo" (Gv 1,29). La croce di Cristo è l’unico "giudizio" possibile al Padre della misericordia che giustifica tutti.
Dunque, chiunque giudica un altro sbaglia sempre. E l’errore non sta nel fatto che l’uomo può sbagliare nel suo giudizio, ma nel fatto che usurpa il potere di Dio. Chi giudica non conosce Dio che è misericordia (cf. Giona cap. 4). Egli invece di giudicare, giustifica e, invece di condannare, condona.
Il giudizio finale di salvezza o di perdizione non è operato da Dio, ma da me. E non in un tempo indeterminato o nascosto, ma ora, nel rapporto quotidiano con il fratello. Questa è la misericordia di Dio: lascia a noi il giudizio su noi stessi; e questo giudizio è lo stesso che pronunciamo sugli altri. Se non giudichiamo gli altri, Dio non giudica noi. Se non condanniamo gli altri, Dio non condanna noi. Se perdoniamo agli altri, Dio perdona a noi.
Nella misura in cui si dà al fratello, si riceve da Dio. L’unico metro di misura del dono che riceviamo è quindi la nostra capacità di donare. Dio rinuncia a misurare come rinuncia a giudicare. Siamo misurati e giudicati da noi stessi, secondo il nostro amore verso gli altri.
In questo ultimo versetto c’è l’esaltazione dell’abbondanza del dono di Dio. Egli non conosce misura nel donarsi. L’unica limitazione alla misericordia di Dio è data dal nostro grembo, dalle nostre viscere di misericordia.
Dio è il punto di riferimento dell’agire cristiano. Tutta la preoccupazione del credente è ripetere nella propria vita i suoi comportamenti.
Gesù tenta di levarci dalla testa un Dio che siede come giudice in un tribunale, per sostituirlo con un Padre che siede in casa con i suoi figli ai quali non cessa di voler bene e di usare con essi tutta la sua comprensione paterna. Lo sforzo del giudice è quello di arrivare a una sentenza di condanna, quello del padre, così come quello del cristiano, a una assoluzione totale. Il cristiano è chiamato a ricopiare l’atteggiamento paterno di Dio verso tutti indistintamente.
L’amore dei nemici è una grazia che ci fa misericordiosi come il Padre.
Gesù ci insegna come dobbiamo comportarci nei confronti di quelli che non ci amano: non giudicate, non condannate, perdonate, date. E questi quattro comandamenti vanno praticati con una generosità sovrabbondante, smisurata, perché con la misura con la quale misuriamo, sarà misurato a noi in cambio da Dio.
Il desiderio dell’uomo è "diventare come Dio" (Gen 3,5). Ora, dopo la rivelazione del vero volto di Dio in Gesù, è possibile capire la via per diventare Dio. L’essenza di Dio è la misericordia: "Poiché, quale è la sua grandezza, tale è la sua misericordia" (Sir 2,18).
La nostra esperienza fondamentale di Dio, dal momento che siamo nel peccato e nel male, è quella della misericordia che perdona e che salva. Questo amore di misericordia è l’unico possibile nella situazione in cui ci troviamo di fatto.
Se l’amore si esprime nel dono, la misericordia si esprime nel perdono, che significa super-dono, in modo che "dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20).
L’aggettivo che Luca usa qui per dire "misericordioso" è oiktìrmon, che indica l’espressione esterna della misericordia, sia come compassione che come intervento. Questo aggettivo, applicato a Dio, è usato solo due volte in tutto il Nuovo Testamento: qui e nella Lettera di Giacomo 5,11. Nella traduzione detta dei Settanta oiktìrmon traduce l’ebraico rahamin, che indica l’utero. Questo significa che Dio misericordioso ci è presentato come padre, ma ancor più come madre.
A questo proposito è prezioso quanto ha scritto san Clemente di Alessandria: "Per la sua misteriosa divinità Dio è Padre.
Ma la tenerezza (sympathés) che ha per noi lo fa diventare madre. Amando, il Padre diventa femminile" (Quis dives salvetur, 37,2).

39 Disse loro anche una parabola: "Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca? 40 Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro. 41 Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? 42 Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Il comandamento: "Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro" (6,36) è l’unica strada maestra per la salvezza. Chi insegna diversamente è una guida cieca (v. 39), un maestro falso (v. 40); chi critica il male altrui, e non vede il proprio, è un ipocrita (vv. 41-42).
Solo la misericordia può salvare l’uomo dal male perché è quell’amore che non tiene conto del male e lo volge in bene.
La cecità fondamentale è quella di non ritenersi bisognosi della misericordia di Dio. Cieco è il discepolo che non ha sperimentato la misericordia di Dio donatagli in Cristo. Per questo il suo agire è senza misericordia.
Il male che io condanno nel fratello è sempre una piccola cosa rispetto al male che commetto io arrogandomi il diritto di giudicarlo: tanta è la gravità del giudicare! Il vero male non è tanto il male che si compie, quanto la mancanza di misericordia che ne impedisce il riscatto. Il giudizio senza misericordia nei confronti di una colpa grave è sempre più grave della colpa stessa.
Chi critica se stesso invece degli altri, si scopre bisognoso di misericordia quanto e più degli altri. Questa misericordia gli toglie la cecità e lo rende capace di vedere bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello.
L’unica correzione possibile è l’occhio buono del perdono e della misericordia. La trave che il discepolo deve levarsi dall’occhio è la presunzione di essere giusto. Solo chi si sente graziato e perdonato può graziare e perdonare. E sempre senza scandalizzarsi del peccato altrui, perché è sempre una pagliuzza rispetto alla trave che è nel nostro occhio.
Nei versetti 43-45 ci viene presentato il nostro problema più serio: siamo alberi cattivi che producono frutti marci. Il rimedio è uno solo: accettare l’innesto dell’unico albero buono che produce frutti buoni: l’albero della misericordia di Dio, che è la croce di suo Figlio, donato per noi.
Il cuore, che nell’uomo è la sede delle decisioni morali e religiose, è paragonato a un tesoro. Dipende dal cuore se le parole e le azioni sono buone o cattive, se tutto l’uomo è buono o cattivo.
Ma quando il cuore dell’uomo è un tesoro che contiene solo il bene e dal quale scaturisce solo il bene? Solamente quando si conforma totalmente al cuore misericordioso di Gesù.
Il buon tesoro del cuore dell’uomo è la grazia di Dio che compie le opere della misericordia. Il problema è quello di accogliere da Dio un cuore di carne in cui è scritta la sua legge di misericordia (cf. Ez 36,26; Ger 31,33-34).

43 Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. 44 Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. 45 L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore.
46 Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico? 47 Chi viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: 48 è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sopra la roccia. Venuta la piena, il fiume irruppe contro quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene. 49 Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la rovina di quella casa fu grande".

Nei versetti precedenti a questo brano (38-42) erano state elencate le caratteristiche dei falsi cristiani: ciechi, pretenziosi, severi verso gli altri e benevoli verso di sé e, soprattutto, illusi di non aver bisogno di perdono. Nei versetti 43-45 di questo brano ci viene presentato il nostro problema più serio: siamo piante cattive che producono frutti cattivi. Per guarire da questo inconveniente esiste un solo rimedio: dobbiamo accettare l’innesto nell’unico albero buono che produce frutti buoni: l’albero della misericordia di Dio, l’albero della croce di Cristo. È inutile sforzarsi di fare frutti buoni fino a quando restiamo alberi cattivi. E restiamo alberi cattivi fino a quando non ci decidiamo ad essere totalmente di Cristo. L’albero della vita produce frutti di grazia e di misericordia, i frutti dello Spirito. "Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Questa lista fornitaci dall’apostolo Paolo è sufficiente per capire se siamo cristiani buoni o cattivi.
Ma, mentre un albero cattivo non può diventare buono, un uomo cattivo può e deve diventare buono. Il vangelo ci chiama a conversione, a passare dalla cattiveria alla bontà. L’essere cristiano si valuta solo dalla bontà del cuore, dalla bontà d’animo. Tutto il resto (preghiera, sacramenti, pratiche religiose, ecc.), o serve per diventare buoni d’animo, o non serve a niente. Questa bontà si manifesta attraverso l’amore concreto per il prossimo, un amore che antepone i fatti alle parole, secondo l’insegnamento della prima lettera di Giovanni: "Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (3,18). Cristiano non è chi parla come Cristo, ma chi vive e opera come Cristo.
La parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia conclude nel modo migliore tutto il discorso. La salvezza non consiste solo nel riconoscere Gesù come "il Signore", ma anche nel fare la sua volontà. La fede che si ferma alla conoscenza e non diventa esperienza che trasforma la vita, è una fede diabolica: "Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene; anche i demoni lo credono e tremano!... La fede senza le opere è morta"(Gc 2,19.26). Dalla parola ascoltata, accolta e custodita gelosamente nel cuore nascono necessariamente le opere buone della fede.
Il cristiano dev’essere ben piantato in Cristo, saldamente radicato e fondato nella fede (cf. Ef 3,17; Col 2,7). Deve aver raggiunto salde e profonde convinzioni e, soprattutto un serio impegno di vita, per non crollare davanti alle contrarietà e alle prove. Un cristianesimo fatto solo di belle parole, di bei gesti, di belle celebrazioni liturgiche non resiste alle immancabili persecuzioni e alle avversità della vita.

CAPITOLO 07
1 Quando ebbe terminato di rivolgere tutte queste parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafarnao.
2 Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. 3 Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. 4 Costoro giunti da Gesù lo pregavano con insistenza: "Egli merita che tu gli faccia questa grazia, dicevano, 5 perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga". 6 Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: "Signore, non stare a disturbarti, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; 7 per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. 8 Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va’ ed egli va,
e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa". 9 All’udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: "Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!".
10 E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.
Nei racconti del capitolo settimo del vangelo di Luca, Gesù presenta l’immagine del Padre, annunciata in 6, 27-38: benevolo e misericordioso verso tutti. Gesù è il volto del Padre, la sua immagine perfetta: nella sua persona rivela il mistero profondo di Dio.
Il cammino d’Israele, di cui Pietro è il rappresentante, parte dalla fede nella parola di Gesù: "Sulla tua parola calerò le reti" (5,5) e passa attraverso il senso del peccato: "Allontanati da me, Signore, perché sono peccatore" (5,8).
Anche il cammino dei pagani, rappresentati dal centurione, parte dalla fede nella parola di Gesù e passa attraverso il senso di indegnità (7,6-7). Dopo la risurrezione del Signore, la Chiesa si aprirà ai pagani proprio in casa di un altro centurione (cf. At 10).
L’episodio del centurione deve ravvivare nel lettore la fede. La  Parola è efficace solo per chi l’accoglie con fede. "Tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23). Chi crede ha la stessa potenza di Dio, perché lascia agire Dio nella sua vita.
Il centurione è il tipo del vero credente, umile, generoso, sollecito del bene del prossimo. Dio non prende eccessivamente in considerazione le opinioni che gli uomini hanno sul suo conto, ma è attento ai loro comportamenti verso i bisognosi: è qui, soprattutto, che egli si trova in sintonia con gli uomini. La fede non passa attraverso le ideologie o le teologie, ma attraverso il buon cuore e le opere di carità. Sono credenti quelli che sentono e agiscono come Dio.
11 In seguito si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. 12 Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. 13 Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: "Non piangere!". 14 E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: "Giovinetto, dico a te, alzati!". 15 Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. 16 Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: "Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo". 17 La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione.
Questo fatto raccontato da Luca ci richiama due episodi dell’Antico Testamento: quello di Elia che restituisce la vita al figlio unico della vedova di Sarepta (1Re 17,17-24) e quello di Eliseo che risveglia dalla morte il figlio della Sunammita (2Re 4,32-37).
Questo racconto mette in evidenza la potenza di Gesù e la sua misericordia. Egli previene senza richiesta, preghiera o fede chi è totalmente perduto e non è più capace di chiedere, di pregare o di credere.
Apparentemente Gesù è in cammino senza meta. In realtà, arriva inaspettato dove c’è bisogno di lui. La sua misericordia è calamitata dalla nostra miseria. Gesù che vede, si commuove e si accosta alle persone morte o sofferenti è l’immagine del Dio misericordioso, che sente compassione per l’uomo, suo figlio perduto. Solo vedendo questo Dio in Gesù si riesce a passare dalla paura di Dio alla fiducia, dalla morte alla vita, dalla legge al Vangelo.
Dio patisce con noi la stessa pena e condivide con noi la stessa morte, per liberarci dalla pena e dalla morte. La sua parola che ha creato dal nulla tutte le cose, risuscita la vita dalla morte. Vincendo la morte, Gesù ci libera dalla nostra peggiore schiavitù, che è la paura della morte (cf. Eb 2,14-15).
Alla porta della città di Nain si incontrano due cortei: il corteo di Gesù che dona la vita e il corteo dalla morte. La folla che accompagna questa vedova poteva forse consolarla un po’, ma non poteva risolvere il suo problema. Gesù, invece, sente una compassione che ha la potenza di risolvere i problemi. Egli che aveva detto: "Beati voi che ora piangete, perché riderete" (Lc 6,21), ora porta concretamente la misericordia di Dio a coloro che gemono e piangono. Dio inaugura il suo regno con la misericordia per gli oppressi.
La risurrezione di questo ragazzo è la dimostrazione della potenza di Gesù e della sua misericordia. La potenza di Dio è sempre al servizio della sua misericordia, perché è la potenza dell’amore.
Dio interviene con amore potente nella vita dei singoli e mostra la sua benevolenza verso il suo popolo. Trova così compimento ciò che Zaccaria aveva profetizzato: "Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un salvatore potente nella casa di Davide, suo servo, ... per illuminare (= dare la vita) quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte" (Lc 1,68-69.79).
18 Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due di essi 19 e li mandò a dire al Signore: "Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?". 20 Venuti da lui, quegli uomini dissero: "Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?". 21 In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22 Poi diede loro questa risposta: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. 23 E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!".
In questo brano si affrontano due problemi: il passato e il presente della storia della salvezza. Il primo è questo: il messianismo povero e umile di Gesù risponde alla promessa di Dio; e, se risponde, che ne è delle promesse di Dio? Il secondo è questo: come può Gesù essere il Messia, cioè colui che viene a liberare dal male, se la storia dopo di lui continua ancora con il suo male, come prima?
Luca unifica i due problemi perché hanno una radice comune: l’attesa dell’uomo è diversa dalla promessa di Dio. Egli presenta Gesù che cura e fa grazia (v. 31) ai disgraziati: questa è la realizzazione della promessa. Così l’attesa d’Israele e del mondo intero va focalizzata e corretta su Gesù. Il nocciolo della questione, sempre attuale, è il tipo di messianismo di Gesù povero e umile, che contraddice il delirio di potenza e di gloria dell’uomo: questo messianismo fece problema a Israele e continua a fare problema all’uomo di tutti i tempi, religioso o laico che sia.
Siamo chiamati a seguire Gesù povero e umile, che non ha liquidato la storia, ma si è fatto carico del male altrui arrestandolo nella propria croce, unica via alla risurrezione. Su questo argomento l’errore è costante e riguarda ebrei e cristiani, il Battista e i discepoli, gli uomini di ieri, di oggi e di domani. Tutti cercano scorciatoie per giungere al Regno e in questo modo lo ritardano. La speranza era ed è che con la venuta del Messia si risolvessero subito le nostre angustie, cessasse il male, finisse il pianto e si iniziasse immediatamente la danza della vittoria. Il Battista attendeva un Messia "più forte", giudice tremendo che spazzasse l’aia del mondo per dare inizio a un mondo nuovo (3,16-17). Gesù invece viene in estrema debolezza e senza alcun potere per vincere il male che subisce. E, proprio così, portandolo, lo vince. È il Salvatore; ma vuole bene ai cattivi e ai buoni, e la sua misericordia lo inserisce nella storia di miseria dell’uomo senza liquidare il malvagio. Rispetta la libertà e lascia che la storia degli uomini continui, nella sua realtà anche brutale, facendo però di ogni miseria oggetto di misericordia. Il suo amore per l’uomo concreto, che è malvagio, lo rende debole e gli fa portare il carico del suo male. Il male è il luogo storico di realizzazione della salvezza, mediante la misericordia.
Questo slittamento in tono minore della figura del Messia è il motivo costante del suo scandalo. L’aquila dell’Esodo (Es 19,4; Dt 32,11) si trasforma in gallina (Lc 13,34); il re diventa servo (Lc 22,27); il Salvatore viene condannato (Lc 23,35-37); il giusto si fa solidale con la nostra ingiustizia; Dio patisce la nostra morte (Lc 23,40-41).
È un messianismo che esula dall’attesa dell’uomo, perché ci presenta un Messia crocifisso, povero e umile, che si prende cura del male e fa grazia. Ogni uomo deve sapere che proprio nella sua miseria si realizza la realtà di Dio che è misericordia.
Tutta l’attività di Gesù è interpretata da lui stesso non tanto come azione di potenza quanto come passione di misericordia. Dio si fa vicino al lontano, giustifica l’empio e da la vita al morto. La salvezza è accogliere questa bella notizia di cui i fatti sono la prova.
"Colui che viene" (v.19) è la qualifica del Messia (Gen 49,10; Sal 118,26) e del giudice (Dan 7,13; Ml 3,1-2), il compimento della promessa e della speranza d’Israele. Il dubbio di Giovanni è ben fondato: egli ha annunciato un Messia forte e un giudice severo, che avrebbe operato il giudizio di Dio e inaugurato il giorno del Signore, tremendo come il fuoco (Lc 3,16-17; Ml 3).
Gesù invece si rivela come misericordia che si china sulla miseria. Inoltre ha uno stile di povertà assoluta che rifugge da ogni pretesa di potere. Egli non giudica nessuno, è compassionevole e salva tutti coloro che si riconoscono peccatori (Lc 5,31-32). Il dubbio del Battista circa l’identità di Gesù nasce anche dal fatto che, se Gesù è il Messia, dovrebbe finire la storia del male e iniziare il tempo di Dio. È l’interrogativo del credente di ogni tempo: come mai la venuta di Gesù non ha cambiato il mondo e la storia? Dopo la venuta di Gesù tutto sembra come prima. I potenti sono ancora al loro posto e i poveri sempre più malconci.
Una cosa dev’essere chiara: o Gesù non è "colui che viene" e quindi dobbiamo attenderne un altro; oppure è "colui che viene" e allora dobbiamo cambiare la nostra attesa.
Gesù interpreta la sua azione ricorrendo a Isaia (29,18; 35,5ss; 42,18; 26,19; 61,1): egli realizza quelle promesse e, in questo modo, realizza appieno la volontà del Padre. L’azione del Messia non è il giudizio che separa i buoni dai cattivi, ma la misericordia che si prende cura e fa grazia a chi è nel male. La rivelazione definitiva della grazia di Dio è l’azione storica della misericordia di Gesù che continua nella Chiesa.
L’affermazione "i poveri sono evangelizzati" è messa in posizione di spicco. La buona notizia è annunciata ai poveri che ascoltano Gesù, e a tutti i popoli che ascolteranno con fede l’annuncio di un Dio di misericordia che si prende a cuore il male dell’uomo. La fede che dà salvezza è accettare con il cuore la visita di Dio in Gesù, Il Signore crocifisso per misericordia.
24 Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù cominciò a dire alla folla riguardo a Giovanni: "Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? 25 E allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano vesti sontuose e vivono nella lussuria stanno nei palazzi dei re. 26 Allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. 27 Egli è colui del quale sta scritto:
Ecco io mando davanti a te il mio messaggero,
egli preparerà la via davanti a te.
28 Io vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni, e il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui. 29 Tutto il popolo che lo ha ascoltato, e anche i pubblicani, hanno riconosciuto la giustizia di Dio ricevendo il battesimo di Giovanni. 30 Ma i farisei e i dottori della legge non facendosi battezzare da lui hanno reso vano per loro il disegno di Dio.
Dopo aver rivelato se stesso come "colui che viene", Gesù spiega alla folla il ruolo di Giovanni Battista nel disegno di Dio. Egli è più che un profeta: è il profeta ultimo annunciato da Malachia 3,1ss, che conclude il tempo della promessa iniziata con Abramo e che trova il suo compimento nella storia di Cristo
Gesù parla del vestito e dell’abitazione di Giovanni: egli indossa la ruvida tunica di cammello che è la divisa del profeta (Mc 1,26; 2Re 1,8).La sua abitazione è il deserto e infine il carcere perché è servo di Dio e denuncia il peccato dei potenti e del popolo.
Giovanni è più che un profeta perché con lui finisce il profetismo che promise e preparò la venuta del Signore. Dopo di lui la profezia non sarà più promessa del Cristo che deve venire, ma ricordo del Cristo già venuto.
Nel v. 27 Gesù allude a Ml 3,1 e a Es 23,20 in cui si parla del messaggero finale, prima dell’immediata visita di Dio stesso al suo popolo: è l’appello definitivo alla conversione, per accogliere la salvezza di Dio.
In polemica con quanti non l’hanno accolto, il Battista è proclamato il più grande di tutti i profeti. Tra i nati di donna nessuno è più grande di lui. Egli è l’unico profeta che vede la piena realizzazione di ogni profezia. Ma con Gesù si passa dalla realtà umana di figli nati da donna, alla realtà divina di figli nati da Dio, per cui il più piccolo nato da Dio è più grande del più grande nato da donna.
Il popolo e i pubblicani riconobbero che Dio è giusto: per questo accolsero l’appello alla conversione e al battesimo. Accettando la predicazione del Battista, il popolo umile ha aderito al piano di salvezza di Dio e in questo modo ha incontrato il Salvatore che gli viene incontro sulla stessa via del fiume: seguendo Giovanni incontrarono Gesù. I farisei e i dottori della legge invece rifiutando la conversione e il battesimo di Giovanni, non incontrarono il Salvatore. Credersi giusti e rifiutare di convertirsi è vanificare la salvezza di Dio.
31 A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? 32 Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato;
vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!
33 È venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. 34 È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. 35 Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli".
La gente del tempo di Gesù rifiuta il gioco di Dio e contrasta il suo disegno. Dio li chiama alla conversione e alla serietà per mezzo di Giovanni il Battista e non accettano perché lo ritengono pazzo. Li chiama alla gioia e alla festa per mezzo di Gesù e non accettano perché vogliono un Dio severo. Sono persone adulte che si comportano come bambini capricciosi. In realtà chi non accetta il messaggio di conversione proposto da Giovanni il Battista, riconoscendosi peccatore, non può accogliere l’invito alla gioia proposto da Gesù.
Gli umori capricciosi dei giudei di allora si rivelano nel giudizio che essi danno di Giovanni e di Gesù. Il Battista è troppo severo, e lo definiscono pazzo. Gesù è poco santo, molto mondano; coltiva amicizie con gente poco raccomandabile, con scomunicati e peccatori. Luca si è compiaciuto di ricordarci che Gesù è amico dei pubblicani e delle prostitute, rivelandoci così, che le compagnie preferite da Gesù non erano proprio le più onorate e le più raccomandabili. Una domanda pertinente: la scelta delle nostre amicizie assomiglia a quella di Gesù?
Per quanto misteriose possano sembrare le vie di Dio nella storia della salvezza, esse sono sempre determinate dalla sua sapienza. E la sapienza di Dio può essere riconosciuta come tale solo da chi è generato, trasformato e compenetrato da lei; da chi pensa e giudica come pensa e giudica lei. L’uomo per poter riconoscere in Giovanni e in Gesù due inviati di Dio, deve possedere la sapienza divina e rinunciare a una logica puramente umana. Deve convertirsi e cambiare mentalità; non prendere più se stesso, ma Dio, come misura delle cose: deve uscire da sé e lasciarsi illuminare dalla parola di Dio. Deponendo la sua sapienza umana, deve farsi piccolo e povero, perché Dio annuncia il suo vangelo ai piccoli e ai poveri.
36 Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37 Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; 38 e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato.
39 A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé. "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice". 40 Gesù allora gli disse: "Simone, ho una cosa da dirti". Ed egli: "Maestro, dì pure". 41 "Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42 Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?". 43 Simone rispose: "Suppongo quello a cui ha condonato di più". Gli disse Gesù: "Hai giudicato bene". 44 E volgendosi verso la donna, disse a Simone: "Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45 Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. 46 Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. 47 Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco". 48 Poi disse a lei: "Ti sono perdonati i tuoi peccati". 49 Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: "Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?". 50 Ma egli disse alla donna: "La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!".
Nella casa del fariseo, dove era stato invitato, Gesù imbandisce il banchetto nuziale per la peccatrice inopportuna e indesiderata. Il fariseo tronfio della sua giustizia non può partecipare alla danza dell’amore se prima non piange il suo peccato.
Il racconto serve per persuadere il giusto di peccato di prostituzione perché vuole meritare l’amore di Dio che è gratuito. Questo peccato di "meretricio", di prostituzione è l’unico peccato diretto contro Dio che è amore.
Questa donna è figura del vero popolo di Dio che si riconosce peccatore e bisognoso di perdono; è il simbolo dell’umanità peccatrice che ritorna al suo sposo, Dio.
La presenza della peccatrice che ama, mostra al giusto il suo peccato profondo, quello di non saper amare. Dalla festa dell’amore resta escluso solo il giusto, che non ama perché non si sente amato, perché crede di non aver bisogno di essere amato. Ma anche il giusto può partecipare al banchetto della vita nella misura in cui si riconosce prostituto, adultero e peccatore.
Il peccato tipico del giusto è quello di comprarsi l’amore di Dio con la moneta sonante delle proprie buone opere. È il peccato "naturale" di tutte le religioni, che suppongono un Dio cattivo da imbonire.
Gesù, in casa del fariseo, mostra a tutti la sua bontà: accetta e ama la donna che peccò di prostituzione con gli uomini, accetta e ama il fariseo che pecca di prostituzione nei confronti di Dio. Nei vv. 40-42 Gesù racconta una parabola che mette in gioco tutti. È la parabola dei due debitori. Ogni uomo è debitore a Dio di tutto. Il vero peccato è quello di non accettare di essere debitori, ma voler restituire sotto forma di prestazioni di vario tipo, in modo di pareggiare il nostro conto con Dio, per sentirci liberi e indipendenti da lui a cui abbiamo dato tutto il dovuto, per sentirci nostri e non suoi.
È il tentativo di non essere più creature, ma di emanciparci dal Creatore per essere Dio come Dio, senza Dio e in contrapposizione a Dio. È il peccato originale dell’uomo. Questa è la prostituzione religiosa, frutto della non conoscenza di Dio, che produce tutti i peccati dei giusti e degli ingiusti. Il dono di Dio, al quale tutto dobbiamo, è un amore gratuito da accettare e a cui rispondere con altro amore gratuito.
Il contenuto della parabola è nelle due espressioni "fare grazia" da parte del creditore e "amare di più" da parte del debitore graziato. Il più avvantaggiato in questa situazione è chi ha il debito maggiore, perché riceve un dono maggiore. Chi riceve un dono maggiore, un perdono maggiore fa esperienza di un amore più grande. Davanti a un Dio che riempie gratis del suo amore è una disgrazia essere pieni di sé.
Gesù dà come modello al fariseo la peccatrice perdonata che ama, colei che egli aveva giudicata e condannata, e che avrebbe voluto escludere dalla sua casa.
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CAPITOLO 08

1 In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. 2 C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, 3 Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni.

Gesù è un viandante instancabile. La sua vita si svolge sulla strada. Egli passa attraverso le località grandi e piccole. Il vangelo deve camminare sulle vie del mondo. Nel suo peregrinare lo accompagnano gli apostoli, che sono il primo nucleo del popolo di Dio. Ma anche le donne fanno parte del seguito di Gesù. Queste accompagnatrici, collaboratrici, benefattrici di Gesù svolgono nei confronti del Cristo e del gruppo degli apostoli un’azione assistenziale: mettono a disposizione i loro beni e il loro lavoro.
La caratteristica comune di queste donne che seguono Gesù è l’esperienza della cura che Gesù si è preso di loro. Hanno fatto l’esperienza del dono e del perdono: si sono sentite amate e per questo amano. L’amore si manifesta nel servire l’altro liberandolo dalle sue necessità. Questo amore si manifesta più con i fatti che con le parole. Lo spirito di servizio di queste donne le porterà fino ai piedi della croce e davanti al sepolcro, le farà entrare in esso e diventeranno le prime testimoni del Risorto. Gli apostoli e queste donne sono il piccolo gregge al quale il Padre si è compiaciuto di donare il suo regno (Lc 12,32), cioè Gesù Cristo Signore.
Caratteristica di questi primi cristiani: ascoltano Gesù e stanno con lui. Questo ascoltare Gesù e stare con lui è la qualifica più bella e più profonda del discepolo: sottolinea l’aspetto personale d’amore che lo lega al suo Signore.
Attraverso l’annuncio della parola e i miracoli che Gesù compie, la gente fa esperienza della bontà, della misericordia e della grazia di Dio nei loro riguardi. Il regno di Dio (v. 1) è il nuovo contesto sociale e religioso in cui tutti sono chiamati a vivere liberi dalla paura di Dio, dalle reciproche inimicizie e da ogni forma di male.

4 Poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, disse con una parabola: 5 "Il seminatore uscì a seminare la sua semente. Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono. 6 Un’altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità. 7 Un’altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono. 8 Un’altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto". Detto questo, esclamò: "Chi ha orecchi per intendere, intenda!".
9 I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola. 10 Ed egli disse: "A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perché vedendo non vedano e udendo non intendano.
11 Il significato della parabola è questo: Il seme è la parola di Dio. 12 I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. 13 Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell’ora della tentazione vengono meno. 14 Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. 15 Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza.

Il seminatore presentato da questa parabola non è un contadino incapace, ma un grande ottimista che spera che anche le pietre diventino terra feconda e che dal suolo arido della strada spuntino spighe piene e mature. In altre parole: Gesù annuncia la sua parola a tutti, cattivi e buoni, "perché Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità" (1Tm 2,4).
Dio non ha preclusioni verso nessun uomo. Anche se desideroso di essere accolto, Gesù non sceglie il terreno secondo criteri di opportunità: si rivolge a tutta la gente che viene a lui da ogni parte.
Egli è venuto a salvare i peccatori (5,32), a guarire i malati (5,31). La sua azione è diretta ai nemici più ostinati, ai peccatori più induriti. Non ha guardato ai buoni, ai santi e agli eletti, dimenticando gli altri (come spesso facciamo noi), ma ha rivolto lo sguardo e l’attenzione a tutti.
Le parti di terreno improduttivo, su cui ha gettato ugualmente il seme, lasciano intendere la sua buona volontà, la sua fiducia e il suo impegno. L’azione e la parola di Dio sono destinate a tutti, cattivi e buoni.
Il seminatore Gesù è fiducioso e sostenuto da grande coraggio. I cristiani, che sono gli operai dell’evangelizzazione, devono continuare ad avere fiducia. La loro azione, alla fine, sarà premiata. Dio non si stanca di attendere la conversione dell’uomo: allo stesso modo ha agito il Cristo e devono agire i suoi inviati. Dopo tanti insuccessi si può arrivare a dei risultati superiori ad ogni attesa.
La legge dell’evangelizzazione, come emerge da questo testo, è deludente e insieme consolante. Il successo passa attraverso l’insuccesso. L’evangelizzazione avanza lentamente; solo i missionari coraggiosi, capaci di saper credere e attendere, vedranno i risultati delle loro fatiche.
La parabola del seminatore è la parabola dell’ottimismo di Gesù nell’efficacia dell’annuncio della Parola: dev’essere il fondamento dell’ottimismo e della speranza del cristiano nell’annuncio gioioso di Gesù, parola di salvezza.
"A voi è dato di conoscere i misteri del regno di Dio" (v. 10). Conoscere i misteri del regno di Dio significa viverli. Nel Nuovo Testamento la parola mistero non indica una verità segreta, ma il disegno di salvezza, nascosto da secoli e svelato in Gesù Cristo. In questo contesto di Luca, "conoscere i misteri del regno di Dio" equivale a raggiungere la salvezza in Gesù.
"Gli altri"(v. 10) o "quelli di fuori"(Mc 4,11) sono gli avversari di Gesù e degli apostoli. I due gruppi abituali del vangelo sono: da una parte i discepoli (gli apostoli e coloro che ascoltano) e dall’altra gli scribi, i farisei e il loro seguito. Questi ultimi si sono manifestati ostili al discorso semplice, in parabole, adottato da Cristo.
Le motivazioni di questa scelta di Gesù, di parlare in parabole, sono di carattere pratico, pastorale: "Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola, secondo quello che potevano intendere" (Mc 4,33).
Perché la parola di Dio porti frutto nell’uomo e raggiunga il suo scopo deve entrare e mettere radice in lui. Deve stabilire con l’uomo un rapporto di vita, cioè deve comunicargli la vita nuova, la vita di Dio. La fede è la parola di Dio ascoltata. Il credente è l’uomo che accoglie Dio nella sua vita.
Siccome la parola di Dio è semente buona, il problema reale è l’uomo. "I semi caduti lungo la strada"(v. 11) sono coloro che vivono nella superficialità, nella banalità, nell’ovvietà, nel buon senso, che è tutt’altro che neutro nei confronti di Dio.
"Quelli sulla pietra"(v. 13) sono gli egoisti, che non aprono il cuore né a Dio né al prossimo.
"Il seme caduto in mezzo alle spine"(v. 14) sono coloro che ospitano gli alleati del demonio nel proprio cuore. Il primo alleato sono le preoccupazioni, l’affanno, l’ansia, l’inquietudine, anche per cose buone. L’affanno e la paura sono la spia della mancanza di fede. Il secondo alleato è la ricchezza. Nel vangelo di Luca la povertà è il volto concreto della fede e della carità, perché porta a fidarsi di Dio e a condividere con i fratelli. La fiducia nel dio mammona (che significa: ciò che si possiede) sostituisce la fiducia in Dio (cf. Lc, 11,41; 12,33-34; 14,33; 16,13; At 2,44; 4,32.34; ecc.). Il terzo alleato sono i piaceri della vita (cf. Lc 12,45; 14,15ss; ecc.) di cui è impossibile fare l’elenco completo. Questi sono i punti deboli dell’uomo che diventano facilmente alleati del diavolo nel soffocare la parola di Dio.
Se la parola di Dio vuole portare frutto dev’essere annunciata, ascoltata, accolta nel cuore e creduta. Dev’essere accolta e mantenuta saldamente, nonostante le tentazioni. "Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che... producono frutto con la loro perseveranza" (v. 15), cioè con costanza e fermezza.
La parola di Dio trasforma l’uomo, ma non senza la collaborazione dell’uomo. Sant’Agostino ha scritto: "Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te".

16 Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce. 17 Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce. 18 Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere".

L’ascolto della parola di Dio è una luce che accende il discepolo perché faccia luce a chi è ancora nelle tenebre. Chi ha realmente accolto la parola, la trasmette agli altri; chi è luminoso, illumina. La missionarietà della Chiesa è un fatto naturale come per la luce illuminare. Se non illumina, non è luce; se non evangelizza, non è la Chiesa di Cristo.
La lampada simboleggia il vangelo, che non può essere tenuto nascosto, ma deve espandersi e illuminare il mondo. Ogni cristiano ha preso in mano la fiaccola del vangelo e deve tenerla in alto, in modo che sia più visibile a coloro che vogliono entrare nella comunità cristiana.
La comunità cristiana è il luogo aperto a tutti, la casa sul monte, ben visibile anche ai lontani, la casa della luce. Il richiamo al comportamento insensato di chi pone la lampada sotto il vaso o sotto il letto, non è assolutamente fuori luogo. La luce del vangelo può essere tenuta nascosta per non lasciarsi coinvolgere nel suo chiarore, per dormire sonni tranquilli, per non alzarsi dalle situazioni di pigrizia spirituale o di peccato.
Quando la luce che promana dal Cristo e dal suo vangelo illumina, risveglia, mette a nudo situazioni di peccato e scopre la nostra pigrizia e infingardaggine, si preferisce nasconderla o, addirittura, spegnerla. San Giovanni ha scritto: "La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie" (Gv 3,19). Il testo di oggi è un invito e un ammonimento ad essere lampade accese, luminose per i membri della comunità e per tutti.
"Non c’è nulla di nascosto che non deva essere manifestato, nulla di segreto che non deva essere conosciuto e venire in piena luce" (v. 17). Questa frase è un’allusione al mistero inesauribile di Cristo. Ci sarà sempre qualcosa di nascosto, che deve essere scoperto o riscoperto nella persona di Cristo e nel suo vangelo. La conoscenza del Signore non sarà mai perfetta, esauriente, definitiva. Gesù ha detto: "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito e vi annunzierà le cose future" (Gv 16,12-13).
"Fate attenzione a come ascoltate" (v. 18). Questa frase ci richiama la spiegazione della parabola del seminatore (vv.11-14). "Come ascoltate" significa: con quale atteggiamento, disponibilità, prontezza il cristiano si mette all’ascolto della parola. Il vangelo trova sempre buona accoglienza in quelli che sono già ben disposti, viene rifiutato sovente da quelli che sono lontani dalla verità. Quasi nessuno rifiuta la verità per partito preso, ma perché è convinto di averla già in sé; perché è convinto che la sua verità è più vera di quella che gli altri gli annunciano. Ma, come ci insegna il vangelo, il rifiuto dell’ascolto della parola di Dio può produrre amare sorprese.

19 Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20 Gli fu annunziato: "Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti". 21 Ma egli rispose: "Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica".

Noi ora non possiamo vedere Dio, ma possiamo in ogni momento ascoltare la sua parola. Per mezzo di Gesù la parola di Dio è venuta nel mondo, ha compiuto la sua corsa vittoriosa lungo i secoli ed è giunta fino a noi. Nella parola di Dio è racchiusa tutta l’opera di salvezza compiuta da Gesù: è presente egli stesso come Salvatore. La Parola ci genera (Gc 1,18), ci santifica (1Tm 4,5), ci salva (At 13,26), ci dà la vita eterna (Gv 6,68).
Chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica, diventa madre e fratello di Gesù. L’onore di essere madre e fratello di Gesù è possibile a tutti: basta ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio. La vera parentela con Gesù nasce solo dall’ascolto della sua parola e dall’attuazione di essa nella pratica. Questa è una buona notizia per tutti gli estranei, i peccatori e i lontani, i quali sono chiamati ad essere familiari di Dio nella sua misericordia. Ma questa buona notizia è sempre stata uno scandalo per i giusti che accampano privilegi e pretendono di avere l’esclusiva di Dio.
Questa parola è stata paragonata al seme, forza che genera la vita di sua natura. I credenti sono stati generati "non da seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna" (1Pt 1,23). Gesù è la parola-seme che produce in noi la vita di Dio.
Il credente, nei confronti del mondo, è investito della duplice responsabilità di Maria: accogliere e generare il Cristo.
In Maria troviamo le varie tappe da percorrere:
1. "Ecco la serva del Signore: avvenga a me secondo la tua parola" (Lc 1,38). È l’apertura ad accogliere Dio e la sua parola: è la semina, l’accoglienza della fede.
2. "Beata colei che ha creduto" (Lc 1,45). È la beatitudine e la gioia che nasce come primo frutto della fede che accoglie la parola di Dio.
3. "Maria conservava queste cose, meditandole nel suo cuore" (Lc 2,19). La parola di Dio deve essere conservata, perché è chiamata a crescere ed è destinata a realizzarsi (Ap 1,3; 22, 7,20). Essa è come un seme. "Il seme caduto in terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con il cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza" (Lc 8,15).
L’accoglienza fruttuosa della parola di Dio fa diventare il credente come Maria. La sua beatitudine di madre nella fede (cf. Lc 1,45) è estesa a chiunque ascolta la parola di Dio e la mette in pratica.

22 Un giorno salì su una barca con i suoi discepoli e disse: "Passiamo all’altra riva del lago". Presero il largo. 23 Ora, mentre navigavano, egli si addormentò. Un turbine di vento si abbattè sul lago, imbarcavano acqua ed erano in pericolo. 24 Accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: "Maestro, maestro, siamo perduti!". E lui, destatosi, sgridò il vento e i flutti minacciosi; essi cessarono e si fece bonaccia. 25 Allora disse loro: "Dov’è la vostra fede?". Essi intimoriti e meravigliati si dicevano l’un l’altro: "Chi è dunque costui che dá ordini ai venti e all’acqua e gli obbediscono?".

Gesù chiede di passare al di là del lago, cioè verso una terra pagana. La missione della Chiesa consiste nel portare Cristo a tutti i popoli. Questa barca simboleggia la Chiesa. Essa è colta da paure e incertezze nel condurre avanti la missione del suo Signore di portare la salvezza a tutte le genti, fino agli estremi confini del mondo.
Nelle angosce della vita Dio sembra assente e Gesù dorme. Il discepolo grida come il salmista: "Svegliati, perché dormi, Signore?" (Sal 44,24). I malfattori sulla croce gridano a Gesù: "Salva te stesso e anche noi" (23,39). Alle grida degli uomini, che si sentono perduti, Gesù risponde dominando le forze del male e della morte. Poi rivolge loro la domanda: "Dov’è la vostra fede?".
Tutte le problematiche dell’uomo si riducono sostanzialmente a una: la fede in Dio che si è manifestato in Gesù di Nazaret. La fede si prova proprio nell’ora della tentazione (Lc 8,3). Essa consiste nel credere alla potenza della parola di Gesù che dona la vita oltre la morte (Lc 7,11-17).
Luca provoca il discepolo a una fede totale in Gesù, riconosciuto come il Salvatore risorto. Il luogo della fede è la nostra perdizione riconosciuta (.24): lì Gesù esercita la misericordia del Padre e noi riconosciamo in lui il nostro Signore e Salvatore.

26 Approdarono nella regione dei Gerasèni, che sta di fronte alla Galilea. 27 Era appena sceso a terra, quando gli venne incontro un uomo della città posseduto dai demòni. Da molto tempo non portava vestiti, né abitava in casa, ma nei sepolcri. 28 Alla vista di Gesù gli si gettò ai piedi urlando e disse a gran voce: "Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio Altissimo? Ti prego, non tormentarmi!". 29 Gesù infatti stava ordinando allo spirito immondo di uscire da quell’uomo. Molte volte infatti s’era impossessato di lui; allora lo legavano con catene e lo custodivano in ceppi, ma egli spezzava i legami e veniva spinto dal demonio in luoghi deserti. 30 Gesù gli domandò: "Qual è il tuo nome?". Rispose: "Legione", perché molti demòni erano entrati in lui. 31 E lo supplicavano che non ordinasse loro di andarsene nell’abisso.
32 Vi era là un numeroso branco di porci che pascolavano sul monte. Lo pregarono che concedesse loro di entrare nei porci; ed egli lo permise. 33 I demòni uscirono dall’uomo ed entrarono nei porci e quel branco corse a gettarsi a precipizio dalla rupe nel lago e annegò. 34 Quando videro ciò che era accaduto, i mandriani fuggirono e portarono la notizia nella città e nei villaggi. 35 La gente uscì per vedere l’accaduto, arrivarono da Gesù e trovarono l’uomo dal quale erano usciti i demòni vestito e sano di mente, che sedeva ai piedi di Gesù; e furono presi da spavento. 36 Quelli che erano stati spettatori riferirono come l’indemoniato era stato guarito. 37 Allora tutta la popolazione del territorio dei Gerasèni gli chiese che si allontanasse da loro, perché avevano molta paura. Gesù, salito su una barca, tornò indietro. 38 L’uomo dal quale erano usciti i demòni gli chiese di restare con lui, ma egli lo congedò dicendo: 39 "Torna a casa tua e racconta quello che Dio ti ha fatto". L’uomo se ne andò, proclamando per tutta la città quello che Gesù gli aveva fatto.

Il racconto mette in rilievo il potere di Gesù sul demonio. I discepoli devono continuare la sua lotta contro il nemico già in fuga, che il Signore ha già vinto e ha lasciato a noi da sconfiggere definitivamente.
La comparsa del Salvatore è una tortura angosciante per chi deve essere salvato. Il perduto infatti si identifica con la sua perdizione, come il malato con la sua malattia, e ritiene nemico il medico. In queste reazioni negative si manifesta l’azione di Dio che ci sta salvando. Dio è avvertito come scomodo e nemico, mentre è l’amico che ci salva.
La legione era formata da 6.000 uomini. La situazione di quest’uomo dominato dai demoni è veramente grave. Ancora oggi "la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti" (Ef 6,12).
Gli spiriti del male escono dall’indemoniato che ha incontrato Gesù il Signore. Dove giunge la sua presenza, il demonio se ne va. Esso si ritirerà definitivamente nell’abisso quando il nome di Gesù sarà annunciato a tutte le genti. Il precipitare dei porci in acqua è segno dell’abbandono dei demoni che escono da quell’uomo. Il mare è l’abitazione degli spiriti maligni. Liberando l’uomo, Gesù manda i demoni a casa loro.
C’è una analogia tra questa scena e quella dell’annuncio ai pastori il giorno di Natale (Lc 2,8-20). I mandriani diventano, come i pastori, annunciatori di ciò che hanno visto. Nel capitolo 2 si narra la venuta di Gesù in Israele, qui si annuncia la sua venuta in terra pagana.
La gente della regione chiede a Gesù di andarsene. Un branco di porci affogati nel lago è un prezzo troppo alto per la guarigione di un uomo! L’uomo liberato, invece, prega Gesù di poter stare con lui, come i Dodici (Lc 8,1). Ma Gesù lo manda in mezzo ai suoi a raccontare e testimoniare la sua salvezza. L’annuncio vero è sempre un’esperienza personale. Ciò che siamo grida più forte di ciò che diciamo.
L’azione che Gesù attribuisce a Dio, il guarito l’attribuisce a Gesù. Questo testo suggerisce la vera risposta sull’identità di Gesù: egli è Dio.
Così Gesù stesso dà inizio alla missione tra i pagani. È la premessa di quella messe abbondante che Luca ci mostrerà nel suo libro degli Atti, quando i discepoli riceveranno la forza dello Spirito per portare a compimento questa missione.

40 Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui. 41 Ed ecco venne un uomo di nome Giàiro, che era capo della sinagoga: gettatosi ai piedi di Gesù, lo pregava di recarsi a casa sua, 42 perché aveva un’unica figlia, di circa dodici anni, che stava per morire. Durante il cammino, le folle gli si accalcavano attorno. 43 Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, 44 gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello e subito il flusso di sangue si arrestò. 45 Gesù disse: "Chi mi ha toccato?". Mentre tutti negavano, Pietro disse: "Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia". 46 Ma Gesù disse: "Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me". 47 Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettatasi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l’aveva toccato, e come era stata subito guarita. 48 Egli le disse: "Figlia, la tua fede ti ha salvata, và in pace!".
49 Stava ancora parlando quando venne uno della casa del capo della sinagoga a dirgli: "Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro". 50 Ma Gesù che aveva udito rispose: "Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata". 51 Giunto alla casa, non lasciò entrare nessuno con sé, all’infuori di Pietro, Giovanni e Giacomo e il padre e la madre della fanciulla. 52 Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: "Non piangete, perché non è morta, ma dorme". 53 Essi lo deridevano, sapendo che era morta, 54 ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: "Fanciulla, alzati!". 55 Il suo spirito ritornò in lei ed ella si alzò all’istante. Egli ordinò di darle da mangiare. 56 I genitori ne furono sbalorditi, ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto.

I due miracoli, quello della donna che soffriva di emorragia e quello della figlia di Giairo, si illustrano a vicenda. Il primo ci indica che cosa sia la fede, il secondo come la fede vinca la morte.
La fede consiste nel "toccare Gesù". Toccarlo significa incontrarlo, amarlo e unirsi a lui che è la nostra vita. Il miracolo della donna malata di emorragia è incluso in quello della figlia di Giairo. Questo vuole significare che la fede libera dalla morte stessa, prima temuta e poi avvenuta. È il messaggio centrale della fede cristiana: il passaggio alla vita attraverso la morte. È la certezza della risurrezione.
Tutti i palliativi umani non sono serviti alla donna malata di emorragia, anzi sono risultati inutili e dannosi. I vari tentativi dell’uomo di salvarsi senza Dio sono inesorabilmente fallimentari. L’uomo ha bisogno assoluto di Dio. Cercare fuori di Dio la soddisfazione di questo bisogno è proprio quell’idolatria che gli fa perdere la vita e lo porta a fallire nella libertà e nell’amore.
Le parole di Gesù: "Chi mi ha toccato?… Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito una forza che è uscita da me" non sono ingenue. Gesù spiega il perché della sua domanda. C’è un toccare puramente materiale che è opprimere, schiacciare e soffocare. Ma c’è un toccare che è un’attesa e un bisogno, un essere disposti ad accogliere la potenza della vita che esce da lui. Solo la miseria riconosciuta attende e accoglie la misericordia. Questa potenza che si sprigiona al tocco della veste di Gesù è già accennata in Lc 5,17 e 6,19: è Dio stesso al servizio della vita dell’uomo.
Questa donna annuncia la propria miseria e la misericordia di Gesù e dice il motivo per cui l’ha toccato e il dono che ha ricevuto. L’espressione di Gesù "cammina verso la pace" indica che ella ha trovato quella luce di cui parla Zaccaria: la luce che dirige i nostri passi sulla via della pace (Lc 1,79). È la pace che fu donata a tutti gli uomini con la nascita di Gesù (Lc 2,14). È la pace che Gerusalemme non ha compreso (Lc 19,42).
Il miracolo della "risurrezione" della figlia di Giairo ci presenta il dramma della speranza umana che è risolto dalla speranza divina. Davanti alla malattia si può avere ancora speranza, ma davanti alla morte la speranza cessa, al punto che sembra ormai inutile disturbare il Maestro. Finché c’è vita c’è speranza. Ma speranza umana. La speranza divina invece nasce quando cessa la vita, e la speranza umana diventa impossibile. Perché è nell’impossibile umano che agisce Dio. È davanti alla morte di tutte le speranze e al fallimento di tutti i mezzi umani che si può intravedere l’azione di Dio: "Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri" (Ez 37,13). La fede è radicata nel Signore che dà la vita. Essa non riguarda la salvezza da un male qualunque, ma dal nemico estremo dell’uomo, la morte, che viene vinta solamente dal Signore risorto (1Cor 15,26). Diversamente la nostra fede è vana (1Cor 15,16-19). Chi non crede che Dio fa risorgere è in grave errore e non conosce le Scritture e la potenza di Dio (Mc 12,24).
Davanti al padre della bambina morta Gesù dice: "Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata" (v. 50). È proprio davanti alla morte che bisogna avere fiducia, lì è il luogo della fede. Perché in questa situazione c’è spazio solo per la possibilità della fede, e nient’altro.
Di fronte alla morte l’uomo piange: espressione di ribellione impotente e di sconfitta amara. Gesù dà un comando che può sembrare assurdo: "Non piangete!" (v. 52). È il comando dell’obbedienza di fede in colui al quale nulla è impossibile (Lc 1,37). La spiegazione di questo comando è: "La fanciulla non è morta, ma dorme". E difatti la morte da cui si può essere risvegliati non può chiamarsi morte, ma sonno. La morte, pur reale, è sdrammatizzata perché è venuto colui che l’ha vinta. Con la presenza di Gesù, morto e risorto, la morte ha perso il suo pungiglione che avvelena la vita (1Cor 15,56). Di conseguenza non possiamo più sospettare che Dio non ci ami, non possiamo più cadere nella sfiducia che ci abbandoni al nostro male.
Non c’è da meravigliarsi se quelli che piangevano la fanciulla morta passano dalle lacrime inutili alla derisione di Gesù. L’uomo davanti alla morte, oltre che piangere, non può che deridere per disperazione colui che dichiara di vincerla. La fede è credere nell’amore di Dio che vince la nostra morte.
Il ritorno dello spirito nella fanciulla non dona un semplice vivere di nuovo, ma un vivere nuovo che va oltre la morte e raggiunge la sorgente eterna della vita: non è un semplice dono della vita fisica, ma il dono della salvezza.
L’ordine di dare da mangiare alla fanciulla indica non solo la realtà della "risurrezione", ma indica anche il banchetto nuziale messianico, in cui Dio eliminerà per sempre la morte (Is 25,6-9). Questo banchetto si realizzerà subito nel dono del pane, simbolo dell’eucaristia (Lc 9,10-17). Dopo che, per la fede, nel battesimo siamo uniti a lui morto e risorto, viviamo per lui e di lui che è il pane che apre gli occhi (Lc 24,31) e ci introduce nei misteri del regno di Dio.

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CAPITOLO 09

1 Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie. 2 E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi. 3 Disse loro: "Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno. 4  In qualunque casa entriate, là rimanete e di là poi riprendete il cammino. 5 Quanto a coloro che non vi accolgono, nell’uscire dalla loro città, scuotete la polvere dai vostri piedi, a testimonianza contro di essi". 6 Allora essi partirono e giravano di villaggio in villaggio, annunziando dovunque la buona novella e operando guarigioni.

Gesù non dà agli apostoli il potere di assoggettare gli uomini, ma di servirli, liberandoli dai loro mali fisici, morali e spirituali. Il male è il primo nemico dell’uomo: il cristiano deve combatterlo e vincerlo.
Il comando di non portare nulla con sé richiede agli apostoli povertà di mezzi, prontezza e disponibilità. Gesù non ricorda loro l’oggetto dell’annuncio perché dovrebbe essere ovvio: il regno di Dio udito e visto in Gesù, ossia Gesù stesso. Ciò che non è ovvio, e su cui Gesù insiste, è il "come" deve vivere e presentarsi colui che l’annuncia. Egli non deve contraddire con la vita ciò che annuncia con la bocca. Se è vero che chi annuncia la parola di Dio non ha il potere di renderla credibile, è pur sempre vero che ha il potere di renderla poco credibile o del tutto incredibile. Questo "come" riguarda la povertà, l’umiliazione che ne consegue e l’insuccesso. Se non rispettiamo questo "come" nell’evangelizzazione, non lavoriamo alle dipendenze di Cristo, ma del diavolo, che usa sempre i mezzi dell’avere, del potere e dell’apparire.
La povertà è necessaria per amare. Perché chi ha cose è tentato di dare solo cose; chi non ha nulla, dà se stesso, cioè ama. La povertà è la vittoria sul dio denaro che tutti cercano, è fede in Dio, è libertà da sé e dalle cose, è la condizione indispensabile per accogliere l’azione di Dio ed essere riempiti della sua grazia.
Se con il denaro si ottiene tutto, Dio non serve più a nulla. Per avere fiducia in Dio, bisogna perdere la fiducia nel denaro. I veri apostoli, obbedendo alla parola del Signore, non hanno "argento e oro", ma hanno "il nome di Gesù" nel cui potere operano la salvezza (cfr At 3,6).

7 Intanto il tetrarca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: "Giovanni è risuscitato dai morti", 8 altri: "È apparso Elia", e altri ancora: "È risorto uno degli antichi profeti". 9 Ma Erode diceva: "Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose?". E cercava di vederlo.

Erode, come tutti coloro che non vogliono cambiare, si fa le domande e si dà anche le risposte. Così alla fine ne sa quanto prima. Perché a parlare non si impara niente; ad ascoltare, invece, si può imparare qualcosa. Se poi si ascolta il Cristo, allora si impara tutto quello che serve per avere la vita e averla in abbondanza (cf. Gv 10,10). Ma Erode non vuole ascoltare perché non vuole cambiare le sue convinzioni di comodo. Egli vive per il potere e strumentalizza tutto per mantenere il potere. O Gesù serve al suo potere, o lo elimina. Egli cerca Gesù per ucciderlo (Lc 13,31) e lo vedrà per deriderlo, nientificarlo e mandarlo a morte (Lc 23,11).
Era stato chiamato a conversione dal Battista, ma aveva preferito spegnere la parola di Dio, ucciderla, piuttosto che convertirsi. Leggiamo nel libro dei Proverbi 15,32: "Chi ascolta il rimprovero, acquista senno". Ma Erode è giunto al livello ultimo del male, la stupidità, in cui non si distingue più il bene dal male: è la cecità totale. Quando essa è cosciente, è il peccato contro lo Spirito santo.
Per Erode, Gesù è un concorrente da conoscere bene per eliminarlo più facilmente.

10 Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsàida. 11 Ma le folle lo seppero e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlar loro del regno di Dio e a guarire quanti avevan bisogno di cure. 12 Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: "Congeda la folla, perché vada nei villaggi e nelle campagne dintorno per alloggiare e trovar cibo, poiché qui siamo in una zona deserta". 13 Gesù disse loro: "Dategli voi stessi da mangiare". Ma essi risposero: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente". 14 C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai discepoli: "Fateli sedere per gruppi di cinquanta". 15 Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti. 16 Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 17 Tutti mangiarono e si saziarono e delle parti loro avanzate furono portate via dodici ceste.

Questo banchetto segna il punto d’arrivo della missione degli apostoli: l’attività missionaria infatti porta a conoscere il Signore Gesù e ha il suo culmine e coronamento nell’eucaristia. Essa è il fondamento e il compimento della Chiesa, è suo principio e suo fine.
Il racconto ha come sottofondo il banchetto che Dio imbandì nel deserto per il suo popolo (Is 25,6ss; Os 11,4; Sal 23; ecc.). Tale banchetto (cf. Nm11,4 ss; Es 16; Dt 8,13) chiarisce molti dettagli di questo racconto, la cui struttura è simile alla moltiplicazione dei pani di 2Re 4, 42-44. Gesù è presentato come Dio stesso che sazia e salva.
Gesù accoglie le folle. Questa accoglienza, che prepara al banchetto, ha due aspetti: "Parlava loro del regno di Dio" e "guariva quanti avevano bisogno di cure". Luca mette in evidenza la cura di Gesù come di un medico verso i bisognosi, gli esclusi, gli infelici, i malati, i peccatori.
Il declinare del giorno è l’ora in cui Gesù fu invitato a "rimanere" dai discepoli di Emmaus (Lc 24,29). È la stessa ora del banchetto eucaristico che, come quello pasquale, si celebra al tramonto del sole.
I Dodici, che in At 6,2 vedremo deputati al servizio delle mense, ora si rivolgono a Gesù e lo consigliano di mandare via la gente invece di accoglierla.
Gesù dà ai discepoli lo stesso ordine che aveva dato Eliseo (2Re 4,43-44). I discepoli fanno i calcoli sulle loro possibilità. Non sanno ancora contare sul dono di Dio.
Per la parola di Gesù, la folla disordinata diventa popolo ordinato. Il pasto viene consumato comodamente sdraiati e non più in piedi e in fretta come nel primo esodo (Es 12,11): con Gesù sono ormai nel riposo della terra promessa.
Questo pane donato da Gesù è il vertice di tutto il creato perché in esso tutta la materia inanimata diventa Cristo che si fa nutrimento completo dell’uomo: è il punto di congiunzione tra creazione e Creatore in Gesù, che si fa pane per unirsi all’uomo sua creatura prediletta.
Solo mangiando Gesù l’uomo è sazio di vita e vince la morte. Questo pane lo si può conservare, a differenza della manna che perisce, perché è il pane della vita eterna (Gv 6,12). Lo si conserva dandolo e lo si moltiplica dividendolo. Le dodici ceste di pezzi, una per tribù, indicano che il pane di Cristo è sovrabbondante: ce n’è per tutti e per sempre.

18 Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda: "Chi sono io secondo la gente?". 19 Essi risposero: "Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto". 20 Allora domandò: "Ma voi chi dite che io sia?". Pietro, prendendo la parola, rispose: "Il Cristo di Dio". 21 Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno.
22 "Il Figlio dell’uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno".

Fino a questo punto del vangelo erano gli uomini che si interrogavano su Gesù e lo interrogavano. Ora è Gesù che interroga. Egli esige la nostra risposta.
Il nodo centrale di questo brano è il passaggio dalla risposta di Pietro a quella di Cristo: si passa da un messianismo glorioso a quello del Servo sofferente di Dio che si consegna al Padre. È il mistero della croce che fa da discriminante nella fede in Gesù. È lo scandalo che esige conversione profonda e continua. La fede e la sequela di Cristo si decidono sulla strettoia della croce.
Il discepolo non è colui che mette in questione Gesù, ma colui che si lascia mettere in questione da lui.
La domanda è rivolta ai "voi", ai discepoli nettamente distinti dalla folla. Di conseguenza, la risposta di Pietro è a nome di tutti: egli esprime la fede della Chiesa. Nel vangelo di Luca la funzione di Pietro è assai evidenziata. La sua risposta riconosce in Gesù il Cristo, il Messia atteso, colui che deve venire secondo la promessa di Dio (Lc 23,35).
Ma Dio esaudisce la sua promessa, non i nostri desideri. Per questo Gesù, come Cristo di Dio, deluderà le attese messianiche dell’uomo (Lc 23,35-39; 24,21). È il Cristo che viene da Dio e torna a Dio portando con sé anche noi. Questa opera di Cristo, che è la salvezza, compie ciò che noi non osavamo sperare in un modo che non sapevamo pensare.
Sinceramente ognuno di noi avrebbe fatto un progetto diverso da quello di Dio per salvare il mondo e, in buona fede, lo avrebbe ritenuto più intelligente, migliore e più spiccio di quello escogitato dalla sapienza del Padre (cf. 1Cor 1,18-25).
Il problema non è tanto il riconoscere che Gesù è il Cristo di Dio, ma "come" è il Cristo di Dio. Gesù non è il Cristo dell’attesa umana, ma il Figlio dell’uomo che affronta il cammino del Servo sofferente di Dio: è la prima autorivelazione piena di Gesù, il nocciolo della fede cristiana, il suo mistero di morte e di risurrezione redentrice.
Il "bisogna" indica il compimento della volontà di Dio rivelata nella Scrittura. Tale volontà nasce dalla sua essenza, che è il suo amore riversato su di noi peccatori. Dio "deve" morire in croce per noi peccatori, perché ci ama e noi siamo sulla croce.
Il mistero di Gesù è la sofferenza del Servo di Dio che ama il Padre e i fratelli. La croce è il nostro male che lui si addossa perché ci ama: è il suo perdersi per salvarci. La sua sofferenza è prodotta da tutte le forme del male che abbiamo escogitato per salvarci: l’avere, il potere e il sapere o, in altri termini, la ricchezza, la vanagloria e la superbia (cf. 1Gv 2,16). Per questo il potere rifiuta Gesù e poi lo uccide. Ma l’ultima parola non è "morte", ma "risurrezione".
Questo volto di Gesù, il Figlio obbediente di cui qui sono tracciati i lineamenti netti e duri, sarà presentato sempre più chiaramente in tutta la seconda parte del vangelo di Luca.

23 Poi, a tutti, diceva: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
24 Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. 25 Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso? 26 Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell'uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi.
27 In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio".

L’invito di Gesù: "Se qualcuno vuol venire dietro a me…" è una chiamata universale a entrare con lui nel suo cammino verso il Padre. Per condividere il destino di Gesù in cammino verso il Padre bisogna rinnegare se stessi e portare ogni giorno la propria croce.
Rinnegare se stessi significa ricevere la propria vita come grazia di cui non si dispone da padroni, portare ogni giorno il peso del servizio ai fratelli e del dono della vita per gli altri, e addossarsi il fardello delle prove, delle contraddizioni e delle persecuzioni.
La via del Regno è quella della croce, sia per Cristo che per i cristiani.
L’unico problema fondamentale per l’uomo è salvare o perdere la vita. Quindi seguire Gesù e rinnegare se stessi è la questione fondamentale della vita: è questione di vita o di morte.
L’uomo non può essere il salvatore di se stesso, non ha in sé la sorgente della propria vita: non è il Creatore, ma una creatura. La salvezza è accettare Dio che mi ama e pensa a me.
L’uomo si realizza amando. Amando Dio si realizza come Dio. Ma per amare bisogna essere amati. Il cristiano può amare Gesù e perdere la vita per lui perché Gesù per primo l’ha amato e ha dato se stesso per lui (cfr Gal 2,20). Il credente si affida a lui, nella vita e nella morte, perché Cristo è morto per tutti vincendo le barriere del male e della paura.
"Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?" (v. 25). Il primo tentativo dell’uomo per salvare se stesso è quello di accumulare dei beni. Insidiato dal suo limite, l’uomo si garantisce cibo e vita guadagnando, accumulando e divorando tutto. È la falsa sicurezza dei beni (cf. Lc 12,15-21; Sal 49): ciò che uno ha deve riempire il vuoto di ciò che non è. L’insaziabilità di beni è via alla perdizione: "L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" (1Tm 6,10). Gli unici beni che troveremo nell’eternità saranno quelli che abbiamo donato per misericordia nella vita presente.
La presa di posizione nei confronti di Gesù e delle sue parole è decisiva per il futuro. Dio non giudica nessuno: salva tutti mediante suo Figlio. Un giudizio però c’è. Ma non è Dio a farlo: lo facciamo noi qui e ora su suo Figlio. Accettarlo o rifiutarlo è ricevere o no la sua gloria nel futuro. Il giudizio futuro lo facciamo noi nella storia presente. Il risultato della partita è dato solo alla fine, ma viene giocato tutto prima, in ognuno dei minuti di gioco, dei quali nessuno è insignificante.
Le parole di Gesù: "In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio" (v. 27) vengono subito dopo l’annuncio della croce, con l’invito a seguire Gesù, e prima della trasfigurazione. La trasfigurazione è il compimento della promessa: è un’esperienza anticipata di gloria, donata come viatico e forza per il lungo viaggio fino a Gerusalemme, dove la visione della gloria sarà piena. Essa è riservata solo ad alcuni, cioè a coloro che prendono seriamente ciò che è stato detto nei versetti precedenti e che è la condizione per vedere la gloria.
In concreto questi alcuni per ora sono i tre discepoli testimoni della trasfigurazione di Gesù. Con la forza di questa visione il discepolo affronta la vita e la morte.
Il brano si è aperto con "tutti" (v. 23), che sono i destinatari della parola di Gesù, e si chiude con "alcuni" (v. 27) che vedranno la sua promessa. Questa riduzione di numero tra ascolto e visione è dovuta alla strettoia della croce. Tutti sono chiamati, ma pochi sono eletti. E questi ultimi sono coloro che seguono Gesù portando ogni giorno la propria croce e perdendo la vita per lui. Questa riduzione di numero serve a indicare la difficoltà di questo passaggio che introduce nella visione del regno di Dio: è duro, ma non c’è altra via. Però quello che qui è detto di alcuni è possibile realmente a tutti quelli che lo vogliono.

28 Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29 E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. 30 Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31 apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. 32 Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33 Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: "Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia". Egli non sapeva quel che diceva. 34 Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo". 36 Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

La trasfigurazione svela il mistero di Gesù. Egli è il Figlio del Padre, l’eletto. Il Padre ordina a tutti: "Ascoltatelo!". L’obbedienza a "Gesù solo" (v. 36) è il culmine del racconto. Ora sappiamo chi è Gesù e perché lo dobbiamo ascoltare.
L’ordine di ascoltarlo riguarda particolarmente quanto Gesù ha detto nel brano precedente, dove rivela la necessità della croce per lui e per noi.
I tre discepoli hanno una visione anticipata della gloria per affrontare il passaggio obbligato della croce appena annunciata da Gesù (v. 22). Pietro, Giovanni e Giacomo sono gli stessi testimoni della risurrezione della figlia di Giairo. Per Matteo e Marco sono anche i testimoni dell’agonia di Gesù nel Getsemani.
La definitività e l’importanza di questa rivelazione è richiamata dalla Seconda Lettera di Pietro: "Non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: ‘Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto’. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti…" (1,16-19).
Il monte nella tradizione biblica è il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio. Luca precisa che Gesù salì sul monte a pregare. La trasfigurazione di Gesù è comprovata dall’apparizione dei due personaggi più noti della storia biblica, Mosè ed Elia. La presenza dei due esponenti dell’Antico Testamento non è fortuita. Essi sono venuti per rendere testimonianza a Cristo. Egli è la conclusione e il punto di arrivo della Legge e dei Profeti.
Mosè ed Elia parlavano con Gesù del suo prossimo esodo che doveva compiersi in Gerusalemme. La morte di Gesù non è la fine, ma l’esodo verso la gloria. La passione e morte è un episodio, la gloria della risurrezione sarà lo stato reale e definitivo di Cristo.
La proposta di Pietro (v. 33) parte da una interpretazione superficiale dell’avvenimento. Ha visto il fascino di un mondo raggiunto senza troppa fatica e vorrebbe entrarvi a farne parte subito e, ciò che è peggio, vorrebbe circoscriverlo a una cerchia limitata di persone. Egli vorrebbe conseguire la salvezza senza la morte di croce.
La visione non finisce con la scomparsa di Mosè e di Elia, ma entra in una seconda fase. L’interrogativo "chi è Gesù?" trova risposta da Dio stesso: "Questi è il Figlio mio, l’eletto" (v. 35).
Alla fine sulla scena rimane solo Gesù davanti ai discepoli. La sottolineatura "Gesù solo" è intenzionale. Non c’è nessun altro maestro o profeta all’infuori di lui: egli è assoluto e unico.
La trasfigurazione è un’anticipazione e un’esplicazione dell’annuncio della risurrezione di cui l’evangelista aveva parlato al termine della profezia della passione (v. 22).

37 Il giorno seguente, quando furon discesi dal monte, una gran folla gli venne incontro. 38 A un tratto dalla folla un uomo si mise a gridare: "Maestro, ti prego di volgere lo sguardo a mio figlio, perché è l'unico che ho. 39 Ecco, uno spirito lo afferra e subito egli grida, lo scuote ed egli dá schiuma e solo a fatica se ne allontana lasciandolo sfinito. 40 Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti". 41 Gesù rispose: "O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? Conducimi qui tuo figlio". 42 Mentre questi si avvicinava, il demonio lo gettò per terra agitandolo con convulsioni. Gesù minacciò lo spirito immondo, risanò il fanciullo e lo consegnò a suo padre. 43 E tutti furono stupiti per la grandezza di Dio.

Dopo l’esperienza divinizzante della trasfigurazione, i discepoli scendono dal monte, nella vita quotidiana. È qui che bisogna compiere concretamente il cammino dell’esodo: in mezzo agli uomini ancora in balìa del male e dell’incredulità. Il rapporto tra la trasfigurazione sul monte e la lotta contro il male è lo stesso che la comunità cristiana sperimenta quando finisce la celebrazione eucaristica. Dopo aver visto la gloria del Signore risorto, deve volgere gli occhi alle necessità degli uomini, facendosene carico: è questa la sua croce quotidiana.
Il motivo dell’incapacità dei discepoli a liberare dal male non è l’assenza del Signore, ma l’assenza nel discepolo di quella fede che rende presente il Cristo glorioso con la sua forza. L’efficacia dell’opera della Chiesa nella lotta contro il male dipende solamente dalla fede in Gesù. La vera forza del demonio è la debolezza della fede del discepolo o, addirittura, la mancanza totale della fede (apistìa). Ma c’è una fede impotente e una fede potente. La fede potente è solo quella che accetta l’impotenza della croce. La fede che non conosce l’impotenza potente della croce (Lc 23,35-39) è incapace di salvare: non è fede (apistìa), è perversione della fede. Il motivo dell’impotenza dei discepoli verrà detto nei vv.44-45: la loro non comprensione del Figlio dell’uomo, consegnato nelle mani degli uomini. Il nocciolo del problema della fede è proprio questo: accettare o meno la Parola della croce. Tuttavia l’impotenza riconosciuta dell’uomo è l’ambito stesso in cui Gesù può venire in aiuto della non-fede. Dio "usa" sapientemente la nostra stessa impotenza, il nostro peccato e la nostra infedeltà come luogo del nostro incontro con lui.
Gesù collega l’impossibilità di cacciare i demoni alla mancanza di fede, proprio perché "tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23). Eppure i discepoli avevano ricevuto "potere e autorità su tutti i demoni" (Lc 9,1)! Questa mancanza di fede, alla quale è legata l’impotenza dei discepoli, è da collegarsi alla sordità dei discepoli nei confronti del mistero della croce (Lc 9,44-45).
Gesù vince il male con calma. Basta il potere della sua parola di verità per vincere il demonio, padre della menzogna.
La grandezza di Dio si manifesta nella trasfigurazione di Gesù sul monte e nella vittoria sul male nella pianura.

43 Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: 44 "Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato in mano degli uomini". 45 Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento.

Gesù annuncia chiaramente, per la seconda volta, la sua morte, ma i discepoli non capiscono e non vogliono capire ciò che egli dice. Hanno appena assistito al miracolo della guarigione dell’epilettico-indemoniato e preferiscono rimanere in questa atmosfera trionfalistica di successo che entrare in previsioni disastrose per il Maestro e, di conseguenza, disastrose e funeree anche per loro. La sua azione vittoriosa sul demonio ha suscitato ammirazione, la sua passione suscita incomprensione.
Il comportamento degli apostoli, che preferiscono non sapere e non vedere, piuttosto che rendersi conto e affrontare le situazioni scomode, è una tattica troppo frequente anche nella nostra vita e all’interno della Chiesa. Si preferiscono le cose sbalorditive e le situazioni trionfalistiche invece dell’annuncio dell’umiliazione di Cristo fatto obbediente fino alla morte di croce (cf. Fil 2,8).
Bisognerebbe invece fare nostre le parole di Paolo apostolo: "Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo" (Gal 6,14). Cristo morto per amor nostro sulla croce è la notizia più sbalorditiva e più beatificante: ci rivela che Dio ha voluto più bene a noi che a se stesso.
Davanti alla passione di Cristo bisogna uscire dall’ambiguità. O si diventa realmente discepoli credenti, accettando la vera grandezza di Dio che è la sua umiltà e piccolezza che si manifesta nel consegnarsi a noi totalmente indifeso, o ci chiudiamo alla fede rifiutandoci di comprendere il mistero della sofferenza e della morte di Dio.
Gesù ci dice: "Mettetevi bene in mente queste parole". Vuole che ci piantiamo nelle orecchie "queste parole". Queste parole non riguardano la sua azione, ma la sua passione, la sua passione d’amore. Dio è l’Amore infinito che si fa infinitamente piccolo per consegnarsi nelle nostre mani, per rivelarci la sua passione d’amore per noi. Se non si capisce l’impotenza di Dio che si consegna nelle mani degli uomini, non si può capire di che genere sia la potenza di Dio e, meno ancora, il suo "silenzio" e la sua "assenza" nella storia dell’umanità. L’amore non è dare cose, ma se stessi. E il dono totale di se stessi, il "consegnarsi" totalmente all’altro, mette in stato di assoluta povertà e impotenza. Ecco perché sono necessari la povertà e l’umiltà, l’impotenza e il "consegnarsi" di Dio nelle nostre mani: perché "Dio è amore" (1Gv 4,8.16).
Il verbo "consegnare" indica l’azione del Padre che ci consegna il Figlio, l’azione del Figlio che si consegna a noi, l’azione di Giuda che lo consegna al sommo sacerdote e al sinedrio, l’azione del sommo sacerdote e del sinedrio che lo consegnano a Pilato, l’azione di Pilato che lo consegna perché sia crocifisso, e, per finire in bellezza, l’azione di Gesù che consegna la sua vita nelle mani del Padre. Un unico verbo costituisce il più grande male dell’uomo che tradisce il Figlio di Dio, e il sommo bene di Dio che, in questa consegna di se stesso, manifesta la sua passione segreta, il suo amore infinito per l’uomo.
La rivelazione di Gesù in croce ci salva, perché ci porta a conoscere e a credere all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16).

46 Frattanto sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. 47 Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: 48 "Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande".
49 Giovanni prese la parola dicendo: "Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci". 50 Ma Gesù gli rispose: "Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi".

Dopo la prima predizione della passione, Gesù aveva insegnato il giusto rapporto dell’io con se stesso: l’io si salva perdendo se stesso per Gesù, e si perde nel volere salvare se stesso lontano da Gesù (Lc 9,23-24).
Ora, dopo la seconda predizione, insegna il rapporto dell’io con gli altri (vv. 46-48) e subito dopo il rapporto del "noi" con gli altri (vv. 49-50).
La paura che porta a cercare di autosalvarsi rende egoisti e avidi di cose (la ricchezza), di persone (potere e vanagloria) e di Dio stesso considerato come oggetto da strumentalizzare secondo i nostri fini (autosufficienza).
La fiducia in Dio, conosciuto come amore, invece porta a perdersi in lui, rende capaci di amare e induce alla povertà, all’umiliazione e all’umiltà. È chiaro quindi perché i discepoli pongono resistenza al cammino di umiltà della passione di Dio per l’uomo: hanno in sé il peccato del protagonismo. È il peccato di Adamo che voleva occupare il primo posto. È l’autoaffermazione, primo ed ultimo frutto dell’egoismo. È il peccato "originale" perché sta all’origine di tutti i mali: di quelli del singolo che non si accetta come creatura (= dipendenza nell’essere) di Dio, e di quelli della comunità, la quale, invece che luogo di fraternità, diventa un campo di battaglia per la supremazia. È il peccato che divide da Dio e dagli altri.
Solo la conoscenza di Dio può rendere umili e solo l’umiltà può farci penetrare sempre più nella conoscenza di Dio, perché Dio è umile.
In questo brano Gesù rivela il mistero della vera grandezza: essa è piccolezza e umiltà, perché il Figlio dell’Altissimo si è fatto il più piccolo di tutti. Gesù capovolge il criterio di realizzazione: non è più l’autoaffermazione, ma l’umiliazione.
In questo brano Gesù spiega anche la vera gerarchia nella comunità dei discepoli: Il più grande è il più piccolo. Perché il più piccolo è lui stesso. Chi accoglie il più piccolo infatti accoglie Dio che si è fatto piccolo per accogliere tutti. Contro ogni stoltissima ambizione di carriera e di arrivismo nella Chiesa, Gesù dichiara che la vera gerarchia trova al suo primo posto l’ultimo, perché il Figlio dell’uomo si è fatto servo di tutti. Questo tema sarà ripreso nell’ultima cena (Lc 22,24ss).
Per Gesù è grande colui che più di tutti si è rimpicciolito per far crescere gli altri a suo apparente scapito e per far posto agli altri, anteponendoli a se stesso. La fede o la mancanza di fede è comprendere o no il mistero della piccolezza e dell’umiltà di Gesù nostro Signore e Dio, nato in una stalla e morto sulla croce per amore.
Il "manifesto" di Cristo porta scritto con lettere di sangue: povertà, umiliazione, umiltà; quello di satana: ricchezza, vanagloria, superbia. Dobbiamo esaminarci sotto quale bandiera stiamo militando.
I vv. 49-50 ci insegnano che il principio del settarismo nelle chiese, origine di ogni divisione, è il "noi" ecclesiale che si pone al posto dell’io di Gesù.
Ai discepoli che tentano di impedire la cacciata dei demoni nel nome di Gesù solo perché operata da uno che non è dei loro, non sta tanto a cuore la salvezza dei fratelli, quanto l’affermazione di se stessi e l’esclusiva dell’appoggio del Signore. Non interessa loro tanto la liberazione dal demonio, quanto, paradossalmente, la sua affermazione che si è annidata e nascosta nell’orgoglio collettivo. Questo orgoglio collettivo cerca l’affermazione del "noi" mediante l’esclusione degli altri, invece che il nome del Signore e il bene dei fratelli.
Questo atteggiamento del "noi" è un impedimento a vincere il maligno. È anzi un’alleanza con lui, e per di più segreta, ignara e a fin di bene, come quella di Pietro quando cerca di ostacolare il cammino di Gesù verso la croce (Mc 8,32-33).
Se Gesù si è fatto piccolo ed escluso per accogliere e includere tutti, anche noi dobbiamo lasciare ogni ricerca di potere e di grandezza personale e comunitaria per non escludere nessuno.
La libertà non è dominare sugli altri e fare quello che si vuole, ma capacità di amare come Gesù. La libertà è sacrificio di sé fino alle estreme conseguenze, nel nome di Gesù: è libertà dagli idoli della ricchezza e del potere e dalla schiavitù dell’io e del noi da cui viene ogni male. Questa libertà è tanto più ampia quanto più è stretto il legame con il Signore.

51 Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme 52 e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. 53 Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?". 55 Ma Gesù si voltò e li rimproverò. 56 E si avviarono verso un altro villaggio.

Gesù, che si dirige coraggiosamente verso Gerusalemme, esprime la sua decisione totale di fare la volontà del Padre, morendo per amore sulla croce. Il verbo "sarebbe stato tolto dal mondo" (v. 51) indica il compiersi del disegno di Dio. Gesù viene tolto dal mondo dagli uomini ed elevato fino al cielo da Dio. La stessa parola esprime le due facce di un’unica realtà, vista rispettivamente come azione dell’uomo e come azione di Dio. L’uomo compie il sommo male togliendo di mezzo il Figlio di Dio e Dio compie il sommo bene innalzandolo a sé nella gloria.
Gesù è l’inviato del Padre che accoglie tutti e proprio per questo non viene accolto (quasi) da nessuno. Il peccato di tutti è il non accogliere la piccolezza di Dio in Gesù; è questa piccolezza la sua vera grandezza!
Giacomo e Giovanni si sentono associati con Gesù, ma non capiscono che l’unico suo potere è l’impotenza di uno che si consegna per amore.
Egli non porta il fuoco che brucia i nemici, ma l’amore che li perdona. Lo zelo senza discernimento, principio di tutti i roghi di tutti i tempi, è esattamente il contrario dello Spirito di Cristo. Giovanni, più tardi (At 8,15-17), ritornerà in Samaria con Pietro, e invocherà sugli stessi samaritani l’Amore del Padre e del Figlio: il fuoco dello Spirito, l’unico che Dio conosce e che il discepolo deve invocare sui nemici. Gesù è la misericordia che vince il male non solo dei samaritani, ma anche e prima ancora, dei suoi discepoli. Egli rivela un Dio di compassione e di tenerezza, ignoto a tutti, ai vicini e ai lontani. Anche se a lunga scadenza, l’impotenza di un Dio che ama avrà l’ultima parola, perché l’ultima parola è Amore.
Luca vuole ricordare l’insuccesso con cui si apre questo ultimo viaggio di Gesù. Il primo viaggio era cominciato con il rifiuto dei galilei, suoi compaesani di Nazaret (4,30), questo con l’ostilità e la mancanza di ospitalità da parte dei samaritani. Questi due fatti anticipano il rifiuto finale degli ebrei di Gerusalemme.
La reazione degli apostoli rispecchia una mentalità bellicosa che Gesù contraddice senza lasciare la ben che minima possibilità di fraintendimenti o di eccezioni. I samaritani respingono il suo invito, ma egli non respinge i samaritani e tanto meno si vendicherà di loro. Egli combatte in modo energico l’opinione dei suoi discepoli che si ostinano a pensare al Messia potente, sempre vittorioso e imbattibile, che dispone di fuoco e fulmini per distruggere tutto e tutti. Un tale modo di pensare è proprio di satana, che aveva invitato Gesù a ricorrere ai prodigi per imporre la sua credibilità (cf. Lc 4,1-13). Ma egli non ha assecondato l’istigazione del demonio allora, né asseconda quella dei discepoli ora, perché provengono ambedue dalla stessa matrice, quella di imporre il bene con la forza, che è sempre una forma di violenza. Un sistema missionario che Gesù non adotta e non approva, ma che affiorerà di frequente nel corso dei secoli. Il vangelo è una proposta che deve farsi strada da sé, con la forza del suo contenuto, e non con imposizioni esterne fisiche o morali.

57 Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: "Ti seguirò dovunque tu vada". 58 Gesù gli rispose: "Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo". 59  A un altro disse: "Seguimi". E costui rispose: "Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre". 60 Gesù replicò: "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio". 61 Un altro disse: "Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa". 62 Ma Gesù gli rispose: "Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio".

La nostra intelligenza è ottusa perché la nostra volontà ha dei desideri e delle priorità che si oppongono alla sequela di Cristo. La nostra volontà è divisa tra il desiderio di seguire lui e quello di tenere le nostre sicurezze materiali, affettive e personali. Siamo chiamati a prendere delle decisioni e a superare le ambiguità della nostra volontà. Essa vorrebbe il fine, ma senza volere i mezzi.
È necessaria una decisione che rompa con i condizionamenti del proprio io: in altre parole bisogna vivere la povertà, la castità e l’obbedienza, senza le quali non si riesce a seguire Gesù.
Essere discepoli significa avere lo stesso destino del Maestro. Egli è un ripudiato, un respinto dagli uomini, un senza-patria, un uomo continuamente in viaggio che opera instancabilmente la salvezza.
Per gli uomini è duro essere senza patria, non potersi rifugiare sotto un tetto protettore, non poter sostare in un accampamento ospitale. Persino gli animali più irrequieti, come le volpi e gli uccelli, hanno una dimora. Il discepolo di Gesù deve essere pronto ad andare, ad essere respinto, a rinunciare al rifugio di una casa.
Il chiamato dei vv. 59-60 è pronto, ma non immediatamente. Vuole soltanto compiere prima il suo dovere di seppellire suo padre. La richiesta di una dilazione appare quindi più che giustificata. Ma Gesù non ammette nessun rinvio. Esige che lo segua incondizionatamente.
È una risposta che sembra spietata, assolutamente estranea al sentimento e al buon senso umano, quasi del tutto immorale. Ma non è così. Questo tale chiede di fare "prima" la sua volontà e poi quella di Dio. Gesù aveva insegnato: "Cercate prima il regno di Dio" (Mt 6,33). Diversamente c’è sempre qualcos’altro prima del Signore e il Signore non è più il Signore.
Seppellire il padre è un dovere di pietà filiale (Es 20,12; Lv 19,3). Ma anche un dovere, posto come prioritario, allontana dal regno di Dio. È il dramma della fede di Abramo: prima l’amore per il figlio promesso da Dio o l’amore per Dio che l’ha promesso? Prima il dono o il Donatore?
La realtà umana, anche la più grande, non va assolutizzata. Porre la creatura prima del Creatore è invertire il rapporto vitale uomo-Dio. La chiamata al regno di Dio esige che nessun affetto sia mai prioritario e assolutizzato rispetto a Dio. È la "castità" dell’uomo, che è la sposa di Dio e deve amare solo lui in modo assoluto. Il resto lo ama in lui e per lui. Egli deve vedere in ogni dono il Donatore e amare, attraverso il dono, Colui che dona. Ciò che occupa il primo posto nel nostro tempo e nei nostri programmi è l’oggetto principale del nostro amore, è il nostro Dio. Per questo tale, il padre morto era più importante del Dio vivo.
Annunciare la vita ai morti nello spirito e risuscitarli è più importante che seppellire i morti nel corpo.
La terza figura del discepolo, presentata nei vv. 61-62, assomma le difficoltà dei primi due. È lui che si propone ed è lui che pone la priorità. Questo episodio richiama la vocazione di Eliseo da parte di Elia che concesse al discepolo di congedarsi dai suoi (1Re 19,19ss). Ma ora qui c’è ben più che Elia (cf. Lc 11,31-32): c’è il Figlio che va ascoltato (cf. Lc 9,35). La sua presenza esige obbedienza assoluta.
La risposta di Gesù parte ancora da un’immagine suggerita dalla vocazione di Eliseo, chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi: egli bruciò il suo aratro e sacrificò i suoi buoi per un’altra semina, quella della parola di Dio.
Volgersi indietro è l’atteggiamento del rimpianto, dell’esitazione. Quando arriva Gesù non c’è tempo da perdere. Questa scelta per Cristo esige una frattura con il passato. Chi ara e guarda indietro per continuare diritto il solco già tracciato non è adatto per il regno di Dio. L’obbedienza a Gesù esige che ognuno lasci il solco tracciato fino a questo momento: è la conversione continua. Chi è attaccato a persone, a cose o al proprio io, e cerca altre sicurezze che non siano l’obbedienza alla Parola (cf. Lc 9,35), è messo male per il regno di Dio.
La radice comune di tutte le tentazioni è l’attaccamento al proprio io. Chi supera questa tentazione ha superato anche tutte le altre. Per questo Gesù dice: "Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso" (Lc 9,23).

CAPITOLO 10

1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. 3 Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4 non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. 5 In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
6 Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi.
7 Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede.
Non passate di casa in casa.
8 Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, 9 curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio.
10 Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11 Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino.
12 Io vi dico che in quel giorno Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città.

Questo brano di vangelo ci vuole ricordare che anche i discepoli sono stati incaricati e inviati dal Signore ad annunciare il regno di Dio. Il numero settantadue ricorda i popoli della "tavola delle nazioni" nel libro della Genesi; capitolo 10, in pratica tutti gli uomini della terra.
I missionari di Cristo vanno a due a due per dare maggior credito alla loro predicazione, perché nella testimonianza di due o tre c’è la garanzia di ogni verità (cf. Dt 17,6; 19,15).
Rispetto all’estensione del campo e del raccolto che si annuncia, il numero degli operai del vangelo è sempre esiguo. Bisogna andare con urgenza e andare tutti. I verbi sono imperativi: "pregate" e "andate" (v. 3). La missione degli inviati non è facile, come non è stata facile per Gesù. I messaggeri del vangelo sono per definizione portatori di buone notizie (cf. Is 52,7-9). Gesù li paragona agli agnelli, simbolo di mansuetudine, che devono andare in mezzo ai lupi, cioè in mezzo agli uomini violenti e assassini. Il loro compito è quello di portare a tutti, casa per casa, la benedizione e la pace.
Gesù manda i suoi discepoli come il Padre ha mandato lui (cf. Gv 20,21). La missione nasce dall’amore del Padre per tutti i suoi figli e termina nell’amore dei figli per il Padre e tra di loro. L’inizio di questo brano di vangelo ci invita a grandi cose: "La messe è molta" (v. 2), cioè tutta l’umanità attende da noi il gioioso annuncio che Dio è Padre e vuole che tutti gli uomini siano salvati. Chi conosce il cuore del Padre è sollecito verso tutti i fratelli.

13 Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. 14 Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi.
15 E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata!
16 Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato".

Le città di Corazin, di Betsaida e di Cafarnao erano i luoghi nei quali Gesù aveva sviluppato, più che altrove, la sua attività. Di questa attività vengono messi in particolare rilievo i miracoli, nei quali si era manifestata la potenza divina di Gesù. Il centro dell’attività di Gesù era Cafarnao, la "sua città" (Mt 9,1). Ad essa, come alle altre due città, aveva offerto salvezza, potenza e gloria. Ma esse non hanno corrisposto.
Gesù sa che Tiro e Sidone, le due città pagane ritenute il centro del materialismo e dello sfruttamento dei poveri (cf. Is 23,1-11; Ez 26-28), avrebbero fatto penitenza se avesse compiuto in esse i miracoli compiuti a Corazin, a Betsaida e a Cafarnao.
L’esclamazione "Guai a te!" non è una minaccia, ma un grido di compianto e di lamento, "ahimè!" (cf. Lc 6,24ss). È il dolore di Dio per il male dell’uomo, il dolore dell’Amore non riamato. La pena del giudizio non è "Guai a te!", ma "Guai a me per te". Diventa infatti la croce di Cristo, che è l’ "ahimè" di Dio per l’uomo. In sé il rifiuto, come ogni altro male, non è direttamente contro Dio, ma contro chi lo rifiuta e così fa il proprio male. Ma come il male dell’amato tocca profondamente chiunque ama, così il male dell’uomo tocca infinitamente il cuore di Dio, perché egli ama l’uomo in modo infinito. Per questo il peccato provoca il lamento e la sofferenza reale di Dio. La croce di Cristo esprime insieme la serietà del suo amore e la gravità del nostro male. Il vero amore, quando non è amato, non minaccia. Non può che lamentarsi e morire di passione. La passione di Dio è infinita come il suo amore.
Da questo si può capire la libertà, ma anche la tremenda responsabilità di rifiutare la salvezza offerta da Dio. Ma, ancor più, il giudizio del rifiuto e il male che ne consegue non ricadono su di noi, ma su di lui che continua ad amare e ad offrirsi, senza lasciarsi condizionare dal nostro rifiuto e dalla durezza del nostro cuore. Infatti "il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui" (Is 53,5), e "colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" (2Cor 5,21), e ancora "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi" (Gal 3,13). Questo "ahimè!" di Dio è il più forte annuncio della salvezza e non, come qualcuno erroneamente crede, la minaccia della dannazione eterna. Gesù non condanna Corazin, Betsaida e Cafarnao, ma vuole far comprendere loro la grandezza del dono d’amore che esse hanno rifiutato, perché si ravvedano e l’accolgano. Il fine di ogni parola di Dio all’uomo non è la condanna, ma la conversione.
La missione ha il suo principio e la sua sorgente nell’amore del Padre, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (cf. 1Tm 2,3-4). Egli ha mandato il suo Figlio per la salvezza del mondo (cf. Gv 3,16). Come Gesù è l’apostolo del Padre, così anche noi siamo gli apostoli di Gesù, designati a continuare la sua missione di salvezza. Nei suoi messaggeri è presente Gesù e in Gesù è presente il Padre. La parola detta dai messaggeri, quando parlano secondo il vangelo, è la parola di Gesù e, in definitiva, la parola del Padre: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato" (v. 16).
Esiste una catena inscindibile tra i messaggeri, Gesù e il Padre. Per la sua mediazione verso il popolo Gesù si serve dei messaggeri. L’uomo viene condotto a Dio dall’uomo. Tra i due atteggiamenti, ascoltare o disprezzare, non esiste una via di mezzo. Nessuno può restare indifferente di fronte alla parola di Dio. Chi non è con Gesù, è contro di lui. Chi non osserva la sua parola, la rifiuta e la disprezza.
L’annuncio del regno di Dio è la forma più alta di testimonianza cristiana, perché associa alla passione di Cristo: ci espone insieme con lui, inviato a testimoniare l’amore del Padre, al rifiuto, alla persecuzione e alla croce.

17 I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: "Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome". 18 Egli disse: "Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. 19 Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. 20 Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli".
21 In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: "Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. 22 Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare".
23 E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. 24 Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono".

Al ritorno dei 72 discepoli, che aveva mandato in missione, Gesù rivela il senso ultimo dell’attività missionaria. Essa non è soltanto vittoria sul male e ritorno al paradiso terrestre, ma è soprattutto iscrizione nel libro della vita, nell’elenco di coloro che fanno parte della famiglia di Dio, nello stato di famiglia di Dio. Tutti coloro che accolgono la parola di Dio partecipano al rapporto ineffabile del Figlio di Dio con il Padre. Non solo sono chiamati figli di Dio, ma lo sono realmente (cf 1Gv 3,1). Gesù dice ai suoi discepoli: "Rallegratevi", perché sono entrati insieme con lui nel seno del Padre e possono dire a Dio in tutta verità: "Abbà", papà, babbo. Questo è il fine ultimo della missione.
L’uomo è fatto per la gioia, perché è fatto per Dio. Diversamente è triste fino a detestare la vita. Ma dove può trovare la gioia vera? I 72 discepoli l’hanno trovata nell’andare in missione, nello sconfiggere il demonio, nel diventare realmente figli di Dio di nome e di fatto. E noi dove la cerchiamo?
Il cristianesimo riconosce il male che era nell’uomo e che rimane in tutti come possibilità e tentazione. Ma proclama con forza che Dio "ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto" (Col 1,13) e ci ha "liberati dalle mani dei nemici per servirlo senza timore in santità e giustizia" (Lc 1,75). La fede nella parola di Dio ci sottrae dal potere della menzogna diabolica. L’annuncio del vangelo ci rende liberi e responsabili.
Questa caduta di satana dall’alto ridona all’uomo la possibilità di vedere finalmente il vero volto di Dio. Il maligno si era frapposto tra noi e Dio e aveva cercato di sovrapporre la sua immagine a quella di Dio. Questa menzogna, che presenta Dio con il volto del maligno sta all’origine di ogni peccato. Nella predicazione della parola di Dio, satana cade dal cielo e Dio torna ad apparire all’uomo con il suo vero volto, quello dell’amore (cf 1Gv 4,8.16).
La gioia dei discepoli per il successo della loro missione provoca un sussulto di esultanza anche in Gesù. Non è solo una gioia fisica, ma soprattutto interiore, spirituale. È ridondanza dello Spirito Santo che abita in lui fin dal suo concepimento (Lc 1,35), dal battesimo (Lc 3,22), dall’investitura ricevuta nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,18).
Egli si rivolge a Dio chiamandolo Abbà, termine che nella famiglia ebraica era usato normalmente dai figli più piccoli per chiamare il proprio papà. Gesù lo usa per sottolineare il grado di intimità che lo lega a Dio. Il Papà di Gesù è il Creatore del cielo e della terra, ma nei confronti dell’uomo è un carissimo amico, un familiare, il papà. Anche in questa circostanza Gesù si impegna a liberare l’uomo dal terrore di Dio.
La gioia di Gesù è motivata dal criterio che Dio ha scelto nella manifestazione dei suoi misteri. Li ha nascosti ai sapienti e agli intelligenti e li ha rivelati ai piccoli. Cristo e il suo messaggio non sono stati accettati da persone colte e istruite come le autorità del popolo giudaico, ma sono stati capiti e accolti dalle persone semplici, povere e umili. La sapienza di Dio, espressione del suo amore, è stupidità e debolezza di uno che ama fino alla morte di croce (1Cor 1-2). È esattamente il contrario della sapienza umana, manifestazione dell’egoismo, che cerca di salvarsi a tutti i costi dalla morte.
Queste due sapienze si oppongono come menzogna e verità, paura e fiducia, egoismo e amore, possesso e dono, morte e vita. Dio, nel suo sapiente disegno, distrugge la sapienza dei sapienti e annulla l’intelligenza degli intelligenti (cf. 1Cor 1,19-21; Is 29,14).
La rivelazione della paternità di Dio è la salvezza dell’uomo: "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17,3).
Il tutto che il Padre dona al Figlio è la vita eterna. Il mistero del Padre è nel Figlio. Egli ci rivela chi è Dio e chi siamo noi per lui. Ci dona la sua stessa conoscenza del Padre, perché lo amiamo con il suo stesso amore.
I discepoli devono essere pieni di gioia perché vedono Gesù. In lui possono vedere ciò che i profeti, i re e l’intero popolo di Dio hanno desiderato vedere e non hanno visto. Tutto Israele è vissuto nell’attesa di questo giorno, e solo loro, i pochi discepoli di Gesù, possono vedere la realizzazione delle promesse di Dio e ascoltare il vangelo della salvezza.

25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". 26 Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?". 27 Costui rispose: " Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso". 28 E Gesù: "Hai risposto bene; fà questo e vivrai".
29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo?". 30 Gesù riprese:
"Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". 37 Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va’ e anche tu fa’ lo stesso".

Il comandamento dell’amore è il cardine dell’Antico e del Nuovo Testamento. Definisce la verità dell’uomo nella sua relazione con Dio, con gli altri e con se stesso (Dt 6,4ss; Lv 19,18). La morte prodotta dal peccato è l’incapacità di amare. L’uomo è creato per amore ed è fatto per amare; se non ama è fallito. Tutto il mondo non vale un atto di amore. "È più prezioso per il Signore e per l’anima, e di maggior profitto per la Chiesa, un briciolo di amore puro che tutte le altre opere insieme, anche se sembra che l’anima non faccia niente" (San Giovanni della Croce).
Il problema fondamentale dell’uomo è la vita eterna (v. 25). Ma ciò che conduce alla vita eterna non è il semplice sapere qual è il comandamento più grande, ma il metterlo in pratica: "Fa’ questo e vivrai" (v. 28), "Va’ e anche tu fa’ lo stesso" (v. 37). L’amore del prossimo è amore attivo: "Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1Gv 3,16-18); "Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che questa fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa" (Gc 3,14-17). Chi ama concretamente e si lascia commuovere da ogni bisogno dell’uomo, ama Dio ed è obbediente al comandamento di Dio.
Amare Dio e amare il prossimo è la stessa cosa. Chi ama i propri simili ama Dio, anche se non lo sa. La misura dell’amore verso Dio è l’uomo, che dobbiamo amare come noi stessi e come Cristo lo ama (cf. Gv 15,12). Il " prossimo" designa tutti gli uomini e le donne, ma in particolare i più colpiti, i più bisognosi. Bisogna avvicinarsi a essi fino a identificarsi con loro, come fossero noi stessi: perché sono noi stessi.
La parabola vuole cogliere ed evidenziare la reazione di tre passanti davanti a un infelice "spogliato, percosso e mezzo morto" (v.30). Il primo e il secondo, il sacerdote e il levita, vedono e passano oltre. Essi sono assenti dove Dio ha bisogno di collaboratori e sono presenti nel tempio dove Dio non ha bisogno di nulla. Questo atteggiamento religioso non è fede, ma alienazione, cioè vivere fuori dalla realtà di Dio e dell’uomo.
L’attenzione della parabola è rivolta soprattutto al terzo passante, a un samaritano, il quale fa prevalere la pietà, la compassione verso il ferito. Egli agisce in base a ciò che la situazione richiede e non secondo leggi e norme umane che spesso servono più per impedire il bene che per farlo. La sua legge è la regola d’oro: "Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (Lc 6,31).
Secondo l’opinione dei giudei, il samaritano non era un ortodosso, cioè non aveva idee esatte su Dio, non celebrava il culto nella forma dovuta; era un eretico, uno scismatico. Ma, contro le apparenti valutazioni, nel suo cuore e nel suo agire è l’unico dei tre in piena comunione con Dio, perché sa cogliere il richiamo della sua voce che lo spinge a soccorrere un uomo in estrema necessità. Non solo interrompe il suo viaggio e tramanda i suoi orari e i suoi affari, ma spende il suo denaro per soccorrerlo: egli ama questo sconosciuto come se stesso. L’amore del prossimo, in cui si trova il segreto della vita eterna, richiede di avvicinarsi agli altri, soprattutto a quelli che sono in difficoltà, per offrire loro il nostro aiuto generoso e gratuito anche a scapito della nostra tranquillità e dei nostri interessi. Non bastano e non contano le idee esatte su Dio e sulla religione per entrare nella vita eterna: ciò che conta sono le opere dell’amore.
Il samaritano è l’unico credente della parabola perché ha compiuto l’opera che Dio stesso avrebbe fatto se si fosse trovato a passare in quel momento e su quella strada. Il servizio di Dio è servizio al prossimo. Chi non vuole rendersi conto di quello che accade sulle strade del mondo, per portarvi il necessario soccorso, non ha la fede, non ha la carità. Il samaritano è la figura ideale del cristiano. Egli vive nella sua persona i comportamenti di Gesù, che ha dato la vita per gli altri, amici e nemici. Gesù ha amato veramente tutti, senza chiedere a nessuno la carta d’identità razziale o religiosa, o il certificato di buona condotta e di profitto spirituale.
La Chiesa è rappresentata in questa locanda (nel testo originale greco pandochèion che significa luogo che accoglie tutti) e ognuno di noi è rappresentato da questo locandiere (in greco pandòcos che significa colui che accoglie tutti).Questa piccola locanda-chiesa è presente nel mondo, ovunque uno è disposto ad accogliere tutti gli altri. Questa locanda-chiesa è l’anticipo della Gerusalemme celeste che accoglierà in sé tutti quelli che hanno accolto gli altri. "Venite, benedetti del Padre mio… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt 25,35-40).
Prima di andarsene, il samaritano-Gesù ci ha lasciato due denari, che sono il prezzo dell’amore del Padre e dei fratelli pagato di persona da lui. È quanto basta per vivere fino al suo ritorno. Egli che ci ha amati per primo, ha dato anche a noi la sua capacità di amare Dio e il prossimo e così ereditare la vita eterna.
Il fare misericordia è la sintesi di tutta l’azione storica di Dio verso l’uomo (cf. Sal 136) ed è il senso della missione di Gesù. Egli infatti "passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui" (At 10,38). Con Gesù è scesa sulla terra la misericordia stessa del Padre. Vicino ad ogni uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, ad ogni uomo che compie il viaggio della vita, c’è uno che vede e fa misericordia. I due comandamenti: "Va’ e anche tu fa’ lo stesso" (v. 37) mettono il cristiano al seguito di Cristo e lo fanno collaboratore della sua stessa missione. Questo impegno durerà fino alla fine del tempo, fino a quando tutti i fratelli saranno portati nel pandochèion, nella casa del Padre.

38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. 39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". 41 Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42 ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta".

Ci sono molti impegni verso Dio e verso il prossimo, ma tra i tanti, il più importante è ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica (Lc 6,47; 8,21; 11,28). L’importanza assoluta del servizio della parola di Dio emerge chiaramente anche dagli Atti degli apostoli: "Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense" (6,2). Il vangelo non vuole assolutamente frenare l’impegno delle buone opere, ma purificare l’azione nella contemplazione. Per essere come Gesù, dobbiamo essere "contemplativi nell’azione". Maria che ascolta e vede Gesù, realizza in sé la beatitudine del discepolo: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono" (Lc 10,23-24). Il vero discepolo ricorda l’insegnamento di Dio: "Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore" (cf. Dt 8,3; Lc 4,4).
Questo brano insegna che la "parte buona" riservata ai leviti (Dt 10,9; Gs 18,7; Sal 16,5-6), ossia il culto dell’Antico Testamento, è sostituita con la "parte buona" del culto del Nuovo Testamento che è l’ascolto della parola di Dio in ogni luogo dove qualcuno è disposto a riceverla.
Maria è la prima che obbedisce alla voce del Padre: "Questi è il mio Figlio, l’eletto: ascoltatelo" (Lc 9,35). La contemplazione e l’ascolto ai piedi del Signore è l’azione più grande dell’uomo: lo genera figlio di Dio (cf. 1Pt 1,23) e lo associa alla missione stessa di Gesù. Ogni missione parte da Gesù e ritorna ai piedi di Gesù.
Marta è "tutta presa dai molti servizi". Gesù le dice: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose" (v.41). Gesù non rimprovera Marta, ma la esorta a diventare come Maria. Principio del servizio di Marta, fino a quando non diventa come Maria, è il proprio io. L’io religioso è il più duro a convertirsi: si ritiene nel giusto perché cerca di piacere a Dio e di sacrificarsi per lui. Si può arrivare anche all’eroismo di morire per gli altri (cf. Lc 22,23; 1Cor 13,3) pur di affermare il proprio io. Ma la salvezza non è morire per Dio, ma Dio che muore per noi. La peggiore empietà è quella del giusto che agisce per compiacere se stesso, condannando il prossimo e cercando anche l’approvazione di Dio (cf. Lc 18,9-14). E questo atteggiamento farisaico è presente anche in Marta (v. 40). Nel capitolo 12 di questo vangelo Gesù insegnerà a tutti di non affannarsi per il mangiare e il bere: "Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno" (12,29). E ricalcherà anche l’insegnamento dell’"unica cosa di cui c’è bisogno"(v. 42), dicendo: "Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta" (Lc 12,31).
Commentando questo brano di Vangelo, sant’Agostino mette sulla bocca di Gesù queste parole, rivolte a Marta nei confronti della sorella Maria: "Tu navighi, essa è in porto". Il cuore di Maria è già dov’è il suo tesoro (cf. Lc 12,34). Il suo bene è stare vicino a Dio (cf. Sal 73,28).

CAPITOLO 11

1 Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli". 2 Ed egli disse loro: "Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
3 dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
4 e perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore,
e non ci indurre in tentazione".

Questa preghiera è un rapporto diretto tra un "Tu" che è il Padre e un "noi" che è il nostro vero io, in quanto siamo in comunione con il Figlio e con i fratelli. La fraternità tra gli uomini si fonda unicamente sulla paternità di Dio. Di conseguenza, non si può stare davanti al Padre separati dal Figlio e dai fratelli: sarebbe negare la sua paternità proprio mentre lo chiamiamo "Padre". Per questo se non amiamo e non perdoniamo i fratelli, non amiamo il Padre e non accettiamo il suo amore e il suo perdono.
Tutto quanto chiediamo con questa preghiera al Padre, ce lo ha già donato nel suo Figlio e, quindi, la preghiera è aprire la nostra persona ad accogliere quanto Dio ha già realizzato per noi.
La preghiera è comunione con Gesù e con i fratelli per vivere la vera fraternità e la vera filialità in Cristo ed entrare nel dialogo di Gesù con il Padre. Nella preghiera troviamo la sorgente della nostra vita, il Padre; per questo, chi prega vive e chi non prega muore, secondo il detto di sant’Alfonso de’ Liguori: "Chi prega si salva e chi non prega si danna". E sant’Agostino ci insegna: "Chi impara a pregare, impara a vivere". Si impara a pregare pregando Gesù perché ci insegni a pregare: "Signore, insegnaci a pregare" (v. 1). Solamente imparando da Cristo, i cristiani pregano da cristiani, figli del Padre e fratelli di Cristo, e vivono secondo il vangelo.
La preghiera insegnataci da Cristo ci rivela la nostra vera identità di figli nel Figlio. Il Padre ci ama come ama il Figlio; ci ama più di se stesso: "Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi" (Rm 8,32). Avvolti dalla tenerezza di questo amore infinito, possiamo vivere nella serenità e nella fiducia. L’olio e il vino che guariscono le nostre ferite mortali (cfr Lc 10,34) è l’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato (cf. Rm 5,5). Dio sarà sempre nostro Padre, perché il Figlio si è fatto per sempre nostro fratello.
"Sia santificato il tuo nome" significa glorificare la persona del Padre nella nostra vita, dando a lui l’importanza che ha e, di conseguenza, amandolo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze. Il nome di Dio è santificato quando accogliamo il suo amore e la sua paternità e accettiamo di essere suoi figli senza paura del nostro limite e della nostra morte. Chi rifiuta la paternità di Dio cerca di essere padre a se stesso, glorificando il proprio nome. Da questo rifiuto, che è la radice del peccato, nasce l’orgoglio e l’ansia, la paura che ci allontana da lui e ci divide tra noi, la voracità che ci separa dai fratelli e distrugge il creato. Tutti quelli che cercano la propria gloria, non possono credere in Gesù e quindi rifiutano anche il Padre: "Come potete credere, voi che prendete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?" (Gv 5,44).
"Venga il tuo regno". Il regno di Dio è la liberazione dal potere del diavolo e dalla dannazione eterna; è la sovranità di Dio nostro Padre che ci libera da ogni schiavitù e ingiustizia, da ogni inquietudine e tristezza. Il regno di Dio è già venuto nella persona di Gesù, viene in ogni istante della nostra vita e della storia quando accogliamo Gesù, e verrà nella pienezza della sua gloria quando tutti gli uomini saranno figli del Padre e Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28). Il regno di Dio viene ogni volta che accogliamo la misericordia e la compassione di Dio e doniamo ai fratelli la misericordia e la compassione ricevuta da Dio.
"Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano". Chiediamo al Padre il pane per la vita umana e per la vita divina, per la vita presente e per la vita eterna. Dietro ogni pane c’è la mano del Padre che ce lo porge come dono del suo amore. Il pane "nostro" è dono del Padre per tutti i suoi figli e va condiviso con tutti i fratelli. Chi defrauda l’altro non gli è fratello e non si comporta da figlio di Dio. Dopo il peccato, il pane va guadagnato con il sudore della fronte (Gen 3,19; 2Ts 3,6-13), diversamente è rubato. Il pane di cui l’uomo vive è l’amore di Dio, ed è concesso gratuitamente ad ogni figlio, anche indegno e perverso, perché Dio non ci ama per i nostri meriti ma per il nostro bisogno.
"Perdonaci i nostri peccati". Dio ci ha creato per dono del suo amore e ci ricrea col per-dono della sua misericordia. E questo secondo dono è più grande del primo, è un super-dono. Il cristiano non è e non si crede un giusto, ma un giustificato. San Luca ha centrato giustamente tutto il suo vangelo sulla misericordia del Padre che si manifesta nella vita del Figlio Gesù. Il credente in Gesù perdona perché è stato perdonato da Dio. Chi non perdona, non conosce né il Figlio né il Padre. L’unico peccato imperdonabile è quello di chi non perdona e ritiene di non dover essere perdonato per questo. La cecità di chi si ritiene giusto (cf. Lc 9,41) e non conosce il perdono da dare e da ricevere, è il peccato contro lo Spirito. Il cristiano non è perfetto, ma misericordioso; non è sicuro di non cadere, ma compassionevole verso chi è caduto. Per questo non condanna, ma perdona. La sola condizione per il perdono del Padre è il perdono dato ai fratelli.
"Non c’indurre in tentazione". Non chiediamo a Dio di non essere tentati, ma di non cadere quando siamo tentati. Anche a questo riguardo la parola di Dio ci rassicura: "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla" (1Cor 10,13). La tentazione più grande è quella di perdere la fiducia nel Padre. Il credente è tentato soprattutto dalla mancanza di fede nella misericordia di Dio: non riesce ad accettare che Dio sia così buono, soprattutto nei confronti degli altri. Ma la vittoria che ha vinto il mondo è proprio la nostra fede nell’infinita misericordia di Dio.

5 Poi aggiunse: "Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, 6 perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; 7 e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; 8 vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
9 Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10 Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. 11 Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? 12 O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13 Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!".

Questa parabola è un commento a Lc 11,3: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano". Ci esorta a una preghiera coraggiosa, a una fede senza esitazioni. Potrebbe essere riassunta con il detto ebraico, che recita così: "L’importuno vince il cattivo, tanto più Dio infinitamente buono".
Gesù ci assicura che Dio esaudisce ogni preghiera. Egli non è sordo alle richieste dell’uomo. Non si nasconde davanti a lui. E questo, perché ama infinitamente l’uomo, suo figlio. Quindi il problema non esiste da parte di Dio ma, eventualmente, da parte dell’uomo. L’uomo prega solo se si sente veramente bisognoso: i sazi e i buontemponi non sentono il bisogno di pregare. La prima condizione per la preghiera è la consapevolezza della propria povertà. L’unica condizione che Gesù pone per l’esaudimento delle nostre preghiere presso Dio è la fiducia, anzi, la certezza di essere ascoltati. Se l’uomo si commuove davanti alle necessità di un amico o di un figlio, tanto più Dio.
Le parole "molestia" e "importunità" sottolineano l’insistenza e il coraggio del richiedente. Se già gli uomini egoisti, falsi amici, ecc. alla fine si scomodano ed esaudiscono, quanto più dobbiamo avere piena fiducia in Dio. Egli non ci ascolta per togliersi d’attorno uno scocciatore, ma perché è il vero nostro amico: è il nostro papà.
Le preghiere rivolte a Dio possono assomigliare a quelle di un figlio verso il padre umano. E’ impensabile che questi risponda con cattiverie alle richieste di cibo del figlio. Non c’è un padre così spietato tra gli uomini, tanto meno si può pensare che un tale comportamento sia possibile in Dio. Gli uomini sono cattivi, Dio è buono. Se un padre umano, che è cattivo, sa dare cose buone a suo figlio, quanto più il Padre del cielo darà tutto, cioè lo Spirito Santo, a coloro che glielo chiedono. Nel vangelo di san Matteo, Dio dà "cose buone" (7,11), cioè i beni della salvezza, in san Luca dà lo Spirito Santo, che è il Dono dei doni. La differenza tra i due testi è meno rilevante di quanto potrebbe sembrare. L’uomo si raccomanda per il pane e Dio gli dona anche lo Spirito Santo, che è il Dono che contiene tutti gli altri doni.
Solo Dio può riempire il cuore dell’uomo. Egli ci dà "molto di più di quanto possiamo domandare o pensare" (Ef 3,20): si dona a ciascuno secondo il suo desiderio. L’unica misura del dono è data dal nostro desiderio: chi desidera poco, riceve poco; chi desidera tutto, riceve tutto. Il tema dominante è la paternità di Dio che si esprime nel dare. Noi dobbiamo chiedere non perché lui ignora il nostro bisogno, ma perché il dono può essere ricevuto solo da chi lo desidera. Quanti doni di Dio abbiamo rispedito al mittente! Questo brano ci esorta a grandi desideri che ci fanno capaci di ricevere il dono più grande: lo Spirito Santo.
Quando il Padre sembra restìo a dare, è perché non ci dà ciò che vogliamo, ma ciò che è giusto. Di solito chiediamo a Dio che soddisfi i nostri bisogni immediati e superficiali, ma egli vuol farci scoprire e colmare il nostro bene essenziale: essere suoi figli. Ci nasconde i suoi doni, affinché cerchiamo lui che è il Donatore. Egli esaudisce sempre le nostre preghiere quando sono secondo la sua volontà; e ci fa proprio un grande piacere a non esaudirle quando non sono secondo la sua volontà, perché farebbe il nostro male. Quando preghiamo succede sempre qualcosa di buono, anche se non sempre sappiamo che cosa.

14 Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate.
15 Ma alcuni dissero: "E’ in nome di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni". 16 Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. 17 Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: "Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. 18 Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl. 19 Ma se io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. 20 Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
21 Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. 22 Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino.
23 Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.
24 Quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. 25 Venuto, la trova spazzata e adorna. 26 Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della prima".

È lo Spirito Santo che ci libera dallo spirito maligno. Nel capitolo quarto del vangelo di Luca avevamo letto: "Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo… Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per tornare al tempo fissato" (Lc 4, 1.13). La lotta che Gesù condusse contro satana nel deserto, ora continua. La sua forza è lo Spirito del Padre. Di fronte a questi due contendenti, ognuno deve schierarsi. Non è possibile rimanere neutrali (cf. v. 23).
Le tentazioni che Gesù subì nel deserto ritornano continuamente durante la sua vita. Il diavolo e i suoi amici chiedono sempre e monotonamente la stessa cosa: un segno dal cielo (v. 16). E Dio dà i suoi segni: non quelli della potenza, ma quelli dell’umiltà. Il segno di Dio è il segno della Croce. Non può darne uno più grande. Là infatti dona tutto se stesso e si rivela come amore infinito e incondizionato per noi.
Vincere lo spirito del male è il primo obiettivo della missione di Gesù (cfr.Lc 10,18) per donare all’uomo il suo Spirito di Figlio. Ogni vittoria sullo spirito di menzogna e di egoismo si ottiene solo con la forza dello Spirito di verità e di vita (cf. Lc 9,49-50).
Satana ha vinto ogni uomo nel primo uomo, Adamo. Da allora egli è "l’uomo forte, bene armato" (v 21) che fa la guardia ai suoi possedimenti, che sono tutti i regni della terra (cf. Lc 4,6). Gesù è "il più forte" (cf. Lc 3,16) preannunciato da Giovanni il Battista. Egli viene dall’alto come sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte (cfr Lc 1,78-79). La sua vittoria è automatica, come quella della luce sull’oscurità. Ad essa può sottrarsi solo chi chiude gli occhi nella cecità volontaria (cf. Gv 9,41). Gesù spoglia satana di tutte le sue armi, che sono quelle dell’avere, del potere e dell’apparire, quando muore, spogliato di tutto, sulla croce. In questo modo restituisce all’uomo ciò che il demonio gli aveva tolto: la sua vera identità di immagine di Dio e la sua realtà di figlio di Dio.
Lo stare con Gesù è la caratteristica della nostra vita presente (cf. Lc 8,2; Mc 3,4) e della nostra vita futura (cf. 1Ts 4,17). Chi non è con Gesù è con il diavolo. Non esiste una terza posizione, una terza possibilità.
Satana, cacciato dall’uomo, cerca di entrare nuovamente in lui usando tutti i mezzi che può avere a disposizione. Bisogna resistergli nella fede (cf. 1Pt 5,8-9) per non ricadere nella schiavitù di prima, come ci ricorda anche la Lettera agli Ebrei: "Quelli che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi del dono della Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro. Tuttavia se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal momento che per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia" (Eb 6,4-6). Se il credente ritorna sotto il potere di satana, cade in una situazione peggiore di quella dalla quale Cristo l’aveva liberato.

27 Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!". 28 Ma egli disse: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!".

La felicità e l’onore di una donna dipende dai figli che essa ha generato e nutrito. Una donna del popolo è profondamente toccata dalla grandezza di Gesù. Egli rovescia il dominio di satana e porta la salvezza. La fama del figlio si riflette anche sulla madre.
La madre di Gesù è da lodare. La grandezza di Gesù rende grande anche la madre. Ma questa lode potrebbe essere interpretata male. La maternità fisica, da sola, non è motivo sufficiente per essere chiamata beata. Molto più è da proclamare beato chi ascolta la parola di Dio e la osserva. Maria ha ascoltato, ha creduto a ha messo in pratica. Essa è beata perché è la madre di Gesù, il vincitore dei demoni e il Salvatore; ma lo è molto di più perché ascolta e osserva la parola di Dio.
Il grido della donna "beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!" riecheggia quello di Elisabetta: "Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno" (Lc 1,42). Ma Elisabetta aveva aggiunto anche il motivo ultimo di questa beatitudine: "Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45). E Gesù riprende questa motivazione, dicendo: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!" (v. 28). La grazia e la grandezza di Maria non scaturiscono dalla sua maternità fisica, ma dall’adempimento della volontà di Dio. La sua beatitudine consiste nell’aver ascoltato e accolto la sua parola con il cuore e la mente e soprattutto di averla messa in pratica. La parola è la volontà di Dio che le chiede di prendere un posto accanto al figlio, nonostante che lei non ne colga sempre tutta la portata e le conseguenze. Ma questo posto accanto a Gesù è disponibile a tutti: dipende solo dalla capacità di ascolto e di accoglienza della parola di Dio e dal metterla in pratica. Maria si distingue nella Chiesa per la sua fedeltà alla proposta di Dio. Tutti possono salire fino a lei, purché vivano come lei. Invece di invidiare Maria, dobbiamo imitarla nell’ascolto e nella pratica della parola di Dio.
La vera beatitudine è Gesù. Egli, Parola eterna del Padre fatta carne nell’obbedienza, è nuovamente Parola nell’annuncio del vangelo per incarnarsi in quanti l’accolgono. La maternità di Maria, prima che nel ventre, fu nella mente e nel cuore. Ella obbedì, e per questo fu madre. La sua beatitudine si estende a tutti coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica.

29 Mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: "Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. 30 Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione. 31 La regina del sud sorgerà nel giudizio insieme con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, ben più di Salomone c’è qui. 32 Quelli di Nìnive sorgeranno nel giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, ben più di Giona c’è qui.

Non dobbiamo invidiare la generazione dei contemporanei di Gesù. Egli stesso la definisce "generazione malvagia" perché è ancora sotto lo spirito del maligno e chiede dei segni invece di convertirsi all’annuncio della sua parola. Egli si rifiuta di dare dei segni "fuorché il segno di Giona". Gesù sarà il segno della misericordia di Dio per tutti. Invece di chiedergli segni, bisogna convertirsi all’annuncio della sua morte e risurrezione. Se la fede è obbedire a Dio, il contrario della fede è la pretesa che Dio obbedisca a noi. E questo avviene quando si instaura con Dio un rapporto di ricatto, chiedendo sempre prove nuove e più grandi, senza decidersi a credere al suo amore. Dio ci concede dei segni per farci arrivare alla fede. Ma chi ne cerca ancora dopo essere arrivato alla fede, instaura con Dio un rapporto di ricatto invece che di fiducia. I segni che Dio ci dà rispettano sempre la nostra libertà, ossia non ci costringono mai a credere. Tutti i segni che Dio concede in Gesù si riassumono nel segno di Giona: egli fu segno di un Dio misericordioso e clemente, di grande amore, che si lascia impietosire (Gio 4,2).
Gesù è il maestro di sapienza al quale i credenti possono rivolgersi sicuri di trovare maggior conforto di quanto ne ebbe la regina di Saba nell’ascoltare i responsi di Salomone. La salvezza dipende dalla nostra risposta all’annuncio di misericordia di colui che è più di Salomone e di Giona, al di sopra dei sapienti e dei profeti.

33 Nessuno accende una lucerna e la mette in luogo nascosto o sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché quanti entrano vedano la luce. 34 La lucerna del tuo corpo è l'occhio. Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle tenebre. 35 Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. 36 Se il tuo corpo è tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso, come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore".

Gesù ha appena detto che l’unico segno concesso è quello di Giona agli abitanti di Ninive: l’annuncio e la conversione alla misericordia di Dio. Ora parla per ben 11 volte della luce, con termini diversi (lampada, luce, illuminare…). Chi si converte passa dalle tenebre alla luce e diventa lui stesso lampada accesa, destinata ad illuminare anche gli altri. Ognuno però veda innanzitutto se è acceso o spento. La luce è Gesù morto e risorto. L’uomo accende la propria lampada convertendosi al suo annuncio.
Le tematiche di questo brano sono due. La prima è missionaria: il discepolo non dimentichi la responsabilità di illuminare gli altri (v. 33). La seconda è esortativa: per illuminare bisogna essere illuminati (vv. 34-36).
Gesù è la luce del mondo (Gv 8,12). Il discepolo è la lampada accesa a questa luce mediante il battesimo (Ef 5,14). Essa deve illuminare tutti gli uomini perché giungano alla conoscenza dei misteri del regno di Dio (Lc 8,10) e, nella rivelazione del Figlio, possano dire "Abbà". Il discepolo non può occultare la luce di Cristo sottraendosi alle sue responsabilità davanti al mondo. Per questo bisogna che si confronti continuamente con Gesù per associarsi al suo mistero di povertà, umiliazione e umiltà.

37 Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola. 38 Il fariseo si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo. 39 Allora il Signore gli disse: "Voi farisei purificate l’esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità. 40 Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? 41 Piuttosto date in elemosina quel che c’è dentro, ed ecco, tutto per voi sarà mondo.

Il fariseismo rappresenta la deviazione più frequente della religione. In esso l’esperienza di fede viene ridotta a un meccanismo di cerimonie, di riti, di pratiche, senza preoccuparsi di riempirle di un contenuto. Il fariseo che ha invitato Gesù a pranzo è rimasto meravigliato che non abbia eseguito le abluzioni rituali prima di sedersi a tavola. I farisei credono di fare la volontà di Dio purificando l’esterno e dimenticando che Dio guarda soprattutto l’interno dell’uomo. Difatti si lavano attentamente e scrupolosamente prima dei pasti, ma dentro, nel loro cuore, rimangono pieni di cattiveria e di rapacità. Ma la vera purità interiore non si ottiene con i riti, ma liberando l’animo dall’attaccamento egoistico a noi stessi e ai nostri beni, per soccorrere gli indigenti. Il cuore diventa puro mediante l’amore fraterno.
Il fariseo ha due caratteristiche: "presume di essere giusto" e "nientifica gli altri" (Lc 18,9), cioè li disprezza cordialmente e non li valuta per nulla. A queste due ne aggiunge una terza, comune a tutti: ama il denaro (cf. Lc 16,14), senza il quale nessuna presunzione è in grado di farsi valere. Egli si vanta davanti a Dio e agli uomini, rubando la gloria di Dio e disprezzando i fratelli. Ha sostituito la misericordia di Dio con la propria impeccabilità. Invece di mettere Dio al centro di tutto, ha messo se stesso. Anche Dio è in funzione di lui. Il fariseo è il "nemico" numero uno di Gesù ed è quindi particolarmente amato da lui (cf. Lc 6,27.35).
Il vangelo di Luca sembra scritto apposta per convincere i giusti che sono peccatori, e così convertirli e salvarli insieme con gli altri peccatori pentiti.

42 Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l’amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre. 43 Guai a voi, farisei, che avete cari i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. 44 Guai a voi perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo".
45 Uno dei dottori della legge intervenne: "Maestro, dicendo questo, offendi anche noi". 46 Egli rispose: "Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!

I farisei osservano scrupolosamente la legge nelle piccole cose e la calpestano nei comandamenti essenziali. Sono vanagloriosi. Esteriormente si presentano irreprensibili, ma interiormente sono ben lontani dall’osservanza della legge.
Gesù esige che la legge sia osservata per intero: "Queste cose bisogna curare senza trascurare le altre" (v. 43). Ma il precetto più importante è il comandamento dell’amore (cfr Lc 10,27). Chi ama compie tutta la legge (cf. Rm 13,10), anche quella sulle decime. Chi non ama non osserva nulla, anche se compie tutti gli atti di osservanza. L’osservanza dei comandamenti, se è senza amore, è non osservanza. Invece di amare Dio e il prossimo, il fariseo ama se stesso; si mette al centro di tutto, facendo del proprio io il suo dio.
Nell’osservanza della legge il movente non dev’essere l’ambizione, ma la volontà del Padre: "Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 6,1).
I farisei cercano la loro salvezza nell’osservanza della legge. La loro salvezza sta in realtà nella parola di Dio, che giunge a loro tramite Gesù. La legge non serve a nulla, se il regno di Dio non nasce nell’uomo mediante la parola di Gesù.
I farisei erano scolari docili e fedeli dei dottori della legge. Essi realizzavano nella vita ciò che questi insegnavano. I rimproveri rivolti ai farisei colpiscono quindi anche i dottori della legge. Essi fanno della legge, che Dio ha dato per il bene e la salvezza degli uomini, un peso insopportabile con la loro dottrina e la loro interpretazione; però essi stessi sanno egregiamente sottrarsi dalla sua osservanza usando i loro cavilli. Se si sforzassero di osservare quanto dicono, forse si accorgerebbero del peso insopportabile del giogo che impongono agli altri.

47 Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. 48 Così voi date testimonianza e approvazione alle opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i sepolcri. 49 Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; 50 perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, 51 dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. 52 Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito".
53 Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo ostilmente e a farlo parlare su molti argomenti, 54 tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

In questo brano Gesù rivolge ai dottori della legge due rimproveri: 1) Essi costruiscono monumenti funebri ai profeti uccisi dai loro antenati perché annunciavano la parola di Dio; e intanto cercano di uccidere il più grande dei profeti, Gesù. 2) Si arrogano il diritto esclusivo di spiegare la  Scrittura e di interpretare la volontà di Dio e, di conseguenza, si credono le uniche guide autorizzate che conducono alla conoscenza di Dio e alla vita eterna; e intanto rifiutano Gesù e impediscono che altri lo riconoscano e giungano tramite il suo vangelo e la sua opera, alla conoscenza di Dio e alla vita eterna. I rimproveri diretti contro i dottori della legge hanno il loro motivo più profondo nel rifiuto di Gesù. Egli è il profeta di Dio che riassume e supera la parola di tutti i profeti. Egli solo ha la chiave della conoscenza e dà la conoscenza: "Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Lc 10,22). La colpa più grave dei dottori della legge è questa: non solo non riconoscono Gesù, ma impediscono anche al popolo di riconoscerlo. Tutti i difetti e i delitti dei dottori della legge trovano la loro radice nel fatto che preferirono la loro sapienza umana alla sapienza di Dio, manifestata in Gesù.
I loro padri hanno ucciso i profeti per non convertirsi; i contemporanei di Gesù uccideranno la Parola stessa, il Cristo. La sapienza di Dio è sempre perseguitata e rifiutata, perché è la sapienza della croce, del bene che vince il male portandolo, sopportandolo e perdonandolo.
Ai contemporanei di Gesù verrà chiesto conto del sangue di tutti i giusti e di tutti i profeti, dall’inizio del mondo. Infatti il mistero dell’iniquità raggiunge il culmine nell’ora della sua passione (cf. Lc 22-23). Ma nella passione di Gesù raggiunge il culmine anche il mistero della bontà di Dio. Questo "ahimè per voi" che Gesù rivolge ai dottori della legge è la sua stessa croce, dove porta su di sé la maledizione della legge e paga il conto di ogni nostro delitto. Se il sangue di Abele, il primo giusto ucciso, grida dalla terra a Dio (Gen 4,10), quello di Gesù la lava da ogni macchia. Zaccaria, l’ultimo profeta ucciso, muore dicendo: "Il Signore ve ne chieda conto" (2Cr 24,20ss), Gesù crocifisso dirà: "Padre, perdona loro" (Lc 23,24). La giustizia della legge infatti denuncia e fa vedere il peccato davanti a Dio; la sapienza del vangelo, invece, lo perdona e se ne fa carico.
I dottori della legge tolgono la chiave della conoscenza di Dio, perché danno l’immagine di un Dio senza misericordia. Stanno lontani loro e tengono lontani anche gli altri. Ma la sapienza di Dio si servirà della loro insipienza: la croce che essi leveranno sarà l’unica, vera chiave per entrare nella conoscenza di Dio.

CAPITOLO 12

1 Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: "Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. 2 Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. 3 Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti.
4 A voi miei amici, dico: Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla. 5 Vi mostrerò invece chi dovete temere: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete Costui. 6 Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. 7 Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri.

La nota più spiccata dei farisei, e che meglio li caratterizza, è l’ipocrisia. Il termine indica la capacità di recitare in teatro. Gli ipocriti sono gli attori, i commedianti. Alla radice dei comportamenti dell’ipocrisia sta il protagonismo. Sopra il volto degli uomini c’è questa maschera da commedianti che impedisce loro di riconoscersi creature di Dio: essi scambiano la vita per una recita da teatro e credono di essere il personaggio interpretato sul palcoscenico. I farisei recitano molto bene la parte dei giusti e dei santi, ovviamente, senza esserlo. Il loro inganno, presto o tardi, viene alla luce.
Il cristiano è chiamato a discernere il lievito che muove la sua vita: è il timore della morte, che porta all’ipocrisia e all’accumulo dei beni, o il timore di Dio, che porta alla verità e alla libertà nella misericordia? Il primo è il regno della morte, il secondo è il regno di Dio.
La paura fondamentale da vincere è quella della morte, con la quale satana domina il mondo (cf. Eb 2,14-15). Per sfuggire alla morte la soluzione non è quella di rinnegare Cristo nel tempo della persecuzione, ma quella di relativizzare la sua gravità. La morte fisica è superficiale, non tocca la realtà più profonda dell’uomo, non lo priva della vera vita (v. 4). I persecutori possono colpire solo la vita fisica dell’uomo. La vita vera non la raggiungono; non possono privare l’uomo della sua vera esistenza. Per questo non sono da temere. L’unico da temere è Dio.
Il discorso del timore di Dio è il più arduo da conciliare con il messaggio evangelico. L’immagine di Dio che punisce con la dannazione eterna è la più contraria alla predicazione di Gesù, imperniata sulla rivelazione di Dio Padre, pieno di amore e di misericordia con i giusti e con gli ingiusti. Temere Dio significa accettare concretamente la verità che Dio è Dio, e non volerlo perdere perché lui è la nostra vita (Dt 30,20). Se l’uomo non vuole la morte come suo dio, tema solo Dio come Signore della sua vita.
Il vangelo parla dell’inferno non per terrorizzare l’uomo, ma per renderlo cosciente del male che fa a se stesso quando segue come guida la paura della morte, che è sempre una cattiva consigliera: essa, mentre suggerisce di cercare ogni briciola di vita, fa cadere nell’egoismo che distrugge totalmente la vita. La paura dell’inferno non deve portare ad avere paura di Dio, ma del male che ci allontana da Dio. Qui concretamente il vangelo dice di temere il giudizio di Dio più di quello degli uomini. Il timore deriva dalla coscienza della nostra piccolezza e, soprattutto, dalla consapevolezza del nostro peccato. Ma Dio è amore e misericordia e si prende cura dei suoi piccoli e dei suoi poveri. Anche i capelli del nostro capo sono tutti contati (v. 7). Al di sopra dei persecutori e dei tiranni c’è Dio che veglia e si prende cura delle sue creature. E la conoscenza che Dio ha delle sue creature è benevolenza e amore. La conclusione perciò è che i discepoli non devono avere alcun timore (v. 7).
Anche se nel tempo delle persecuzioni i discepoli possono annunciare il vangelo solo nelle ore notturne o nel segreto delle case private, devono avere la certezza che la parola di Dio è potente e riesce sempre a venire alla luce, e che non può essere repressa da nessuna forza del mondo.

8 Inoltre vi dico: Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; 9 ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio.
10 Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmierà lo Spirito Santo non gli sarà perdonato.
11 Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; 12 perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire".

Il cristiano è testimone di Cristo davanti agli uomini. Il suo futuro definitivo dipende dalla sua testimonianza attuale. Non deve tener conto del giudizio dell’uomo, ma di quello del Figlio dell’uomo; non dei tribunali della terra, ma del tribunale di Dio. Rinnegare Gesù è l’atteggiamento di chi non sa rinnegare se stesso perché vuole salvare se stesso con i propri mezzi, invece che essere salvato da Cristo. L’ora della persecuzione mette in evidenza questo peccato, questo modo di vivere.
La testimonianza a Cristo non è fatta solo di parole, ma è la croce quotidiana di chi segue il Signore (cf. Lc 9,23-24). Gesù è "segno di contraddizione" (Lc 2,34): davanti alla povertà, all’umiliazione e all’umiltà del Figlio di Dio fatto uomo, istintivamente ci troviamo dalla parte opposta. Il Crocifisso è dimenticato teoricamente e praticamente anche da noi cristiani (cf. Gal 3,1; Ef 4,20-21). L’ignoranza del mistero di Cristo morto e risorto, è all’origine di tutti i nostri peccati e le nostre controtestimonianze.
"Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo". Gesù vive come uomo in mezzo agli uomini; egli è il Figlio dell’uomo nell’umiliazione. Chi lo giudica soltanto secondo le sue capacità puramente umane e guarda a lui soltanto come uomo, può non essere consapevole del peccato che compie quando oltraggia Gesù. Dio, quindi, lo perdonerà. Gesù, prima di morire, ha pregato così: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).
"Ma chi bestemmierà lo Spirito Santo". La bestemmia contro lo Spirito Santo è la perdita della fede, l’apostasia dopo aver ricevuto lo Spirito Santo (cf. Eb 6,4-6; 10,26-39). Questa colpa non viene perdonata perché il perdono dei peccati e la salvezza possono essere ottenuti solo mediante la fede in Cristo. Non è Dio che rifiuta il perdono, ma l’uomo che, rifiutando Cristo, rifiuta il perdono e la salvezza. E’ il peccato di chi non si riconosce peccatore e bisognoso di perdono (cf. Lc 18,9-14).
"Non preoccupatevi". La preoccupazione toglie ogni energia all’occupazione. La paura blocca. E’ il contrario della fede. L’affanno e la preoccupazione sono mancanza di fede nella provvidenza del Padre nostro che sa di che cosa abbiamo bisogno. Egli ci ha donato tutto, donandoci il suo Figlio e lo Spirito Santo.
Dio sta davanti al cristiano come un Dio serio, perché la nostra vita e la salvezza del mondo è una cosa seria, come è stata seria la croce di Cristo. Quindi il cristiano "serio" si manifesta nella consapevolezza della responsabilità che grava su di lui. Tutto questo non lo scoraggia né lo deprime, anzi lo esalta, perché gode dell’onore di essere associato a un progetto formidabile di salvezza e perché si sente continuamente sostenuto dalla potenza dello Spirito.

13 Uno della folla gli disse: "Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità". 14 Ma egli rispose: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?". 15 E disse loro: "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni". 16 Disse poi una parabola: "La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. 17 Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? 18 E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19 Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. 20 Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? 21 Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio".

Questa parabola descrive l’uomo che fa consistere la propria sicurezza nell’accumulo dei beni. Cristo e i suoi discepoli, invece, pongono la loro sicurezza nell’amore del Padre. La loro vita non sta nei beni, ma in colui che li dona: Dio. I beni di questo mondo non devono essere né adorati né demonizzati: vanno usati secondo la volontà del Donatore.
Con l’accumulo dei beni l’uomo crede di essersi assicurate la felicità e una lunga vita. Ma così facendo si rivela stolto, perché non ha messo nel conto l’incognita della morte. Ha ragionato come se fosse padrone della propria vita, allo stesso modo che si sente padrone del suo raccolto. La drammaticità della situazione sta appunto nell’estrema insicurezza della vita. Accanto ai granai si possono mettere tutti gli altri beni: la salute, il potere, il denaro. Non contano nulla per vivere bene, per vivere a lungo, perché la durata della vita non dipende da queste cose.
Il problema suscitato da questo tale diventa un’occasione di insegnamento per tutti, perché tutti siamo vittime dello stesso male. Ciò che divide i fratelli è la spartizione di ciò che di per sé dovrebbe unirli: i beni della terra, che sono doni di Dio per la fraternità e la condivisione nell’amore. Questa è la causa di tutte le guerre, di tutte le lotte sindacali e sociali e di tutte le inimicizie familiari che sorgono in occasione delle divisioni dell’eredità. L’amore per le cose di cui appropriarsi sostituisce quello per il Padre e per i fratelli. Questo litigio per l’eredità è l’emblema della situazione umana: dimenticando il Padre, gli uomini litigano per arraffare la roba. L’avidità di vita, nata dalla paura della morte, trasforma in causa di odio e di morte ciò che in realtà è dono di amore. In questo modo è stravolto tutto il senso della creazione.
La controproposta che Gesù fa è ugualmente incentrata sull’accumulare tesori, ma non per sé, ma per arricchire davanti a Dio (v. 21). La ricchezza che conta è quella accumulata nei cieli ed è costituita dai beni dello spirito, dalla rettitudine, dalla giustizia, dalla carità. Nel capitolo 16 di questo vangelo Gesù ci insegna: "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (v.9). In definitiva si è ricchi solo di ciò che si dà.
Il destino dell’uomo dipende dall’uso corretto delle creature: o sono mezzi per amare Dio e il prossimo o diventano fine e surrogato di Dio. Il progetto dell’uomo che non conosce l’amore del Padre è ingrandire il proprio granaio per avere sempre di più. Più uno ha e più aumenta il desiderio di avere. La stoltezza poi arriva al culmine quando ci si compiace dei beni, facendo di essi la propria vita e la propria sicurezza. Dall’uso delle cose materiali deriva la realizzazione o il fallimento dell’uomo.
I beni del mondo danno la morte quando sono accumulati per paura della morte; danno la vita quando sono condivisi coi fratelli per amore del Padre.

22 Poi disse ai discepoli: "Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. 23 La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. 24 Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! 25 Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? 26 Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? 27 Guardate i gigli, come crescono: non filano, non tessono: eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 28 Se dunque Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? 29 Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l'animo in ansia: 30 di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. 31 Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta.
32 Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.
33 Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. 34 Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

Continua l’istruzione di Gesù sui beni del mondo. La vita non dipende né da ciò che abbiamo (vv. 13-31) né da ciò che non abbiamo (vv. 22-30), ma da ciò che siamo: figli del Padre (vv. 31-34). Quindi nessun affanno per l’abbondanza e nessuna angoscia per la penuria. La differenza tra credente e non credente non sta nel fatto che il primo ozia e il secondo lavora. Tutt’altro! (1Ts 2,9; 4,11; 2Ts 3,6-15). La differenza è che il primo si occupa con fiducia e l’altro si preoccupa con angoscia. Il primo si occupa per ricevere e dare in dono, il secondo per possedere e accumulare. Mentre il non credente accumula con affanno quando ha e si angoscia quando non ha, il credente dona quando ha e lavora quando non ha. Ma senza inquietudine, perché sa che Dio è la sua vita.
Quelli che chiamano Dio "Abbà", Papà, sono esonerati dagli inutili pesi dell’affanno e dell’angustia: vivono nel regno dei figli di Dio. Solo questo regno va cercato, chiesto e desiderato in sé. Il resto è un’aggiunta (v. 31). Il v. 32 è centrale: la certezza del dono che il Padre ci ha fatto nel Figlio vince ogni timore.
I vv. 22-30 richiamano la paternità di Dio come antidoto all’angoscia: chi ci ha dato il più non lascerà mancare il meno (vv. 22-23). Se Dio provvede ai corvi e ai gigli, a maggior ragione provvede a noi, ai quali ha dato anche la capacità di seminare e di mietere, di prevedere e di provvedere, di lavorare e di tessere! Anche se siamo gente di poca fede, siamo sempre suoi figli: noi valiamo molto per Dio.
I vv. 31-34 dicono il rapporto che i figli hanno con i beni del Padre: non li cercano come fine, ma li usano come mezzo. Il Padre li dà come omaggio a coloro che cercano il Regno. In questo Regno già dato come dono ai credenti (v. 32), si entra donando (v. 33). Il dare è l’unico mezzo per avere "un tesoro inesauribile nei cieli" (v. 33). Questo tesoro non è oggetto di affanno e di angoscia, perché nessuno lo può sottrarre o distruggere: è la nostra vita di figli del Padre.
Se tutto viene dalla paternità di Dio, il credente deve testimoniare la sua filialità con una vita libera dall’angoscia. Chi non accetta Dio come suo principio e suo fine non può accettare il proprio limite assoluto se non come sua fine e distruzione. Il pensiero della morte diventa un assillo costante. Si sente minacciato dentro da un vuoto incolmabile, e cerca di riempirlo affannosamente, accumulando ciò che non è in grado di saziarlo. Chi invece si riconosce creatura di Dio, accetta il proprio limite e la propria morte, perché sa che li raggiunge il proprio principio, il Padre. La fine cessa di essere tale e diventa il fine di tutto il cammino della vita presente. E’ ritorno alla casa del Padre, termine della fatica e inizio del riposo.
Cibo e vestito sono dei doni che servono per entrare in comunione con il Donatore. La vita di cui l’uomo ha fame, il suo unico riposo, la sua completa sazietà è questa comunione con Dio.
Se Dio provvede ai corvi, trascurerà forse i suoi figli? Il discepolo che si affanna non è credente, non crede che Dio è il suo Papà. Ogni affanno abbrevia la vita: ottiene esattamente il contrario di ciò che cerca. Ricordiamo il detto popolare: "Se c’è rimedio, perché ti agiti? E se non c’è rimedio, perché ti agiti?". La paura di morire e il desiderio insensato di accumulare per vivere ottengono esattamente l’effetto contrario ai nostri desideri. Ogni ansietà è sottrazione di vita.
Se Dio riveste di splendore ciò che è effimero, come un giglio, come l’erba che è destinata ad essere combustibile con cui l’uomo cuoce il pane, come non si prenderà maggiore cura dell’uomo al cui servizio ha messo tutte le cose e addirittura se stesso? Se Dio ci ha già dato il più (l’esistenza), non ci darà anche il meno (la sussistenza)? E’ uomo di poca fede chi vuole prevedere tutto, ignorando che Dio provvede. C’è una previdenza che estromette Dio dalla vita e non lascia il minimo spazio alla sua provvidenza. Chi agisce così non riconosce la paternità di Dio nei suoi effetti concreti. E’ consolante saper che Dio provvede a noi, anche se siamo uomini di poca fede. Anche se ci dimentichiamo di essere suoi figli, Dio non si dimentica di essere nostro Padre.
I discepoli che sono in ansia per i bisogni primari sono assimilati ai pagani. E’ da pagani non solo l’accumulo, ma anche le sue radici, cioè l’ansia, la preoccupazione e l’angoscia. Chi accumula fa suo dio ciò che ha; chi è angosciato fa suo dio ciò che non ha. Ambedue non sono ancora nel regno dei figli che gridano "Abbà". Ignorano che Dio è Padre e provvede ai suoi piccoli.
Il regno di Dio si realizza nel nostro rapporto filiale con lui e nel rapporto fraterno con tutti gli uomini. Chi cerca in ogni cosa di vivere da figlio di Dio e da fratello degli uomini, avrà certamente anche tutto il resto. L’errore che facciamo è cercare "il resto" invece che Dio e i fratelli.
I veri discepoli di Gesù saranno sempre un piccolo gregge e non avranno mai la pretesa di diventare grandi e forti secondo i criteri di questo mondo: tante pecore insieme non faranno mai un lupo! Ciò che risolve tutti i problemi dei cristiani è essere figli del Padre: questo è il Regno che egli ci ha donato in Gesù.
Il Vangelo tiene conto che i cristiani vivono in una storia concreta dove ci sono beni e denaro, ricchi e poveri. La soluzione proposta da Cristo non è rigettare i beni come se fossero cattivi, ma farne l’uso appropriato opposto a quello dettato dalla paura della morte. In questo modo tornano ad essere come Dio li aveva pensati: da possesso di una eredità che divide i fratelli (Lc 12,13) diventano dono che li unisce tra di loro e con il Padre. Solo così la creazione è molto buona come era al principio (Gen 1,31): tutti i beni tornano ad essere mezzi utili al fine loro assegnato da Dio.
Il Vangelo propone ai cristiani l’elemosina come soluzione per vivere con giustizia in questo mondo ingiusto (Lc 3,11; 5,11-28; 6,30; ecc.). L’elemosina può essere interpretata male da chi contrappone giustizia e carità e vede l’elemosina come l’avallo dell’ingiustizia. Ma nella Bibbia l’elemosina (in ebraico sedaqàh) significa proprio giustizia. Per la  Bibbia non è giusto che uno possieda e l’altro sia nella penuria, perché siamo fratelli. La terra e quanto contiene è del Signore (Sal 24,1). Se siamo fratelli e figli dello stesso Padre, i diritti e i doveri non sono uguali: i diritti sono proporzionali a quanto uno non ha, i doveri a quanto uno ha. Per questo uno dà secondo quanto ha e riceve secondo quanto gli occorre (At 4,34-35). Così si realizza il sogno della terra promessa, in cui nessuno è bisognoso (Dt 15,4; At 4,34).
L’elemosina biblica è esigenza di una giustizia superiore, dettata dalla misericordia. Il Vangelo ha qualcosa da dire oltre una pura analisi socio-economica, e dà un orizzonte diverso da quello che riduce l’uomo ai bisogni che ha. Chiede una nuova moralità. E’ la bella notizia che Dio ci è Padre in Gesù. La nostra azione, di conseguenza, ha un nuovo fondamento. La nostra vita cessa di essere un accumulo inutile per soddisfare il bisogno o un’insoddisfazione angosciante per il bisogno dell’accumulo.
Gesù ha proibito ai discepoli di avere borse per mettervi le ricchezze di questo mondo (Lc 10,4; 22,35). Ora comanda di farsi delle borse per mettervi le ricchezze del regno di Dio. In esse si ripone solo ciò che si tira fuori, e si accumula solo ciò che si dona. Chi accumula doni per sé perde la vita e non arricchisce davanti a Dio della ricchezza stessa di Dio che è ricco di misericordia (Ef 2,4). Il tesoro vero non è ciò che abbiamo, ma ciò che diamo: questo non viene meno neanche nella morte (v. 20). Perché chi dà al povero fa un prestito a Dio (Pr 19,17). Questo tesoro è la nostra somiglianza di figli con il Padre misericordioso (Lc 6,36).
Tutte le parole di questo capitolo 12 valgono per ogni uomo chiamato a convertirsi da alunno della morte in discepolo della Vita.

35 Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; 36 siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. 37 Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!

L’insegnamento sulla fugacità e insicurezza dei beni terreni del brano evangelico di ieri ha riportato l’attenzione verso il regno di Dio e i tesori del cielo.
I cristiani devono tenersi pronti per la venuta inattesa e improvvisa di Gesù. Essa è prospettata ad essi come un punto di costante riferimento per tenere sveglie le loro responsabilità e la loro dedizione al regno del Signore. Gesù è la guida invisibile della Chiesa; nessuno sa quando si manifesterà apertamente, ma tutti sanno che è presente e sollecita la massima collaborazione da parte di ognuno. L’insicurezza del ritorno del Signore deve tenere costantemente desta l’attenzione e l’operosità dei suoi cristiani.
Il servo fedele deve dare prova di aspettare il suo padrone anche nelle ore insolite, quando normalmente tutti dormono. Il sacrificio può apparire grande, ma la ricompensa sarà ancora più grande. Il richiamo alla venuta del Signore è essenziale nel vangelo. La vita del cristiano è un’attesa del Signore che viene. Il credente è colui che sa aspettarlo e sta ad aspettarlo. Egli veglia nella notte del mondo per far risplendere con le sue opere la luce di Dio.
La cintura ai fianchi è la tenuta di lavoro, di servizio e di viaggio prescritta per la cena pasquale (cf. Es 12,11). Questo è l’atteggiamento corretto per attendere il Signore. Non bisogna guardarlo in cielo, ma testimoniarlo sulla terra (cf. At 1,11). Il Signore che viene e bussa alla porta è un’allusione all’eucaristia; il Signore si invita a cena a casa nostra: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). La sua venuta finale è vissuta quotidianamente nella cena eucaristica. La beatitudine del cristiano è vivere una vita pasquale, di cui la sorgente è l’eucaristia (cf. Lc 14,15), dove la storia di Gesù si fa nostro presente e ci introduce nel nostro futuro.
L’esistenza cristiana è attesa dello Sposo che viene per prenderci definitivamente con sé. Il cristiano non ha qui la sua patria. La casa della sua nostalgia è altrove. Straniero e pellegrino sulla terra (cf. 1Pt 2,11) non ha quaggiù una città stabile, ma cerca quella futura ( cfr Eb 13,14). "La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo (Fil 3,20). Il suo ritorno sarà nella notte, figura della morte personale.
Il credente, giorno dopo giorno, non si stanca del ritardo del suo Signore, non si distrae, non perde la fiducia dell’incontro beatificante con lui.

39 Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40 Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate".
41 Allora Pietro disse: "Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?". 42 Il Signore rispose: "Qual è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua servitù, per distribuire a tempo debito la razione di cibo? 43 Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. 44 In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45 Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46 il padrone di quel servo arriverà nel giorno in cui meno se l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo punirà con rigore assegnandogli il posto fra gli infedeli. 47 Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48 quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

La necessità della vigilanza viene nuovamente ribadita nella parabola del ladro e dalla successiva esortazione. Occorre saper attendere il Signore con lo stesso impegno che si richiede per prevenire un furto: il ladro non manda preavvisi (v.39). Anche per i responsabili della comunità si prospetta la possibilità di un servizio fedele e intelligente o di un comportamento irresponsabile o dispotico. Come nell’assenza del padrone i servi rischiano di addormentarsi, così anche l’amministratore posto a capo della servitù può trascurare i suoi compiti e abusare del suo ufficio di provvedere alla servitù il necessario sostentamento.
Il tempo presente richiede un grande senso di responsabilità, perché è gravido di eternità. Chi fa dipendere la sua vita dalle cose che ha, considera la morte come un ladro. Chi attende il Signore considera la morte come l’incontro desiderato con lo Sposo. Tutta la vita è una preparazione a questo incontro.
L’uomo non è un possidente, ma un amministratore di beni non propri. Tutto ciò che è e ha è dono di Dio, e tale deve restare. L’amministratore fedele e saggio è colui che comprende la volontà di Dio e la mette in pratica. I capi della comunità sono responsabili soprattutto di non lasciar mancare il pane, il pane della Parola e il pane dell’Eucaristia. Essi sono servi dei fratelli e della loro fede, non padroni.
La ricompensa dell’amministratore fedele e saggio è di avere in dono tutto quanto appartiene a Dio, cioè Dio stesso. Questa è la vita eterna.
Ognuno è responsabile in proporzione della conoscenza della volontà di Dio. Anche chi crede di aver ricevuto poco, sappia che ha ricevuto tanto, e gli è chiesto e gli sarà chiesto tanto. Il cristiano è chiamato a prendere coscienza seriamente delle sue responsabilità davanti a Dio e ai fratelli.

49 Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! 50 C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!
51 Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. 52 D’ora innanzi in una casa di cinque persone 53 si divideranno tre contro due e due contro tre;
padre contro figlio e figlio contro padre,
madre contro figlia e figlia contro madre,
suocera contro nuora e nuora contro suocera".

Gesù presenta la sua azione rinnovatrice nell’immagine del fuoco. Si tratta del fuoco del giudizio finale (cfr Lc 3,9) e del fuoco della Pentecoste (cf. At 2,3), perché il giudizio definitivo di Dio sul mondo è il dono dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l’amore di Dio per l’uomo, che sgorga dalla morte stessa del Figlio.
Gesù continua a parlare della sua missione, in particolare del traguardo che lo attende e che egli chiama "battesimo". Il battesimo che egli prevede e desidera è l’immersione nel proprio sangue, nella propria morte. La morte non è un momento facile nella vita di Gesù; essa tiene angustiato tutto il suo animo, come rivelerà nel Getsemani e sulla croce. Il suo desiderio è di arrivarvi quanto prima e così porre fine al suo tormento, ai contrasti e ai conflitti che si alternano nella sua coscienza.
Le proposte di Gesù sono incendiarie, non lasciano indisturbati, provocano una rivoluzione in chi le accoglie, ma anche una violenta reazione in chi le rifiuta. Sono proposte radicali che chiedono risposte radicali. Gesù è il salvatore e il liberatore dell’uomo da ogni sua precedente oppressione, per questo deve provocare divisioni e rivolgimenti nelle strutture sociali e familiari. La scelta di Cristo e del suo vangelo produce reazioni anche violente da parte delle persone a cui il cristiano è legato. Senza esitazione occorre preferire Cristo agli amici e ai familiari. La profezia di Simeone che ha presentato Gesù come "segno di contraddizione" (Lc 2,34) trova anche qui la sua attuazione.
La proposta che il vangelo rivolge agli uomini di tutti i tempi è quella di una scelta radicale pro o contro Cristo. E non c’è spazio per i compromessi. Il cristiano urta non solo le situazioni familiari, ma spesso anche le strutture sociali e coloro che le reggono e le dominano a proprio vantaggio. La lotta contro di essi è inevitabile quando ci si trova schierati dalla parte di Cristo e del vangelo.
L’appartenenza a Cristo esige da noi una vita pasquale di morte e risurrezione con strappi e lacerazioni. Sono i costi della libertà e della vita nuova.

54 Diceva ancora alle folle: "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. 55 E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. 56 Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?
57 E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? 58 Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esecutore e questi ti getti in prigione.
59 Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo".

Il lamento che Gesù rivolge all’uomo di tutti i tempi e allo stesso credente, è motivato dal fatto che non mette uguale impegno e diligenza per scoprire i segni del tempo della salvezza quanto ne impiega per prevedere il tempo meteorologico. Dio parla all’uomo attraverso la voce della sua coscienza, attraverso la voce dei suoi inviati, ma anche, e soprattutto, attraverso gli sviluppi e gli eventi della storia. Questi ultimi sono i più trascurati ma, in realtà, sono i più sicuri. Gesù richiama i suoi ascoltatori a questa ottica. Bisogna essere più perspicaci e più attenti. Le parole possono ingannare, i fatti, meno.
Il tempo di Gesù era il momento culminante della salvezza, perché segnava la fine dei mali fisici e morali, delle oppressioni umane e diaboliche: non potevano esserci dubbi che qualcosa di nuovo stava incominciando nella storia umana. La teologia dei segni dei tempi trova il suo inizio in questa breve affermazione di Gesù, ma dopo tanti secoli è ancora così poco capita e vissuta. Conosciamo bene ciò che è utile alla nostra vita animale, ma non ciò che è necessario per la nostra vita eterna.
Le liti e le vertenze giudiziarie fanno parte della storia dell’uomo e quindi anche del cristiano. Il litigare è una cosa contraddittoria con il comportamento cristiano. Il vangelo non pretende che il cristiano rinunci ai suoi diritti, ma segnala un modo più pratico e ragionevole per farli valere, tentando un accordo tra le parti (v. 57). Per capire chi ha torto o ragione basta un po’ di testa e di buona volontà. Spesso le rivendicazioni nascono dal puntiglio e dall’orgoglio più che da veri torti subiti. Mettendo a tacere le passioni sregolate, distaccandosi dal proprio io, dalla propria permalosità e arroganza da ambo le parti, si può risolvere qualunque vertenza. Il ricorso al giudice umano non è detto che sia la via più garantita e più sicura per arrivare a una giusta soluzione. Spesso i verdetti non sono emessi secondo verità o diritto, ma in base alla capacità dialettica, alle manipolazioni della legge e ai cavilli per aggirarla e capovolgerla. Da questa pagina evangelica nasce una profonda sfiducia nella categoria degli avvocati e dei giudici, che è quasi abituale nella predicazione dei profeti (cf. Am 5,10-15; Mi 3,1-4; 7,3; Is 1,26; Sof 3,3; ecc.). La sentenza assolutoria o la condanna non scaturiscono, spesso, dall’innocenza o dalla colpevolezza, ma dalla fortuna o dalla sfortuna di aver avuto un difensore più o meno abile.
La finale è pessimistica. Una volta presa la via dei tribunali, la conclusione è sempre una: il carcere. Si è litigato per avere ragione, si finisce per avere torto.
Con la venuta di Gesù è giunto il momento della decisione. Ognuno è colpevole davanti a Dio. Si deve approfittare del tempo che precede il giudizio per sfuggire all’inflessibile procedura del giudizio per mezzo della penitenza, della conversione e della riconciliazione con il fratello, prima che sia troppo tardi.

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CAPITOLO 13

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. 2 Prendendo la parola, Gesù rispose: "Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? 3 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4 O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo".
6 Disse anche questa parabola: "Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7 Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? 8 Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime 9 e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai".

Il brano 13,1-5 ci presenta due fatti di cronaca: una uccisione e un incidente. Nel primo caso sono in gioco la libertà e la cattiveria dell’uomo; nel secondo la violenza del creato. Ma il problema è unico: quello della morte che l’uomo vive come un’indebita violenza.
Questi due avvenimenti richiamano in modo esemplare ciò che maggiormente scuote la fede del credente: perché Dio permette i soprusi e le violenze, i disastri e i terremoti?
La storia con le sue ingiustizie, e la natura con la sua insensatezza sembrano dominate dal maligno (cfr Lc 4,6).Il male, continuamente presente nella nostra esistenza, è il problema più rilevante ed è inspiegabile alla ragione. Esso costituisce un problema anche per la fede: la può spegnere o ingigantire. Solo conoscendo i "segni del tempo" possiamo vedere nel male il Signore che viene a salvarci chiamandoci alla conversione.
Il problema vero della storia non è l’alternanza al potere del male, ma l’alternativa ad esso. Non basta cambiare i protagonisti: bisogna cambiare il gioco.
Gesù non condanna Pilato, ma non esalta neppure le sue vittime. Egli vuole portarci a un punto di vista superiore: Pilato e le sue vittime sono insieme vittime dello stesso peccato. Infatti hanno tentato lo stesso gioco: i galilei erano i più deboli e hanno perso.
Gesù ha rifiutato come mezzi del Regno quelli del nemico: la ricchezza, il potere e l’orgoglio. La violenza genera sempre altra violenza. L’unica arma per vincere tutti i mali è l’amore.
Lo stesso peccato, presente in Pilato e nelle sue vittime, è presente anche negli ascoltatori di Cristo. Al posto di Pilato si sarebbero comportati come Pilato, al posto dei guerriglieri galilei si sarebbero comportati come i guerriglieri galilei. Ma allora dove sta la verità? Essa sta solamente nel conformare i nostri comportamenti a quelli di Cristo che si fa carico del male di tutti.
Le calamità naturali non sono una punizione, ma un richiamo alla conversione. Il peccato che ha guastato l’uomo ha sottoposto all’insensatezza anche la natura che aveva in lui il suo fine. Si è rotta l’armonia uomo-mondo e ogni evento insensato ci richiama a cercare nella conversione il senso di una vita che il peccato ha esposto al vuoto, al non senso (cf. Rm 8,20).
Discernere i segni del tempo presente significa leggere ogni fatto come appello a passare dal mondo vecchio al mondo nuovo portato da Cristo. In questo modo il male perde il suo carattere di fatalità e viene dominato dall’uomo che ne sa trarre un bene maggiore: la propria conversione.
Il brano 13,6-9 ci presenta la parabola del fico sterile: Questa ci aiuta a leggere la nostra storia alla luce di quella di Gesù. La parabola è trasparente. Il Padre e il Figlio si prendono cura dell’uomo e si attendono che egli risponda al loro amore. Ma come il fico è sterile, così l’uomo non fa frutti di conversione (cf. Lc 3,8). Ma Dio accorda una proroga all’uomo e prodiga la sua cura perché fruttifichi e non venga tagliato.
Il "quest’anno" del v. 8 indica tutti gli anni e i secoli delle generazioni che verranno. E’ l’anno della pazienza e della misericordia di Dio: "Egli usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 2,9). Ma non dobbiamo fare come gli "empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia di Dio" (Gd 4). Non ci si deve prendere gioco della ricchezza della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, ma riconoscere che la bontà di Dio ci spinge alla conversione (cf. Rm 2,4).
La parabola pone l’accento sulla bontà di Dio. La cattiveria dell’uomo non può impedire a Dio di essere buono.

10 Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. 11 C’era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. 12 Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: "Donna, sei libera dalla tua infermità", 13 e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
14 Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: "Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato". 15 Il Signore replicò: "Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16 E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott’anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?". 17 Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

In questa donna è rappresentata la situazione dell’umanità prima della venuta di Gesù: è sotto il dominio dello spirito maligno, ammalata, rattrappita, tutta piegata verso terra, impossibilitata a rizzarsi e a guardare verso l’alto. Gesù la guarda con compassione, la chiama a sé, le parla, le impone le mani.
Il capo della sinagoga è uno che non sa riconoscere i segni del tempo della salvezza. La sua interpretazione della legge, il suo testardo attaccamento alla tradizione umana, la mancanza di comprensione per l’amore e la misericordia verso una creatura umana ammalata, non gli danno la capacità di comprendere i segni del tempo della salvezza. La sorte di quest’uomo e di tutti gli avversari di Gesù è la vergogna (v. 17) davanti al popolo e al tribunale di Dio.
Gesù dà un nuovo significato al sabato, o meglio gli ridà il suo significato originale. La legge del sabato è al servizio dell’uomo, e Dio è glorificato da chiunque usi misericordia verso gli uomini. E in questo brano l’uomo riceve nuovamente da Gesù la sua dignità e la sua giusta considerazione: non può essere considerato meno di un bue o di un asino!
Gesù infrange il dominio di satana che si manifesta nel peccato, nella malattia e nella morte, e libera l’uomo dal peso opprimente della legge. Il sabato diventa il giorno della gioia per tutti. La creazione trova nell’opera salvifica di Gesù la sua perfezione. L’uomo che si apre all’amore di Dio non incontra il giudizio, ma la salvezza e la liberazione definitiva.
L’infermità, secondo la mentalità dell’uomo della Bibbia, non è solo disfunzione del corpo, ma l’invasione di uno spirito malvagio che logora e arresta il corso delle forze della natura. Gesù stende le mani sull’ammalata: è un atteggiamento con il quale trasfonde su di lei il suo Spirito che scaccia lo spirito del male.
Il miracolo non lascia indisturbati i presenti. La donna guarita glorifica Dio perché riconosce nell’opera compiuta da Gesù una manifestazione della sua onnipotenza e della sua bontà. Il capo della sinagoga è indignato e scandalizzato per il trambusto avvenuto nel luogo sacro e soprattutto perché proprio nel luogo dove si celebra il sabato viene trasgredito il comandamento del sabato. L’entusiasmo della folla può avere creato qualche inconveniente. Ma ben vengano, e tutti i giorni, inconvenienti come questo!
Per il capo della sinagoga il miracolo è relegato tra le opere servili che non sono consentite in giorno di sabato: "Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato" (v. 14).
Per rispondere a della gente così ignorante Gesù non ricorre a un’argomentazione teologico-biblica, ma fa un esempio pratico come il condurre all’abbeveratoio l’asino o il bue anche di sabato.
L’ostilità dei giudei contro Gesù è dunque preconcetta, infondata, ingiusta. Non sono le opere in sé che irritano il capo della sinagoga e tutta la classe dirigente ebraica, ma la risonanza che esse producono. Gesù guadagna terreno presso il popolo e, di conseguenza, essi lo perdono. E’ sempre una questione di potere e di quanto dal potere ne consegue.
Nella finale del brano appaiono in scena da una parte gli avversari di Gesù e dall’altra la moltitudine della gente. I primi sono irritati e svergognati, la folla invece è entusiasta e convinta. I primi condannano, disapprovano, rigettano l’opera di Gesù; gli altri la esaltano fino a risalire alla sua sorgente, Dio da cui proviene e a cui sale la gloria causata dalle opere di Cristo. Lo stesso fatto suscita indignazione e vergogna, oppure gloria e gioia. La luce di Dio, che rallegra l’occhio buono, offende quello cattivo. Ma anche questo disagio dei cattivi è in vista della loro conversione.

18 Diceva dunque: "A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? 19 E’ simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami".
20 E ancora: "A che cosa rassomiglierò il regno di Dio? 21 E’ simile al lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché sia tutta fermentata".

Il brano precedente ci ha presentato il regno di Dio che è già all’opera nel mondo. Ora si dice come. Agisce nella storia secondo lo stile di Gesù: nella povertà e nella poca considerazione religiosa e politica. Dio realizza il suo disegno con ciò che è piccolo, disprezzato e nulla (cf. 2Cor 2,4ss). Come il chicco di senape, anche Gesù fu preso e buttato sotto terra. Ma così divenne l’albero della vita offerta a tutti gli uomini. Egli fu preso e nascosto in fretta, come immondo, la vigilia della Pasqua ebraica (cf. Gv 19,31-32). Ma così divenne fermento di novità che lievitò la terra, aprendone i sepolcri (cf. Mt 27,52-53).
Queste parabole ci aiutano a vedere e a capire il disegno di Dio come lo vede Dio. Come capitò a Gesù, così deve capitare alla Chiesa e al singolo cristiano. Il seme cresce solo se muore (cf. Gv 12,24), produce la vita solo se muore. Mentre tutto il resto, morendo, marcisce per sempre, il seme, morendo, diventa pianta, fiore, frutto. La morte non può vincerlo, ma lo realizza; lo fa essere ciò che è: vita che vince la morte.
Il seme è messo sotto terra, il lievito è nascosto nella pasta. L’efficacia del regno di Dio non è efficienza umana, ma continuazione della storia di Gesù umiliato, rigettato e sepolto nella terra. L’ostentazione e la grandezza sono contrarie al regno di Dio e rovinano la Chiesa e la sua missione nel mondo. Il lievito che deve fermentare la pasta che è il mondo, è la sapienza di Cristo crocifisso. La pasta del mondo deve passare dal lievito dei farisei (cf. Lc 12,1) a quello di Cristo attraverso la povertà, l’umiltà e l’umiliazione. Diversamente non si fa che intralciare il lavoro di Dio nella storia.
Il regno è la comunità di Gesù e degli uomini che vi appartengono. E’ una piccola realtà che deve affrontare il grande compito di evangelizzare e salvare il mondo, ma non deve perdere la forza aggressiva del lievito, ossia non deve stemperare il messaggio di Cristo. Gli uomini che hanno accettato la proposta di Cristo e si sono assunti il compito di far fermentare l’intera umanità, non possono rimanere segregati dal mondo. La comunità cristiana non sempre capisce, o vuole capire, la sua realtà di lievito del mondo, anche perché il prendere coscienza di questa missione non lascia tranquilli nella propria pigrizia, ma sveglia e impegna fino all’estremo delle forze.
Gesù non ha guardato l’uomo dall’alto, non si è tenuto fuori dalla società a cui si è rivolto, ma ha cercato di lievitarla dal di dentro. I cristiani ripiegati su se stessi, come singoli o come gruppi, che incentrano tutto sui propri interessi, anche spirituali, sono la negazione dello spirito e degli intendimenti della parabola del lievito.

22 Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. 23 Un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". Rispose: 24 "Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. 25 Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. 26 Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. 27 Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! 28 Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. 29 Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel regno di Dio.
30 Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi".

Questo brano parla della lotta per entrare nella salvezza. La porta è Gesù: attraverso di lui tutti gli uomini sono salvati. Unico biglietto d’ingresso è il bisogno; unico impedimento, la falsa sicurezza e la presunta giustizia.
Per entrarvi basta riconoscersi peccatori e accettare il perdono di Dio. Nessuno si salva per i propri meriti, ma tutti sono salvati dalla misericordia di Dio.
La porta è dichiarata stretta perché l’io e le sue presunzioni non vi passano: devono morire fuori. La Bibbia ci insegna che l’uomo non può salvarsi con le sue forze (Lc 18,26-27), ma tutti siamo salvati dall’amore gratuito del Padre.
Quindi la porta della salvezza è strettissima perché nessuno si salva, ma è larghissima perché tutti veniamo salvati. "Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1Tm 2,4).
La salvezza è un dono. Costa solo la fatica di aprire il cuore e la mano per accoglierla. Ma è una grande lotta, perché il cuore è duro e la mano rattrappita (Lc 6,6ss). Il dono non toglie l’iniziativa: è un pegno che impegna. Bisogna fare come se tutto dipendesse da noi, sapendo che tutto dipende da Dio. Solo in questo modo si eliminano la pusillanimità e l’ansietà, la superbia e la presunzione.
La salvezza ha come porta l’umiltà. Convertirsi è accettare di vivere della misericordia di Dio. E’ la morte dell’io per vivere di Dio.
Il giusto più si accanisce ad accrescere il suo bagaglio di giustizia, più è impedito ad entrare attraverso la porta della salvezza, che è dono e grazia.
L’interlocutore anonimo aveva chiesto se erano pochi quelli che si salvano. Gesù risponde di stare attenti a non rimanere fuori dalla sala del Regno. Il tempo per decidersi ad entrare è poco. Da un momento all’altro il padrone chiuderà per sempre la porta.
Gli esclusi non sono i tradizionali nemici della salvezza, come siamo abituati a pensare, ma gli ascoltatori di Gesù. Il motivo della condanna non è la loro ignoranza di Cristo, ma l’inadempienza dei propri doveri morali. La fede non è, prima di tutto, conoscenza di Cristo, teoria o teologia, ma vita vissuta in consonanza con i comportamenti di Gesù.
Di fronte all’indifferenza degli ascoltatori Gesù, e l’evangelista con lui, ha creduto opportuno far ricorso alle minacce. La prospettiva di un castigo irreparabile può risvegliare dall’incoscienza e dalla superficialità.
Nel v. 28 viene descritta la sorte opposta di chi sta dentro e di chi sta fuori dal Regno. I patriarchi e i lontani saranno nel Regno perché hanno avuto fede e si sono convertiti al dono di Dio.

31 In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: "Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere". 32 Egli rispose: "Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito. 33 Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme.
34 Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! 35 Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!".

Probabilmente Erode si serve dei farisei per impaurire Gesù e allontanarlo dal suo territorio. E’ meglio che questa persona scomoda si trasferisca nella zona di competenza del suo nemico, Pilato. Questi, a sua volta, glielo invierà e gli restituirà il favore. In tale scambio diverranno amici (Lc 23,6-12).
La volpe è un’animale immondo. Con questo titolo Gesù bolla l’immoralità di Erode. Gesù lo tranquillizza, illustrandogli la propria attività. Non entra in concorrenza con lui. Non gli insidia il trono. Il suo potere è quello di servire l’uomo liberandolo dal male interno (demoni) ed esterno (malattie). Questa è l’attività di Gesù compiuta in pieno giorno.
L’attività di Gesù è compiuta nell’"oggi" della sua vita terrena. La sua vita volge al tramonto: darà pensieri ad Erode ancora per poco tempo. Il terzo giorno è quello definitivo della risurrezione.
Il viaggio di Gesù non è mosso dalla paura di Erode, ma dalla volontà del Padre che lo vuole a Gerusalemme dove si compirà il mistero della salvezza.
La triplice ripetizione del nome di Gerusalemme è l’espressione di un amore e di una tenerezza infiniti. Gesù non piange sulla propria sorte, ma sulla sua città (Lc 19,41; 23,28ss).Gli reca più dolore il male dell’amata che non la propria uccisione che avviene per mano dell’amata. E’ la manifestazione suprema del suo amore. E’ l’amore dello Sposo che piange il male della sposa che l’uccide. E’ importante la rivelazione anticipata di questo amore che, pur prevedendo il peggio, si offre senza condizioni. La vista di un Dio che ci ama fino a morire per noi sarà l’offerta estrema d’amore che rende possibile la conversione (Lc 23,48; Gv 12,32).
L’immagine che Gesù dà di sé, paragonandosi a una chioccia, è la più umile e la più bella di tutte. Richiama le parole di Dio del Sal 91,4: "Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio". Esprime la forza della sua tenerezza: l’aquila potente che salva (Dt 32,11) qui si fa chioccia. L’amore materno di Dio è tanto forte da renderlo debole, tanto sapiente da renderlo stolto, fino a dare la vita per noi: "Egli infatti fu crocifisso per la sua debolezza" (2Cor 13,4).
L’ultima frase di questo capitolo lascia ancora aperta la possibilità al ravvedimento. Queste parole si riferiscono all’ingresso di Gesù in Gerusalemme (Lc 19,38), ma soprattutto all’ultimo ritorno di Cristo alla fine dei tempi. Anche i giudei saluteranno questo ritorno, perché allora saranno convertiti (Rm 11,25-31).


CAPITOLO 14

1 Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo. 2 Davanti a lui stava un idropico. 3 Rivolgendosi ai dottori della legge e ai farisei, Gesù disse: "E’ lecito o no curare di sabato?". 4 Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. 5 Poi disse: "Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?". 6 E non potevano rispondere nulla a queste parole.

Gesù si reca nelle città e nei villaggi, nelle sinagoghe e nelle case private per annunciare il suo vangelo. Egli non rifiuta nemmeno l’invito dei suoi avversari, perché è venuto per offrire la salvezza a tutti. I farisei misurano la volontà e la parola di Dio in base alla loro interpretazione della legge e alla loro dottrina. Ritenevano la propria condotta, la propria interpretazione della legge, la fedeltà alle tradizioni come l’unico modo di vivere voluto da Dio. Ne erano talmente convinti che per principio non prendevano nemmeno in considerazione la possibilità che Dio potesse aprire nuove vie per la salvezza del suo popolo. Per questo bloccano ogni intesa con Gesù che annuncia il nuovo ordine della salvezza che egli è venuto a portare.
Gesù annuncia la sua parola anche a loro, che sono la categoria più inconvertibile dei peccatori, perché credono di essere giusti. La sua misericordia gli fa accettare l’invito a mangiare con loro per guarirli. Egli svela il loro male, visibilizzandolo una volta nella prostituta (cf. Lc 7,36ss) e qui nell’idropico. Essi sono affetti dal male più tremendo e più nascosto: con la loro autosufficienza si oppongono direttamente a Dio che è grazia e misericordia. Il tema di tutto il vangelo di Luca è la misericordia di Dio perché la Chiesa rimanga sempre nell’esperienza di Dio che salva e si senta sempre peccatrice perdonata. Solo così resta aperta a Dio e a tutti gli uomini, ricevendo e dando misericordia. Solo così evita il pericolo di trasformare il popolo di Dio, che è un popolo di peccatori perdonati, in una setta di "giusti", come più o meno succede in tutte le religioni.
L’idropico è un’immagine del fariseo, pieno di sé, gonfio della sua giustizia, incapace di passare per la porta stretta della salvezza (cf. Lc 13,24). Questa porta è la misericordia di Dio che egli rifiuta perché confida nei suoi meriti. Se al mondo ci fossero stati solo malati e peccatori forse non sarebbe stata necessaria la Croce: sarebbero bastati la guarigione e il perdono. Ma Gesù morirà in croce come giusto (cf. Lc 23,47; At 3,14), perché i giusti potessero scoprire un’altra giustizia: la misericordia di Dio che ama fino al dono totale di sé.
Ciò che Gesù era stato costretto a rimproverare al fariseo Simone, vale ugualmente per i farisei presenti alla guarigione dell’idropico: essi amano troppo poco (cf. Lc 7,47). La legge non ha lo scopo di limitare o impedire l’amore, perché l’amore di Dio non conosce limiti. Il regno di Dio predicato da Gesù è il dominio universale della misericordia di Dio.
Per Gesù il riposo del sabato significa la rivelazione della bontà di Dio verso le sue creature, una rivelazione di pace e di salvezza. Gesù dà gloria al Padre presentandolo al mondo come il Dio che dona e che perdona, il Dio dei poveri e degli oppressi.

7 Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: 8 "Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te 9 e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10 Invece quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali.
11 Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato".
12 Disse poi a colui che l’aveva invitato: "Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. 13 Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti".

I farisei si preoccupano del loro onore, amano i primi posti nelle sinagoghe e vogliono essere complimentati nelle piazze. Esigono la precedenza davanti agli altri e sono persuasi di avere diritto ai posti di onore. Ma lo spirito del vangelo è l’umiltà, il contrario del protagonismo di quelli che scelgono i primi posti. E questa non è questione di intelligenza tattica o di galateo: è una scelta di Dio. Gesù si è messo all’ultimo posto, si è fatto servo di tutti e si è umiliato. Per questo è stato innalzato e glorificato.
Se Gesù ha scelto l’ultimo posto, anche il cristiano deve scegliere l’ultimo posto e rimanervi costantemente e saldamente. Per fare questo deve guarire dal gonfiore della sua superbia e dai suoi deliri di onnipotenza.
L’umiltà è la verità dell’uomo, ma è anche la verità di Dio, perché Dio è amore. Il fine della predicazione del vangelo è portare gli uomini all’umiltà per farli diventare come Dio che è umile.
Il peccato di Adamo, il peccato di ogni uomo, è voler occupare il posto di Dio, credendo, erroneamente, che Dio sia al primo posto. Ma il vero Dio, quello che si è manifestato in Gesù di Nazaret, ha scelto l’ultimo posto. Il credente che lo ama e lo segue, lo cerca lì. Dobbiamo cercare l’ultimo posto, perché ciò che conta è la vicinanza a Dio. E questo non significa seppellire i talenti, ma investirli nella direzione giusta. E’ giusto voler essere come Dio, ma prima bisogna sapere com’è Dio. Egli è umile, povero e piccolo, perché è amore: questa è la sua grandezza, la sua gloria e il suo potere.
Il Figlio di Dio si è umiliato fino alla morte di croce e per questo fu innalzato dal Padre (cf. Fil 2,5-11). Il cristiano deve seguirlo nell’umiliazione e nella gloria.
Il discorso precedente era rivolto agli invitati; dal v. 12  in avanti è rivolto all’invitante. A quelli Gesù ha detto di scegliere l’ultimo posto, a questo dice di scegliere gli ultimi. Il motivo viene detto nel brano seguente (vv. 15-24): perché Dio fa così.
Gesù rivolge un’esortazione inaspettata al capo di casa. La sua parola è fortemente provocatoria e urta non solo il comportamento farisaico e legalistico, ma le comuni abitudini della società civile. Essa si leva contro le caste privilegiate e i circoli chiusi che lasciano fuori la moltitudine degli indigenti, dei malati e dei bisognosi.
Anche durante un pranzo solenne Gesù si prende cura degli infelici e degli affamati, perorando la loro causa in casa dei ricchi. E’ una grande lezione di gratuità e di umanità.
Il privilegio degli ultimi deve caratterizzare la vita cristiana. Paolo apostolo rimprovera i cristiani di Corinto, perché nella cena del Signore non aspettano i poveri che arrivano tardi a causa del lavoro o della loro condizione di schiavi. Comportandosi così, disprezzano la Chiesa di Dio (cf. 1Cor 11,12). E san Giacomo scrive: "Dio ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno" (Gc 2,5).
Invitando a tavola i ricchi e i vicini, ordinariamente ci si attende un contraccambio. L’invito rientra così nelle speculazioni e negli interessi personali ed egoistici. Ma Gesù ci ha insegnato: "Se amate quelli che vi amano, quale grazia ne avete? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a quelli che fanno del bene a voi, quale grazia ne avete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale grazia ne avete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi… Date e vi sarà dato (da Dio)" (Lc 6,35-36.38).
L’amore dei cristiani non deve fondarsi sul desiderio di essere ricambiati, perché l’amore o è gratuito o non è amore.
Si devono invitare i più poveri tra i poveri, perché da loro non c’è nulla da aspettarsi: non possono ricambiare l’invito, né procurarci onori e avanzamenti di grado.
Umanamente parlando, non è neppure piacevole sedersi con loro a tavola, per ovvi motivi. Servire con amore disinteressato, dando tutto senza aspettarsi nulla: questa è l’essenza della carità cristiana.
"Sarai beato perché non hanno da ricambiarti" (v. 14). Beatitudine strana, ma vera. Ci identifica con Dio che è amore gratuito, grazia e misericordia (cfr Lc 6,36). L’amore gratuito che dà il primo posto al povero è essenziale al cristianesimo, perché il Padre privilegia i figli più bisognosi, e perché Gesù si è fatto ultimo di tutti.
La ricompensa promessa da Gesù non consiste nell’avere qualcosa, ma è la comunione con Dio nel suo regno eterno.

15 Uno dei commensali, avendo udito ciò, gli disse: "Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!". 16 Gesù rispose: "Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17 All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: Venite, è pronto. 18 Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. 19 Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. 20 Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. 21 Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi. 22 Il servo disse: Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto. 23 Il padrone allora disse al servo: Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare, perché la mia casa si riempia. 24 Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena".

Il discorso ritorna ancora una volta sulla "beatitudine", che è l’aspirazione fondamentale dell’uomo. Gesù ha dichiarato "beato" chi fa il bene senza ricompense terrene, perché avrà una ricompensa più grande nella vita futura. La beatitudine consiste nel prendere parte al regno di Dio, immaginato come un banchetto.
La risposta di Gesù a uno dei commensali viene espressa attraverso una parabola. Un uomo imbandisce una grande cena e chiama gli invitati attraverso "il suo servo". E cominciano subito le amare sorprese. Gli invitati non accolgono l’invito per motivi banali: l’acquisto di un campo, la compera di un paio di buoi, la moglie.
In questo brano di vangelo si dice perché Dio sceglie gli ultimi: perché i primi rifiutano. Qui si espongono le cause del rifiuto: il possesso, il commercio e il piacere.
Quest’uomo che fa la cena e chiama tutti a parteciparvi è il Signore che vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tm 2,4). Nella Bibbia la cena è immagine ricorrente della salvezza che Dio offre a tutti i popoli (Is 25,6ss; Pr 9,1-6). Il servo, nominato cinque volte, è Gesù che si è fatto servo per amore del Padre e dei fratelli. L’ora della cena è la venuta di Gesù che coincide con il banchetto nuziale (cf. Lc 5, 33-34) promesso dall’Antico Testamento.
Il rifiuto degli invitati è totale: "Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi" (v. 18).
Il primo motivo del rifiuto è il possesso, l’accumulo dei beni. Ognuno va verso l’oggetto del suo desiderio, ognuno è fatalmente attirato verso il suo tesoro. Gesù insegna: "Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore" (Lc 12,34). E ancora: "Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione" (Lc 8,14). Il ricco è fatalmente alienato nelle cose che ha.
Il secondo motivo del rifiuto è il commercio. Il suo movente non è lo scambio dei beni necessari, ma quel di più, il plusvalore, che costituisce il guadagno, anima del commercio. La cosa comprata o venduta non interessa in sé, ma solo in quanto occasione di guadagno. Si vendono anche le cose più inutili, più nocive, più disoneste; si vendono uomini, donne, bambini; si vende Cristo (cfr.Lc 22,4-6) pur di guadagnare. Il commerciante di questa parabola sa valutare i propri interessi materiali, ma non i suoi interessi spirituali ed eterni: è un pessimo mercante.
Il terzo motivo del rifiuto è la moglie. Nel versetto 26 di questo stesso capitolo leggiamo: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo". Il coniuge non deve essere un impedimento nel rispondere all’invito del Padre. Quando il coniuge diventa un piacere della vita, soffoca la parola di Dio nel cuore (cf. Lc 8,14). E mentre gli altri, sopra nominati, si scusano declinando l’invito, quest’ultimo non ne sente affatto il bisogno: è tanto naturale che la moglie sia una scusa più che sufficiente per rifiutare l’invito di Dio! Perché, in definitiva, il possesso, il commercio e la moglie sono più importanti di Dio.
Due gruppi di persone sono condotte alla cena e prendono il posto di coloro che erano stati invitati per primi e hanno rifiutato. Si tratta proprio di coloro che la dottrina farisaica escludeva dal regno di Dio: i poveri (zoppi, storpi e ciechi) e i pagani. Del tutto diverso è il parere di Gesù. E’ precisamente ai poveri e ai pagani che egli spalanca la via che conduce alla cena del regno di Dio. Gesù trova in essi le condizioni da lui proclamate come fondamentali per potervi essere ammessi.
Gesù ci insegna che tutti quelli che credono di salvarsi con i loro mezzi e le loro osservanze, cioè tutti i farisei di tutti i tempi, resteranno fuori dalla sala della cena del Padre, fino a quando non si metteranno tra gli ultimi e gli esclusi.

25 Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: 26 "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27 Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30 Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. 33 Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. 34 Il sale è buono, ma se anche il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si salerà? 35 Non serve né per la terra né per il concime e così lo buttano via. Chi ha orecchi per intendere, intenda".

La parabola della grande cena aveva dimostrato che un gran numero di invitati erano mancati all’appuntamento per ragioni di interessi personali: non avevano saputo sacrificare qualcosa di proprio per fare spazio all’invito ricevuto. Gesù vuole risparmiare alla gente il ripetersi di un simile errore e di un’altra delusione. Egli è in cammino verso Gerusalemme dove l’attende la passione, la morte e la glorificazione. La molta gente che lo segue sa dove sta andando?, e conosce quali sono le condizioni per seguirlo? Chi segue Gesù deve mettere in second’ordine ogni altra persona e cosa.
La parola "odiare" va intesa nel senso di amare meno, posporre, mettere al secondo posto. Matteo presenta queste stesse parole di Gesù in una forma molto più comprensibile per noi: "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me" (Mt 10,37).
Nessuno deve illudersi che la salvezza sia a buon mercato. Come è stata cara per lui (1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,18-19), così sarà anche per chi lo segue. Per seguire Gesù bisogna sacrificare qualsiasi legame, anche quello familiare, ed essere pronti anche a morire.
Dopo l’esperienza di Gesù, la croce era diventata il simbolo delle sofferenze sopportate per il regno di Dio. Umanamente parlando, la croce non è un bene, non piace né a Dio né agli uomini, ma è un mezzo indispensabile per non dispiacere a Dio e per piacere agli uomini.
Le due parabole della costruzione di una torre e della partenza di un re per la guerra sono la spiegazione di ciò che precede. Esse ci insegnano che prima di prendere delle decisioni bisogna riflettere, perché è meglio non intraprendere un’impresa, piuttosto che affrontarla con mezzi inadeguati e fallire lo scopo. Farsi discepolo di Gesù è una scelta seria che coinvolge tutta la vita.
Con questa presa di posizione Gesù voleva anche impedire che si unissero a lui degli esaltati, che di fronte a delle scelte di fede e di amore, subito si stancano e rimettono continuamente in discussione ciò che non è discutibile, come leggiamo nel vangelo di Giovanni: "Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: ‘Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?’. Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: ‘Questo vi scandalizza?… Gesù infatti sapeva fin dall’inizio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che l’avrebbe tradito’… Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,60-66).
Il discepolo di Gesù deve mettere in second’ordine le persone care, la propria vita, il proprio onore: a maggior ragione le cose che possiede! I beni terreni tiranneggiano l’uomo e assediano i suoi pensieri e la sua vita. Gesù ha detto: "Non potete servire Dio e mammona" (Lc 16,13). E’ la sintesi del discorso. L’unica ricchezza del discepolo è la sua povertà. L’unica sua forza è la sua debolezza (2Cor 12,10). La povertà è il volto concreto dell’amore: chi ama dà tutto se stesso.
Il sale è il simbolo della sapienza: dà sapore, conserva e si sparge sui sacrifici (Lv 2,13). E’ come il discepolo che ha il lievito del Regno e ama la povertà, l’umiliazione e l’umiltà del suo Signore. Ha la sapienza del Vangelo, il sapore e il profumo di Cristo (2Cor 2,15); è preservato dalla corruzione e sa sacrificare la propria vita come Cristo. Il discepolo che non ama la povertà disprezza il suo Signore che è povero. Lo getta via, come Giuda; lo rinnega, come Pietro; fugge da lui, come tutti i discepoli presenti al momento del suo arresto. La sua vita è ancora lievitata dall’io, non da Dio. E’ sale insipido. E’ meglio un non credente che un discepolo che ha perso il sapore di Cristo che dà sapore a tutto. Chi ha ascoltato il Vangelo e non lo vive pone maggiore resistenza alla conversione di chi non l’ha mai ascoltato.
Il detto finale: "Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti" sottolinea l’importanza di quanto abbiamo udito nelle righe precedenti. Sono parole che spesso non desideriamo ascoltare (Lc 9,44-46). Chi le ascolta si accorge di non essere povero, e neanche di volerlo, e forse neanche di desiderarlo. A questo punto comprendiamo il nostro fallimento di discepoli e constatiamo la nostra vera povertà: l’impossibilità di seguire il Signore. La constatazione della nostra miseria ci introduce nelle parabole della misericordia. E’ l’inizio della nostra conversione a lui.

CAPITOLO 15

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro". 3 Allora egli disse loro questa parabola:
4 "Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5 Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. 7 Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
8 O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. 10 Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte".
11 Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. 17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20 Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. 27 Il servo gli rispose: E’ tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. 28 Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. 29 Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. 31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

I destinatari dell’insegnamento sono gli scribi e i farisei. Le parabole sono un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia che condanna i peccatori, alla giustizia del Padre che li giustifica.
Mentre il peccatore sente il bisogno della misericordia di Dio, il giusto non la vuole né per sé né per gli altri, anzi si irrita grandemente con Dio, come Giona (Gio 4,29). In questo modo rifiuta Dio, che è misericordia, in nome della propria giustizia.
La contrapposizione tra uno e tutti sottolinea la condizione di precedenza di chi è fuori strada, malato e infelice rispetto a chi è al sicuro, in salute e nella gioia.
Nell’Antico Testamento il pastore è Dio (Ger 23,1-6; Ez 34,12-16; Sal 23; ecc.), nel Nuovo è Gesù (Gv 10,11ss). Il cuore del Padre si rivolge tutto verso l’unico figlio che manca. Non basta la presenza di tutti gli altri per consolarlo. Egli ha un amore totale per ognuno. La sofferenza per la perdita di uno solo ci rivela quanto valore ha ognuno di noi ai suoi occhi di Padre.
L’atteggiamento del Padre si rivela nel comportamento di Gesù che cerca l’uomo perduto e invita gli amici e i vicini perché condividano la gioia del ritrovamento.
L’iniziativa della salvezza è di Dio che non attende il ritorno del peccatore smarrito, ma gli va incontro e lo porta a casa sua. La gioia di Dio per il ritorno del peccatore sta nel vedere riconosciuta e accolta la sua misericordia.
La gioia di Dio sarà piena quando tutti, anche i giusti, si convertiranno. Secondo Paolo il punto di arrivo della storia è la conversione d’Israele (Rm 11,25-36). La gioia di Dio per la salvezza di uno solo lascia intravedere la sofferenza divina del Padre fino a quando non vede tutti i suoi figli nella sua casa.
In realtà la pecora non si è convertita. Non siamo noi che ritorniamo a Dio, ma è lui che viene a cercarci. Convertirsi è volgere il nostro sguardo dal proprio io a Dio, dalla nostra nudità all’occhio di colui che da sempre ci guarda con amore.
Nella parabola della pecora perduta il protagonista era un uomo, figura di Dio, pastore d’Israele. Nella parabola della dracma perduta è una donna, figura dell’amore materno di Dio. Dio mi è più madre di mia madre: è lui infatti che mi ha tessuto nel seno di mia madre (Sal 139,13). Egli ama ciascuno di amore pieno e totale. Se ne manca uno solo, la sua casa è vuota. Perché ama ogni figlio più di se stesso.
Dio non ci ama in questo modo infinito perché siamo bravi, ma perché siamo suoi figli. E il fatto che siamo peccatori, pecore perdute e dracme smarrite, ci rende oggetto di un amore più grande (Lc 5,32; 19,10). Il valore di ogni cosa e di ogni persona si rivela nella sua perdita; il nostro valore si è rivelato nella morte stessa di Dio che si è perduto per ritrovarci. Il nostro valore è infinito, pari all’amore di Dio che l’ha portato a dare la vita per noi. Il Signore dice ad ogni uomo: "Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stimai e ti amo" (Is 43,4).
La dracma mantiene tutto il suo valore anche quando è perduta o ritrovata tra la spazzatura: l’uomo è il tesoro di Dio anche quando si perde e viene ritrovato nella spazzatura del peccato e della degradazione.
La parabola del Padre misericordioso e del figlio perduto e ritrovato rivela il centro del vangelo: Dio come Padre di tenerezza e di misericordia. Egli prova una gioia infinita quando vede tornare a casa il figlio da lontano, e invita tutti a gioire con lui.
Gesù fin dall’inizio mangia con i peccatori (cf. Lc 5,27-32). Ora invita anche i giusti. Attaccato da essi con cattiveria, li contrattacca con la sua bontà, perché vuole convertirli. Ma la loro conversione è più difficile di quella dei peccatori. Non vogliono accettare il comportamento di Dio Padre che ama gratuitamente e necessariamente tutti i suoi figli: la sua misericordia non è proporzionata ai meriti, ma alla miseria. I peccatori a causa della loro miseria sentono la necessità della misericordia. I giusti, che credono di essere privi di miseria, non accolgono la misericordia.
Questo brano è rivolto al giusto perché occupi il suo posto alla mensa del Padre: deve partecipare alla festa che egli fa per il proprio figlio perduto e ritrovato. Questa parabola non parla della conversione del peccatore alla giustizia, ma del giusto alla misericordia.
La grazia che Dio ha usato verso di noi, suoi nemici, deve rispecchiarsi nel nostro atteggiamento verso i nemici (cf. Lc 6,27-36) e verso i fratelli peccatori (cf. Lc 6,36-38). Il Padre non esclude dal suo cuore nessun figlio. Si esclude da lui solo chi esclude il fratello. Ma Gesù si preoccupa di ricuperare anche colui che, escludendo il fratello, si esclude dal Padre.
Nel mondo ci sono due categorie di persone: i peccatori e quelli che si credono giusti. I peccatori, ritenendosi senza diritti, hanno trovato il vero titolo per accostarsi a Dio. Egli infatti è pietà, tenerezza e grazia: per sua natura egli ama l’uomo non in proporzione dei suoi meriti, ma del suo bisogno.
I destinatari della parabola sono gli scribi e i farisei, che si credono giusti. Gesù li invita a convertirsi dalla propria giustizia che condanna i peccatori, alla misericordia del Padre che li giustifica. Mentre il peccatore sente il bisogno della misericordia di Dio, il giusto non la vuole né per sé né per gli altri, anzi, come Giona (4,9), si irrita grandemente con Dio perché usa misericordia.
La conversione è scoprire il volto di tenerezza del Padre, che Gesù ci rivela, volgersi dall’io a Dio, passare dalla delusione del proprio peccato, o dalla presunzione della propria giustizia, alla gioia di esser figli del Padre.
Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre: e questa opinione è comune ai due figli. Il più giovane, per liberarsi del Padre, si allontana da lui con le degradazioni della ribellione, della dimenticanza, dell’alienazione atea e del nihilismo. L’altro, per imbonirselo, diventa servile.
Ateismo e religione servile, dissolutezza e legalismo, nihilismo e vittimismo scaturiscono da un’unica fonte: la non conoscenza di Dio. Questi due figli, che rappresentano l’intera umanità, hanno un’idea sbagliata sul conto del Padre: lo ritengono un padre-padrone.
Questa parabola ha come primo intento di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia. Questa scoperta è una gioia immensa per il peccatore e una sconfitta mortale per il giusto. E’ la conversione dalla propria giustizia alla misericordia di Dio. La conversione consiste nel rivolgersi al Padre che è tutto rivolto a noi e nel fare esperienza del suo amore per tutti i suoi figli. Per questo il giusto deve accettare un Dio che ama i peccatori. Per accettare il Padre bisogna convertirsi al fratello.

CAPITOLO 16

1 Diceva anche ai discepoli: "C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2 Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. 3 L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. 4 So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. 5 Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: 6 Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. 7 Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. 8 Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

L’evangelista presenta la condotta di un cattivo amministratore non per insegnarci ad essere ladri, ma per indicarci un comportamento pronto, diligente, astuto nel lavorare per il regno di Dio. L’amministratore è disonesto, ma la sua tattica, la sua destrezza, il suo coraggio di rischiare sono esemplari per coloro che vogliono collaborare al piano di Dio. Questo amministratore non bada ad altro che a mettere in salvo la propria esistenza futura. Egli non esita: è rapido nel pensare e nell’agire, perché il tempo a sua disposizione è poco.
Il padrone non è un proprietario di questo mondo, che non è mai disposto a rimetterci del suo e tanto meno a lodare l’accortezza di un amministratore disonesto che lo imbroglia: il padrone è Dio.
Fuori parabola, viene lodato il discepolo che ricorda che il suo Signore lo chiamerà alla resa dei conti, che non vivacchia alla giornata ma opera con determinazione e coraggio per mantenersi fedele fino alla fine, che perdona e condona tutto ai suoi simili per assicurarsi il diritto alla patria eterna. Allo stesso tempo vengono biasimati i discepoli, i figli di Dio che si mostrano indecisi e fiacchi nell’agire quando si tratta di occuparsi del loro stupendo destino eterno.
Ogni uomo è un amministratore disonesto e sperperone perché si è fatto padrone di ciò che non è suo e lo sciupa scriteriatamente. A questo punto del vangelo Gesù ci parla dell’uso corretto dei beni di questo mondo, dell’amministrazione concreta della nostra vita: i beni, la vita sono un dono di Dio da condividere con i fratelli.
La chiamata al rendiconto è la morte. La presa di coscienza della propria morte porta a vivere il presente come momento di conversione. Si tratta di capire che cosa fare alla luce del rendiconto finale. L’amministratore ladro fa dipendere la sua vita da ciò che ha, quello fedele e saggio da ciò che dà. La morte ci fa passare dall’amministrazione dei beni di Dio alla partecipazione alla sua vita. Il paradiso è la casa dove abitano i debitori ai quali abbiamo condonato. La misericordia donata in terra ci verrà ricambiata in cielo.
Solo il Padre dona tutto e condona il cento per cento. Noi condoniamo il cinquanta e talvolta solo il venti per cento (vv. 7-8). Il Signore non loda l’amministratore disonesto perché ha rubato, ma perché dona i beni del suo padrone, secondo l’insegnamento ricevuto nelle pagine precedenti del vangelo: "Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro" (Lc 6,35-36).
L’importante è utilizzare la vita presente per arricchire davanti a Dio con l’elemosina, invece di accumulare tesori per sé (Lc 12,21). L’unica maniera per riscattare l’ingiusta ricchezza è quella di regalarla ai bisognosi e conquistarsi così la loro benevolenza e amicizia "perché ci accolgano nelle dimore eterne" (v. 9).

9 Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
10 Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto.
11 Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13 Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona".
14 I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui. 15 Egli disse: "Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio.

Il brano precedente ha parlato dell’amministrazione dei beni materiali. Ma non ci sono solo i beni materiali; ci sono altre ricchezze, altri beni, quelli dello spirito, che richiedono maggiore diligenza, coerenza e lealtà. Le ricchezze terrene non sono il dono supremo che Dio ci affida. Anzi, sono il "più piccolo" (v. 10). Il dono "più grande" sono le realtà future, la partecipazione al regno di Dio, la vita eterna. Dio dona i futuri beni celesti soltanto a colui che sa amministrare fedelmente, secondo la volontà del Padre, i beni terreni. L’infedeltà nell’amministrazione o nell’uso dei beni materiali porta ad essere infedeli anche nell’amministrare i beni dello spirito, i beni della propria salvezza.
Sembra che i ricchi con i loro averi e i loro denari siano liberi; in realtà sono sottoposti ad un tiranno esoso e spietato, mammona, che significa "ciò che si possiede". La loro condizione è quella degli schiavi. Chi cade sotto il dominio di mammona, perde l’amicizia con Dio. L’opposizione tra Dio e mammona è irriducibile. Il nemico più grande del "capitale", quando va a profitto solo di alcuni e lascia gli altri nella miseria, è Dio stesso. Egli vuole una comunità di uomini uguali, amici, fratelli.
Dio esige di essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza e con tutta la mente (cf. Lc 10,27). Ma, come l’esperienza insegna, anche mammona, che è la sete sfrenata del possesso, s’impadronisce completamente dell’uomo e diventa il suo dio.
Le parole di Gesù fanno riflettere, destano una sana inquietudine interiore e ci tolgono ogni possibilità di accettare la beatitudine fatua delle ricchezze. Nel desiderio delle ricchezze si nasconde il pericolo che esse tolgano all’uomo la libertà di seguire la voce di Dio che lo chiama: "I semi caduti in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione" (Lc 8,14).
Ciò che Gesù insegna in questo brano di vangelo trova eco nella prima lettera a Timoteo: "Quelli che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti… A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza, perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera" (1Tm 6,9-10.17-18).
I farisei di tutti i tempi, che sono attaccati al denaro, ascoltando queste cose, deridono Gesù. Le sue parole sono stolte e pazze, parole di uno che è fuori dal mondo. A questo riso beffardo di autosufficienza risponde Gesù con il suo lamento: "Ahimè per voi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete (Lc 6,25). E gli fanno eco le parole di san Giacomo: "E ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite" (Gc 5,1-2).
Ciò che conta per gli uomini, e per i farisei in particolare, è l’avere, il potere e l’apparire sempre di più. Questo è l’idolo che occupa il posto di Dio. Questa è l’ipocrisia. E sembra che l’ipocrisia sia in proporzione diretta con la posizione di prestigio che uno riesce ad acquistarsi "davanti agli uomini" (v. 15). Più l’uomo si sente in alto e più accumula beni e più ricorre alla menzogna. Questo è un principio generale che ha le sue lodevoli eccezioni! Non c’è in tutto il vangelo una valutazione più pessimistica nei confronti delle gerarchie religiose e politiche, nei confronti di ciò che è esaltato fra gli uomini, perché "ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio" (v. 15). L’essere posti in alto può diventare un idolo, un tentativo di sovrapporsi o di sostituirsi a Dio. Ogni autoesaltazione indebita è un tentativo idolatrico di mettersi al posto di Dio. L’orgoglio e l’idolatria sono praticamente la stessa cosa. E come Dio condanna gli idolatri, con la stessa forza respinge gli orgogliosi.

16 La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi.
17 È più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge.
18 Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio.

La nuova Legge è la misericordia che è stata illustrata dal capitolo 15 come il volto vero e definitivo del Padre. Qui si mostra il suo rapporto con la Legge antica. Fino a Giovanni durò la Legge antica. Dopo di lui inizia il Vangelo che forza con dolcezza tutti ad entrare nel regno di Dio (v. 16). Ma la misericordia non annulla la Legge: è la forza per compierla pienamente (v. 17). Il v. 18 applica questa nuova legge della misericordia al matrimonio. Essa infatti abbraccia tutta la vita umana, introducendo la benedizione del dono là dove era entrata la maledizione del possesso.
Giovanni ha richiamato tutti a convertirsi dal possesso al dono (Lc 3,3-18): e il senso genuino e profondo della Legge. Dopo Giovanni inizia l’era nuova, quella del Vangelo: il regno di Dio, nel quale nessuno può entrare per i propri meriti, è donato agli impediti e agli esclusi. Non è stipendio alla nostra giustizia, ma premio alla nostra conversione. Si richiede solo l’umiltà di accettarlo. Per questo bisogna riconoscere la propria miseria e invocare la sua misericordia. Al tempo della Legge, durato fino a Giovanni. È seguito il tempo della grazia. Prima c’era lo sforzo per conseguire la giustizia impossibile, ora c’è la gioia di accoglierla gratuitamente: questa è la nuova e definitiva conversione che Gesù annuncia.
Il Padre non ha figli da buttare: li ama tutti e vuole che la sua casa sia piena. Per questo li forza con la sua dolcezza ad entrare al banchetto (Lc 14,23: "costringili ad entrare"). Alla fatica dell’uomo, nel tempo della Legge, succede la fatica di Dio (penosa fino alla croce!) nel tempo del Vangelo, per indurre tutti ad entrare nel regno di Dio.
Gesù, rivelando la misericordia del Padre, non sconfessa la  Legge, ma la compie fino in fondo e per sempre. " Il pieno compimento della Legge è l’amore" (Rm 13,10): Cristo l’ha compiuta pienamente morendo per noi. Chi accetta la "grazia" della giustificazione non vive nell’immoralità, ma è in grado di osservare una legge ancora più esigente: diventare misericordioso come il Padre (Lc 6,36). Ciò che prima era impossibile, ora è possibile per il dono del cuore nuovo (cf. Ez 36,26-27).
Il v.18 ci presenta il problema del divorzio e del susseguente adulterio. Leggiamo in Dt 24,1: "Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trova grazia ai suoi occhi, perché ha trovato il lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa". Nell’antica cultura patriarcale il matrimonio sanciva il possesso dell’uomo sulla donna, che egli aveva comprato dalla famiglia di origine con regolare contratto. Ma in principio non era così (Mt 19,8; Mc 10,5): l’unione maschio-femmina è l’immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27), specchio dell’unione di Dio con l’uomo. Il matrimonio rispecchia tra gli uomini ciò che Dio è in sé: amore. Il divorzio è un male che si inserisce nel grande male che è il possesso che è il fallimento del dono.
"E ne sposa un’altra". L’adulterio non si consuma nello scioglimento del matrimonio, ma nel passare ad altre nozze. Si rompe la caratteristica fondamentale dell’amore che è appartenere ad uno con la fedeltà stessa di Dio che è sempre fedele.
Gesù annuncia chiaramente il male perché annuncia il perdono: giustifica il peccatore, ma condanna il peccato (Gv 8,11), a differenza di noi che giustifichiamo il peccato e condanniamo il peccatore. Con Gesù il matrimonio ritorna ad essere come era "al principio": sacramento, segno e realtà dell’amore fedele di Dio per l’uomo. La nuova legge, dopo aver presentato il rapporto io-Dio (cap. 15) e io-mondo (16,1-15), presenta anche il rapporto io-l’altro, in quell’alterità feconda che forma l’unità maschio-femmina. E’ un mistero di morte all’egoismo e di risurrezione nell’amore. La gravità dell’adulterio sta nel fatto che "chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è infedele nel poco, è infedele anche nel molto" (Lc 16,10): la fedeltà o l’infedeltà al coniuge è fedeltà o infedeltà a Dio.
L’amore è sempre sacro: anche quando è fallito, rimane un dono che non si disdice e non si ritira. E’ un segno della nuova alleanza, che è unilaterale, che non si nega neanche davanti al sacrificio di sé. Anzi, proprio lì realizza la sua potenzialità, sacrificandosi. Non bisogna dimenticare che il matrimonio esige che "uno rinneghi se stesso" (Lc 9,3), per ritrovarsi nel dono all’altro. Chi non lo impara dal Vangelo lo impara poi a proprie spese, con conseguenze spesso disastrose. Il matrimonio è un mistero di morte e risurrezione, che associa il cristiano al Cristo. Per questo egli dice: "L’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto" (Mc 10,9). Nella nostra cultura è necessario richiamare la fedeltà nell’amore. E’ la caratteristica della misericordia di Dio, che non viene meno davanti a nessun male dell’amato. Diversamente non è amore.

19 C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. 20 Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 21 bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. 25 Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. 26 Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. 27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. 29 Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. 30 E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. 31 Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi".

Questo brano illustra in forma negativa Lc 16,9: "Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne". E’ un ammonimento a usare giustamente l’ingiusta ricchezza.
La vita terrena è un ponte gettato sull’abisso tra la perdizione e la salvezza. Lo si attraversa indenni esercitando la misericordia verso i bisognosi.
L’alleanza con il Signore passa sempre attraverso l’amore per il fratello povero (cf. Es 2,20-26; 23,6-11; Lv 5,1-17; ecc.). La Lettera di Giacomo la sintetizza così: "Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo" (1,27).
Il ricco nella Bibbia è l’ateo pratico che ha fatto di sé il centro di tutto e si è messo al posto di Dio. Il povero è colui che attende l’aiuto di Dio: Lazzaro significa "Dio aiuta". Egli non desidera ciò che è necessario al ricco, ma il superfluo. I cani sono più compassionevoli dei ricchi.
La comunità cristiana a cui si rivolgeva Luca aveva bisogno dell’ammonimento che anche Giacomo aveva rivolto ai cristiani: "Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? … Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio" (2,5-7.12-13).
In questa parabola le scene si susseguono come in un film. Le situazioni del povero e del ricco si capovolgono al momento della morte. Essa non livella tutti, come la falce pareggia le erbe del prato, ma li distingue e li divide: il ricco diventa povero e il povero ricco.
Nell’altra vita il ricco diventa mendicante, e le sue richieste rimangono inascoltate come erano rimaste inascoltate da lui quelle di Lazzaro. Egli che mangiava e beveva a piacimento, non dispone neppure di una goccia d’acqua. Al posto dei vari piaceri di cui era ricolma la sua vita, ha il cruccio di un fuoco che lo divora senza ucciderlo.
I "beni" sono stati per lui occasione di rovina, come per Lazzaro i "mali" sono stati motivo di salvezza. L’unica preoccupazione del ricco era concentrata su se stesso, e per questo aveva lasciato da parte Dio e il prossimo. La ricchezza, che è sempre un dono di Dio all’uomo, può diventare occasione di male. Al contrario la povertà è un bene, perché tiene lontano l’animo dall’egoismo e dai piaceri distrattivi della vita.
L’intento della parabola non è quello di terrorizzare i ricchi senza misericordia e gli atei, ma di esortarli alla misericordia mentre sono ancora in questa vita. La Legge e i Profeti si sintetizzano nel comandamento dell’amore del prossimo (cf. Rm 13,10). Il vero problema è quindi credere alla parola di Dio.
Finché siamo vivi, siamo chiamati ad ascoltare seriamente il Cristo (cf. Lc 9,35) e ad evitare il comportamento dei farisei che erano attaccati al denaro e ascoltando tutte queste cose si beffavano di Gesù (cf. Lc 16,14).
Solo la parola di Dio che penetra nel profondo dell’uomo ci fa discernere se siamo dei poveri-beati o dei ricchi-infelici.

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CAPITOLO 17

1 Disse ancora ai suoi discepoli: "E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. 2 E’ meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. 3 State attenti a voi stessi!
Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai".
5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 "Aumenta la nostra fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
22 Disse ancora ai discepoli: "Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete. 23 Vi diranno: Eccolo là, o: eccolo qua; non andateci, non seguiteli. 24 Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. 25 Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga ripudiato da questa generazione.

Quando Gesù annuncia la fine dei tempi, ammonisce a far penitenza. Egli proclama il regno divino della misericordia, affinché la venuta del Figlio dell’uomo non deva portare a nessuno la condanna.
La misericordia è l’anima della comunità cristiana nei suoi rapporti interni ed esterni. Essa non è composta da impeccabili, e quindi tutti possono essere motivo di scandalo verso tutti. Il cristiano deve stare attento a non dare scandalo a nessuno. La dura condanna di Gesù verso coloro che danno scandalo ci fa pensare che gli scandali possono essere frequenti e anche gravi sia all’interno che all’esterno della comunità cristiana. L’invito a scomparire nel profondo del mare manifesta con forza l’amarezza e l’indignazione con cui Gesù si scaglia contro coloro che scandalizzano i piccoli. Lo scandalo travolge sempre una determinata categoria di persone: i piccoli, cioè i deboli, coloro che non hanno una sufficiente maturità spirituale. E gli scandali sono più deleteri quando provengono da persone più influenti e altolocate.
Per eliminare gli scandali Dio dovrebbe togliere la libertà agli uomini. L’inevitabilità dello scandalo corrisponde alla necessità della croce, con cui chi ama porta su di sé il male dell’amato. Il cristiano non è un perfetto e la salvezza è un esercizio costante di misericordia. La comunità cristiana non è un luogo dove non si pecca, ma dove si perdona.
Quando un fratello smarrisce la retta via non lo si può abbandonare a se stesso: ognuno deve sentirsi in dovere di intervenire e di soccorrerlo. Il peccatore è un ammalato spirituale che ha bisogno di cure urgenti e tutti gliele devono somministrare. Non si può rimanere indifferenti verso il fratello che pecca, perché si tratta della sua salvezza. La prima cosa che bisogna fare è questa: "Rimproveralo" (v. 3). Chi lo lascia fare e non si cura del suo peccato, si rende colpevole: "Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per causa sua" (Lv 19,17). Il rimprovero non è disapprovazione del fratello (cf. Lc 6,37-38), ma del male che è in lui. Esso suppone l’accettazione incondizionata di chi pecca (cf. Lc 15). Prima di spalancare la bocca per sgridare, bisogna aprire il cuore per accogliere e perdonare. La correzione fraterna è il più alto grado di misericordia, non lo sfogo peggiore della nostra cattiveria e del nostro rancore.
La correzione fraterna è un gesto scomodo da cui ognuno vorrebbe essere dispensato, ma il vero bene del fratello deve far passare in second’ordine il proprio disagio per liberare chi è in pericolo.
La comunità dei discepoli sarà veramente cristiana se un fratello perdona all’altro, se perdona sempre, nonostante le ricadute. Se il cristiano perdona al fratello, il Padre perdona a lui i suoi peccati (cf. Lc 11,4). Il popolo di Dio diventa santo con la sollecitudine di tutti per la salvezza di ciascuno e col perdono di ogni offesa personale e di ogni dispiacere ricevuto.
Il perdono dev’essere radicale, totale, senza riserve e senza limiti. Bisogna sempre venire incontro a chi cerca comprensione e aiuto. Il perdono deve accordare nuovamente al fratello la nostra fiducia, la simpatia e l’amicizia. Perdonare significa lasciar cadere ogni risentimento, malanimo, rivendicazione, diritto. Bisogna condonare, non addebitare, non esigere nulla. Spesso siamo magnanimi nel perdonare il male fatto agli altri, quasi mai nel perdonare quello fatto a noi.
Il perdono è reso possibile dalla forza della fede: per mezzo di essa possiamo superare anche le più grandi difficoltà. Un minimo di fede in Dio è sufficiente per operare i più grandi prodigi, perché la fede, anche quando è poca, è sempre una comunione con Dio, quindi una partecipazione alla sua onnipotenza. Con la fede si ottiene tutto (cf. Mc 11,23-24). Tutto è possibile a chi crede (cf. Mc 9,23). Nulla è impossibile a Dio (cf. Lc 1,37; 18,37). Credere è smettere di confidare in se stessi e lasciare che Dio agisca in noi.

7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? 8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare".

La gratuità del ministero apostolico, tema di questo brano, prolunga nel tempo ed estende nello spazio il mistero della misericordia di Dio. La gratuità è il segno essenziale dell’amore e il sigillo di appartenenza al Signore. Essa ci fa come lui, schiavi per amore. E’ la massima libertà che ci rende simili a Dio. La missione dei cristiani nel mondo è, prima di tutto, testimonianza dell’amore gratuito di Dio. Nel suo addio agli anziani della Chiesa di Efeso, Paolo dice: "Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio" (At 20,24).
Il cristiano è chiamato servo, schiavo di Gesù Cristo perché appartiene totalmente a lui. Questa schiavitù è la più alta realizzazione della libertà di amare perché rende il cristiano simile al suo Signore Gesù che è tutto del Padre e dei fratelli. Il lavoro dello schiavo è insieme dovuto e gratuito perché, sia lui che il suo lavoro, appartengono al Signore. La traduzione: "Siamo servi inutili"(v. 10) non è esatta perché lo schiavo che compie il suo lavoro non è inutile e perché Dio non ha creato nulla di inutile. Il termine greco "achreioi" significa inutili o senza utile, cioè senza guadagno. Ciò significa che i cristiani non fanno il loro lavoro apostolico per guadagno, per un utile personale, ma per dovere e gratuitamente: non per vergognoso interesse (cf. 1Pt 5,2), ma spinti dall’amore di Cristo Signore che è morto per tutti (cf. 2Cor 5,14). L’apostolato è di sua natura gratuito e rivela la sorgente da cui scaturisce, l’amore gratuito di Dio: "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8). Per l’apostolo Paolo la ricompensa più alta è predicare gratuitamente il vangelo: "Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo" (1Cor 9,18). L’amore vero rende il discepolo completamente libero da altri interessi e lo fa diventare gioiosamente servo come il suo Signore al quale appartiene totalmente.
Ciò che Dio dà all’uomo non gli è dovuto in termini contrattuali, ma è grazia. Per quanto l’uomo possa impegnarsi o fare, tutto quello che riceve non è in proporzione con quello che egli ha compiuto: è sempre un’elargizione della bontà e misericordia di Dio. Occorre avvicinarsi sempre più a Dio e non preoccuparsi del trattamento che egli usa nei confronti dei suoi servi fedeli. Sarà sempre conforme alla sua bontà infinita, non alle umili prestazioni dell’uomo.

11 Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. 12 Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, 13 alzarono la voce, dicendo: "Gesù maestro, abbi pietà di noi!". 14 Appena li vide, Gesù disse: "Andate a presentarvi ai sacerdoti". E mentre essi andavano, furono sanati. 15 Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; 16 e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17 Ma Gesù osservò: "Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? 18 Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?". E gli disse: 19 "Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!".

Questo brano è il racconto di un miracolo; ma più che sul fatto in sé l’attenzione viene richiamata sul diverso comportamento dei miracolati: sulla loro cieca fiducia in Gesù e sulla poca gratitudine che gli dimostrano dopo la guarigione.
L’ingratitudine è ciò che più ferisce e amareggia l’uomo e quindi è l’atteggiamento che più addolora Gesù. Il Cristo non rimane indifferente davanti ai comportamenti degli uomini nei suoi riguardi. Egli è sensibile all’amicizia, all’affetto, all’amore delle persone così come è dispiaciuto della dimenticanza, dell’ingratitudine, delle offese e ancor più dell’odio.
Un samaritano aveva dato una lezione di carità a due ufficiali del tempio (Lc 10,25-37), un altro samaritano impartisce una lezione di riconoscenza ai suoi compagni di sventura e di guarigione, i lebbrosi ebrei. Nel samaritano "straniero" (v. 18) si trovano le disposizioni che aprono l’anima alla salvezza: la riconoscenza, la lode, la coscienza della propria miseria, l’umiltà.
Il miracolo nella Bibbia è un’attestazione della presenza di Dio nella storia. Ogni tanto egli fa sentire all’uomo la sua presenza per ricordargli che non è solo. Ma anche senza miracoli tale certezza non deve venir meno.
La riconoscenza è la risposta dell’uomo che ha ricevuto il dono di Dio. Il vangelo, la fede, la salvezza sono doni da accogliere con gioiosa gratitudine.
La strada della salvezza è aperta a tutti. Ciò che salva è la fede che ci rende disponibili all’azione salvifica di Dio che si compie per mezzo di Gesù Cristo.
All’unico credente Gesù chiede conto anche degli altri nove. Dalla fede nasce la missione. Il credente è responsabile davanti a Dio di tutti i suoi fratelli e si mette necessariamente alla ricerca degli assenti.

20 Interrogato dai farisei: "Quando verrà il regno di Dio?", rispose: 21 "Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!".

Questo brano ci dà i criteri per leggere la storia presente con gli occhi della fede. Gesù ci dice dove va a finire tutta la vicenda dell’uomo e dell’universo e ci rivela il senso del presente partendo dal suo punto di arrivo. Il fine di tutto non è la morte, ma la vita: è il regno di Dio. Esso è già presente in mezzo a noi sotto il segno della croce. Per questo sembra che vinca il male, ma in realtà è il bene che vince perdendo. Tutto sarà chiaro nel giorno del "Figlio dell’uomo": il giorno del Cristo glorioso, il compimento luminoso della storia, l’oggi eterno di Dio.
I farisei pensano il regno di Dio in termini di potere e di gloria. Ma Gesù compie la salvezza, eludendo e deludendo tutte le aspettative umane, nel mistero della sua Pasqua di umiliazione ed esaltazione. Il regno di Dio è presente nel mondo, ma per ora è nascosto. È come un seme: la sua realtà si svelerà solo in futuro, nella pianta.
Il testo mette a confronto due strategie: quella che scaturisce dalla mentalità dell’uomo e del diavolo (cfr Lc 4, 5-12) e quella che viene da Dio. La prima nasce dall’attesa di un messianismo trionfalistico, regale; la seconda da un messianismo umile, umiliato e povero. Gesù sceglie la seconda, che è quella assegnatagli dal Padre (cf. Lc 3,22). Se sceglie un cammino nascosto, non appariscente, anche la venuta del regno non può venire in forma diversa. Essa non sarà accompagnata da fenomeni grandiosi in cielo e in terra, da segnalazioni spettacolari (miracoli nel sole e nelle stelle) tali da far convergere subito l’attenzione delle moltitudini verso una direzione o l’altra ("Eccolo là, o: eccolo qua").
Il regno di Dio è già all’opera con la venuta di Gesù, con la sua predicazione, con le sue scelte. Egli scaccia i demoni (cf. Lc 11,20). Satana è spodestato (cf. Lc 10,18) perché il dominio di Dio è già iniziato. Gesù compie le speranze degli uomini, che attendono il regno di Dio nel mondo, ma non secondo le loro attese, ma secondo il progetto del Padre. La presenza del regno di Dio è un mistero che può essere compreso solo mediante la fede nella parola di Gesù (cf. Lc 8,10). Ma nell’atteggiamento critico dei farisei c’è il rifiuto del giudaismo nei confronti di Cristo, della sua scelta di raccogliere i poveri, gli analfabeti, i peccatori. Secondo loro, questo non poteva coincidere con il regno di Dio. I giudei cercano miracoli strepitosi che comprovino la venuta del regno (cf. 1Cor 1,22). I falsi profeti annunciano che il Messia potrebbe apparire da qualsiasi parte (v. 23) per prendere le difese dei suoi. Ma Gesù avverte che si tratta di affermazioni gratuite. Il trionfo del bene non viene con la rapidità che noi desidereremmo. Dire il contrario significa illudere la gente, ingannare.
Visto secondo l’ottica umana, Gesù va incontro a una conclusione ingloriosa della sua missione. Le sofferenze che lo attendono sono molte. Sarà rifiutato dal suo popolo e morirà umiliato sulla croce. Ma Gesù sconfitto e morto in croce riapparirà sulla scena della storia. La sua venuta è paragonata al lampo o alla folgore per la sua repentinità. Lui che ha detto la prima parola, dirà anche l’ultima. "Il giorno del Figlio dell’uomo" (v. 24) è quello della sua risurrezione e del trionfo finale della sua venuta.

26 Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: 27 mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece perire tutti. 28 Come avvenne anche al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; 29 ma nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. 30 Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si rivelerà. 31 In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro. 32 Ricordatevi della moglie di Lot. 33 Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà. 34 Vi dico: in quella notte due si troveranno in un letto: l’uno verrà preso e l’altro lasciato; 35 due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà presa e l’altra lasciata". 36 37 Allora i discepoli gli chiesero: "Dove, Signore?". Ed egli disse loro: "Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi".

Il giorno del Figlio dell’uomo, presentato come una folgore nel brano precedente, ora è paragonato al diluvio (vv. 26-27). L’indifferenza e la corruzione nelle quali furono sorpresi e colpiti i contemporanei di Noè servono a far comprendere la disattenzione con cui gli uomini pensano e attendono la salvezza. Le ragioni per cui l’uomo non si accorge dell’avvicinarsi della giustizia di Dio, sono sempre le stesse: gli affari, gli interessi e i piaceri della vita. Tutte cose che sostituiscono qualunque altra occupazione, anche quella della salvezza eterna.
La Bibbia offre un altro esempio di disattenzione ai segni di Dio distribuiti nel corso della storia. Anche la vita dei Sodomiti trascorreva nei bagordi e nei vizi e non pensavano affatto di poter incorrere in qualche castigo (vv. 28-29). E così il castigo arrivò senza che alcuno potesse scamparne. La cosa non era impossibile: bisognava essere attenti e giusti come Lot.
I tempi di Noè, di Lot, di Sodoma sono come tutti i giorni della storia umana. La salvezza o la perdizione non stanno in qualcosa di straordinario, ma nella quotidianità della vita. L’uomo si perde se è mosso dall’egoismo, si salva se è mosso dall’amore. Due persone che fanno la stessa azione hanno una sorte diversa. Questo indica che la salvezza non dipende da cosa si fa, ma da come la si fa, e soprattutto per chi la si fa.
I cadaveri attirano gli uccelli di rapina (cf. Ap 19,17). Come gli uccelli di rapina sono attirati dai cadaveri, così sarà attirato sul mondo il giudizio di condanna dagli uomini che giacciono nella morte del peccato. Non è la domanda circa il luogo del giudizio che conta, ma la libertà dal peccato, il presentarsi davanti al Signore pentiti e convertiti.

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CAPITOLO 18

1 Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: 2 "C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 3 In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. 4 Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, 5 poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi". 6 E il Signore soggiunse: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? 8 Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".

Pregare non è facoltativo, ma obbligatorio: è necessario pregare sempre, senza stancarsi (v. 1). Il pericolo di perdersi d’animo è quasi inevitabile nella preghiera, perché l’interlocutore è invisibile e incontrollabile e non si può mai essere sicuri del suo ascolto e della sua risposta. A meno che non si creda fermamente che Dio ci ama, nel qual caso tutti i dubbi e i problemi scompaiono.
Si può pregare sempre perché la preghiera non si sovrappone alle nostre azioni, ma le illumina e le indirizza al loro fine. Il cuore può e deve essere sempre intento in Dio, perché è fatto per lui e perché lo esige il più grande dei comandamenti: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente" (Lc 10,27). La preghiera è importante perché è desiderio di Dio. E Dio-Amore non desidera altro che di essere desiderato e amato.
Il nostro peccato, che è lontananza da Dio, si evidenzia soprattutto nella preghiera. La preghiera può essere il momento della noia o della gioia, del disgusto o dell’appagamento della nostra fame e sete di Dio. Tutto dipende dal fatto se amiamo o non amiamo Dio. Per pregare è soprattutto necessario essere umili e sentirsi poveri e bisognosi: "Dio ascolta proprio la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare? Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza, la sua preghiera giungerà fino alle nubi. La preghiera dell’umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità" (Sir 35,13-18).
Se un uomo così perverso, come il giudice della parabola, è capace di esaudire le richieste insistenti della vedova, Dio, che è giusto e misericordioso, non esaudirà prontamente le preghiere dei suoi eletti che gridano a lui giorno e notte, ossia "sempre, senza stancarsi" (v. 1)? Certamente! Anzi, l’intervento di Dio, a differenza di quello del giudice, è repentino ed efficace.
Questo brano del vangelo è un invito alla fiducia, all’ottimismo. Dio non ci esaudisce per togliersi dai piedi degli scocciatori, ma perché ci ama.
L’interrogativo con cui si chiude il vangelo di oggi ci chiede una sempre rinnovata presa di posizione nei confronti di Dio. L’apostolo Paolo attendeva con fiducia la morte e il giudizio, perché aveva conservato la fede (cf. 2Tim 4,7). Questo è anche l’augurio che facciamo a noi e a tutti.

9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10 "Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14 Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato".

In questo brano abbiamo due modelli di fede e di preghiera. Da una parte il fariseo che sta davanti al proprio io. Egli è sicuro della sua bontà, giustifica se stesso e condanna gli altri. Dall’altra il pubblicano che, sentendosi lontano da Dio e non potendo confidare in sé, si accusa e invoca il perdono.
Il fariseo non sta davanti a Dio, ma a se stesso, non parla con Dio, ma con se stesso. La sua preghiera non è un dialogo, ma un monologo. Essa sembra un ringraziamento a Dio, ma in realtà è una strumentalizzazione di Dio per il proprio autocompiacimento. Egli si appropria dei doni di Dio per lodare se stesso invece del Padre e per disprezzare i fratelli invece di amarli.
Se la preghiera non è umile, è una separazione diabolica dal Padre e dai fratelli. E’ lo stravolgimento massimo: in essa si usa Dio per cercare il proprio io. E’ il peccato allo stato puro.
Il fariseo accusa gli altri di essere rapaci proprio mentre lui sta cercando di appropriarsi della gloria di Dio. Accusa gli altri di essere ingiusti, ossia di non fare la volontà di Dio, mentre lui trasgredisce il più grande dei comandamenti: l’amore per Dio e per il prossimo. Accusa gli altri di essere adulteri mentre lui si prostituisce all’idolo del proprio io, invece di amare Dio.
La religiosità che egli vive è solo esteriore; dentro c’è presunzione, ma anche molta grettezza, cattiveria, arroganza che lo spinge a giudicare con disprezzo il fratello peccatore che ha preso posto in lontananza.
Matteo scrive che i farisei assomigliano ai sepolcri imbiancati, belli all’esterno, ma pieni di putridume all’interno (23,27). All’esterno il fariseo è un perfetto credente, ma, dentro, i suoi pensieri e i suoi sentimenti sono totalmente diversi da quelli di Dio, che ama tutti indistintamente e in primo luogo i peccatori.
Il nostro fariseismo esce proprio tutto e bene quando preghiamo. La preghiera è lo specchio della verità: ci fa vedere che abbiamo dentro tutto il male che vediamo negli altri. Non c’è preghiera vera senza umiltà, e non c’è umiltà senza la scoperta del proprio peccato, anche del peggiore: quello di considerarsi giusti.
La preghiera del pubblicano è quella dell’umile: penetra le nubi (cf. Sir 35,17). E’ simile a quella dei lebbrosi e del cieco (cf. Lc 17,13; 18,38); è la preghiera che purifica e illumina. E’ una supplica con due poli: la misericordia di Dio e la miseria dell’uomo. L’umiltà è l’unica realtà capace di attirare Dio: fa di noi dei vasi vuoti che possono essere riempiti da Dio.
La fede che giustifica viene dall’umiltà che invoca la misericordia. La presunzione della propria giustizia non salva nessuno. Il giusto non è giustificato finché non riconosce il proprio peccato.
Senza umiltà non c’è conoscenza vantaggiosa né di sé né di Dio, e si rimane sotto il dominio del maligno.
Se il peccato è la superbia e il peccatore è il superbo, l’umiltà che il vangelo richiede ad ogni credente è quella di riconoscere la propria umiliante realtà di fariseo superbo.
L’autore dell’Imitazione di Cristo sintetizza perfettamente l’insegnamento di questa parabola: "A Dio piace più l’umiltà dopo che abbiamo peccato che la superbia dopo che abbiamo fatto le opere buone".

15 Gli presentavano anche i bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. 16 Allora Gesù li fece venire avanti e disse: "Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. 17 In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà".

Dopo il capitolo 10 il viaggio di Gesù verso Gerusalemme è tutta una catechesi sulla vita filiale, quasi un commento alle varie domande del Padre nostro. Qui si giunge al nocciolo: a quale condizione l’uomo può dire a Dio "Abba". Non gli si chiede altra qualità che quella di accettare la sua realtà di figlio e di diventare ciò che è: figlio del Padre. Anche se è vecchio, deve rinascere a vita nuova da Dio (cf. Gv 3,4ss). La condizione posta da Gesù per entrare nella famiglia di Dio è questa: "Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3). I piccoli entrano nel regno che è il Figlio, proprio perché accettano la paternità di Dio. Nel capitolo 9,46ss Gesù si identifica con il bambino. Qui vuole portare noi a fare altrettanto, per accogliere il regno e avere parte con lui. Il "che fare" per ereditare la vita eterna (Lc 18,18) è innanzitutto il lasciarsi fare, il saper ricevere. In questo si realizza la più grande potenzialità dell’uomo: lasciarsi fare figlio di Dio. E’ una passività che ci costruisce più di ogni altra attività.
Lo sforzo di ogni crescita umana mira giustamente a emanciparsi dalla situazione di dipendenza dai genitori. Essere adulti nella fede invece significa diventare sempre più piccoli e dipendenti da Dio. Tutto lo sforzo di Gesù è di condurci a questo stato di povertà e di umiltà che è il suo, per farci rinascere figli nel Figlio, in modo da poter dire con gioia il suo stesso sì di compiacenza al Padre. La vita è dire: "Sì, grazie!". La morte è l’autosufficienza di chi dice a Dio: "No, prego!".
I discepoli pensano che per Gesù è una perdita di tempo e di prestigio intrattenersi con i bambini, perché non hanno ancora capito il mistero della piccolezza (Lc 9,46-48). Vogliono difendere Gesù da ciò in cui si è identificato.
Gesù chiama a sé proprio quelli che i discepoli vogliono allontanare da lui (cf. Lc 18,40). Gesù comanda alla Chiesa di non escludere i piccoli e i peccatori (cf. Lc 15). I non aventi diritto e gli esclusi sono gli ammessi al banchetto (cf. Lc 14,13-24). Noi abbiamo accesso a lui solo se diventiamo come loro. L’unico impedimento ad entrare nel Regno è pretendere di averne diritto o accampare meriti e privilegi. Il mistero del Regno è la conoscenza che il Figlio ha del Padre, come uno che è e ha tutto da lui e per lui. Il Vangelo vuole portarci a questo spossessamento totale, a questa povertà alla quale è promesso il Regno (Lc 6,20). L’umiltà, verità dell’uomo, è l’humus in cui nasce il dono della fede che ci fa accettare noi stessi come dono del Padre, suoi figli. Solo così partecipiamo alla gioia del Figlio (Lc 10,20-21) ed entriamo nel mistero di Dio. Per questo bisogna diventare bambini.
"In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà" (v. 17). E’ un’affermazione solenne, di autorità divina. E’ Dio che parla in prima persona, a nome proprio. E’ un’espressione durissima. E’ simile ad altre due: "Chi non è con me, è contro di me" e: "Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo" (Lc 11,23; 14,33). Discepolo è colui che, non possedendo nulla, neanche se stesso, è tutto del Padre.
Il Regno non è da fare o da costruire: C’è già. E’ solo da accogliere. Non è difficile accoglierlo perché è Gesù stesso, il più piccolo di tutti. Questo accogliere è superiore ad ogni nostro fare. E’ la possibilità estrema dell’uomo; lo fa "capace di Dio".
Il Regno è Gesù, Figlio di Dio. Va accolto come un bambino perché si è fatto piccolo. Chi accoglie Gesù è, a sua volta, accolto da lui ed entra nel suo regno.

18 Un notabile lo interrogò: "Maestro buono, che devo fare per ottenere la vita eterna?". 19 Gesù gli rispose: "Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio. 20 Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre". 21 Costui disse: "Tutto questo l'ho osservato fin dalla mia giovinezza". 22 Udito ciò, Gesù gli disse: "Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi". 23 Ma quegli, udite queste parole, divenne assai triste, perché era molto ricco.
24 Quando Gesù lo vide, disse: "Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. 25 E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!". 26 Quelli che ascoltavano dissero: "Allora chi potrà essere salvato?". 27 Rispose: "Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio".
28 Pietro allora disse: "Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito". 29 Ed egli rispose: "In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, 30 che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà".

Il brano riguarda il che fare per ereditare la vita eterna, nominata all’inizio e alla fine del brano (vv. 18.30). Tratta del problema fondamentale dell’uomo: la salvezza. Tutto il viaggio di Gesù verso Gerusalemme è una spiegazione sul "che fare" per ereditare la vita eterna: bisogna diventare ciò che realmente siamo, poveri e umili come bambini, per tornare ad essere figli del Padre. Ma noi siamo troppo ricchi e grandi!
Il racconto vuole che ci immedesimiamo con il "notabile", per farci constatare che ci è impossibile salvarci. Questo "notabile" è il contrario dei "piccoli" del brano precedente. Questi non hanno nulla e non sono nulla e ricevono tutto ciò che hanno e sono dal Padre; sono i suoi figli più piccoli. Lui invece ha tanto ed è tanto: è ricco e notabile, e riceve da mammòna quanto ha ed è.
Il comandamento dell’amore di Dio si realizza nel lasciare tutto per seguire Cristo, che è Dio che ci interpella personalmente qui e adesso. A chi osserva i comandamenti dell’amore del prossimo manca ancora una cosa, la principale, per avere la vita eterna: amare Gesù ed essere con lui e come lui. Solo così si eredita la vita eterna, perché la vita eterna è in Gesù, è Gesù: "Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio non ha la vita" (1Gv 5,11-12). Gesù è il tesoro vero, la vera ricchezza presente e futura, per il quale si lascia tutto con gioia (Mt 13,44ss).
In questo notabile si assommano l’avere e l’apparire, la ricchezza e il potere. La vita eterna è un’eredità, un dono che spetta ai figli di Dio in quanto tali. Ciò che bisogna fare per ereditarla è una vita filiale, che non abbia come principio la ricchezza, il potere e la superbia, ma la povertà, il servizio e l’umiltà del Figlio Gesù. E’ quanto Gesù va dimostrando con la sua vita e il suo insegnamento.

31 Poi prese con sé i Dodici e disse loro: "Ecco, noi andiamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell'uomo si compirà. 32 Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi 33 e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà". 34 Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto.

La morte di Gesù, già annunciata due volte (Lc 9,22.44), viene nuovamente annunciata e spiegata nel suo significato profondo: è il compimento delle Scritture. La vita di Gesù ha un principio e un fine: il Padre (Lc 2,49; 23,46). Questo terzo annuncio segue il brano in cui gli apostoli hanno fatto la constatazione di aver lasciato tutto e precede il racconto del miracolo della guarigione del cieco.
Se hanno lasciato tutto certamente hanno capito che Gesù è il solo buono, il tesoro nascosto, la perla preziosa, il regno di Dio in mezzo a noi. Ma certamente non sanno ancora quanto è buono. Egli è buono della bontà stessa di Dio che si rivela nella povertà, umiliazione e umiltà del Figlio dell’uomo consegnato per noi. Proprio così ci salva dal male che nasce dall’ignoranza di Dio, ha la sua radice nell’egoismo e i suoi frutti velenosi nella brama di avere, potere e apparire.
L’amore di un Dio crocifisso nella sua passione per l’uomo, già incredibile in sé per la sua smisurata grandezza, trova in noi una resistenza quasi insuperabile a causa dell’antica menzogna sul conto di Dio inoculata in noi dal serpente antico (Gen. 3). Veramente siamo stolti e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti (Lc 24,25). La catechesi di Gesù ha un risultato deludente: i discepoli non capiscono nulla. Sanno però ciò che non vogliono e non possono capire: l’umiliazione di Gesù come via della salvezza.
Fine di ogni catechesi è riconoscere questa cecità davanti a lui, in modo da chiedergli l’illuminazione. L’istruzione religiosa non porta alla conoscenza, ma ci apre alla rivelazione, proprio mostrando la nostra incomprensione dell’essenziale della salvezza e facendoci invocare la luce.
Gesù spiega il significato della sua morte e risurrezione: è la realizzazione della grande profezia sul Figlio dell’uomo, compimento di tutta la promessa di Dio. Ciò che avverrà a Gerusalemme non è un caso o un incidente fortuito, ma frutto del sapiente disegno di Dio, che il Figlio conosce, esegue e rivela: è la Parola di cui tutta la Bibbia è commento (Lc 9,30-31; 24,26-27; 24,44-46).
La croce è la chiave per entrare e scoprire il tesoro di Dio. Egli è di sua natura "consegna", perché è dono di sé. E ciò che Dio è in sé, lo diventa per noi nel Figlio. L’uomo desidera possedere solo perché non conosce Dio che è dono. Dio è essenzialmente povero; non possiede neanche se stesso. Ogni persona della Trinità è se stessa perché è dell’altra: è costituita dal suo rapporto di dono. Questa povertà è propria dell’amore, in cui ognuno dona se stesso all’altro e riceve tutto da lui, anche la propria identità.
Il Figlio dell’uomo sarà consegnato alle nazioni indica l’universalità dell’amore di Dio e del dono della salvezza.
Sarà schernito significa sarà trattato da bambino. L’uomo desidera l’onore, l’amore invece accetta ogni umiliazione (Lc 23,36; 1Cor 13,4-7). Erode giungerà a nientificare Gesù (Lc 23,11).
Sarà insultato. L’uomo desidera l’arroganza del potere sugli altri. Dio invece sta con noi come il più piccolo tra tutti (Lc 9,48) "come colui che serve" (Lc 22,27) e porta su di sé ogni ingiuria.
Sarà sputacchiato. L’uomo con il suo sputo riversa su di lui tutto il suo disprezzo e il veleno del serpente antico (Gen 3) che ha nel cuore, mentre Gesù con la sua saliva guarisce il nostro mutismo e la nostra tenebra (Mc 7,33; 8,23; Gv 9,6).
Lo uccideranno. Gesù sarà ucciso. Affermerà così fin nella morte i valori per cui è vissuto. L’uccisione di Gesù certifica tutta la sua vita come trasparenza del suo amore verso il Padre e verso i fratelli.
E il terzo giorno risorgerà. La risurrezione è in continuità con il mistero di umiliazione e di morte. E’ la settima e ultima azione, fatta da quel Dio che assume su di sé le sei precedenti che fa l’uomo: consegnare, deridere, insultare, sputacchiare, flagellare e uccidere. Nella risurrezione si fa palese il vero senso della croce. Il suo abbassamento e il suo svuotamento assoluto (Fil 2,7-8) manifestano la gloria di un amore infinito. "Per questo" e non "nonostante questo", Dio ha esaltato il suo Cristo (Fil 2,9). Il mattino di Pasqua è la ratifica del venerdì santo come vittoria sull’egoismo e sulla morte.
I discepoli "non compresero nulla di tutto questo" (v. 34) perché pensavano che fosse male essere consegnato, deriso, insultato, sputacchiato, flagellato e ucciso. Il male invece è consegnare, deridere, insultare, sputacchiare, flagellare e uccidere. Noi siamo sensibili al male che portiamo più che a quello che causiamo, perché siamo egoisti. Il male invece non è portarne le conseguenze, ma farlo. Farlo è via alla morte; portarlo per amore è via alla vita.
Le parole dette da Gesù sono la rivelazione dell’unico buono che per amore si fa carico di ogni nostro male. La salvezza dell’uomo è vedere ciò che è stimato e amato dal suo Signore e viverlo. Per questo nel brano seguente Gesù guarisce la vista del cieco che è simbolo di ogni uomo.

35 Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto a mendicare lungo la strada. 36 Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. 37 Gli risposero: "Passa Gesù il Nazareno!". 38 Allora incominciò a gridare: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!". 39 Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse; ma lui continuava ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". 40 Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: 41 "Che vuoi che io faccia per te?". Egli rispose: "Signore, che io riabbia la vista". 42 E Gesù gli disse: "Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato". 43 Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio.

Anche questo episodio del vangelo ci riguarda personalmente. In questo cieco viene rappresentata tutta l’umanità. La nostra cecità è la non conoscenza di Dio congiunta con la presunzione di vederci (cf. Gv 9,41; Ap 3,17). Il Messia è stato annunciato dai profeti come colui che ridà la vista ai ciechi (Is 35,5-6) e porta ai poveri la lieta notizia (Lc 4,18).
La folla che è attorno a Gesù è di impedimento al cieco (v. 39) come sarà di impedimento a Zaccheo (Lc 19,3). Il comportamento della folla è molto significativo. Invece di commiserare il malato e aiutarlo, è infastidita dalle sue grida. Il dolore e la disperazione del cieco è meno importante della loro quiete o del loro pellegrinaggio a Gerusalemme. Il problema della tranquillità personale può far dimenticare, e perfino ostacolare, le migliori iniziative di bene. Gli amici e i discepoli di Gesù, che avrebbero dovuto aiutare e incoraggiare il cieco, sono proprio quelli che vorrebbero farlo tacere e impedirgli di pregare il Salvatore. Non solo, ma lo rimproverano anche! Gesù, però, non invita l’uomo a tacere, ma a venire a lui. La sensibilità e la libertà di Gesù risaltano in ogni pagina del vangelo, soprattutto quando sono accostate all’indifferenza e all’egoismo delle persone che lo circondano.
Il cieco prega Gesù chiamandolo per nome. Gesù significa: Dio salva. Negli Atti degli apostoli leggiamo: "Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato (2,21); "In nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (4,12). La salvezza è fare esperienza in prima persona dell’amore gratuito di Dio che dona e perdona. Gesù è la rivelazione di questo amore del Padre.
L’atteggiamento del cieco è in contrapposizione con l’ottusità dei giudei e degli stessi cristiani. Gesù si lamenta con la gente del suo tempo perché non crede se prima non ha veduto e toccato. Il cieco non ha bisogno di questo. L’apostolo Tommaso crede solo dopo aver veduto e toccato. Ma Gesù gli dice: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!" (Gv 20,29). Questa beatitudine sembra coniata appositamente per il cieco di Gerico: un cieco che vede più acutamente dei vedenti. Per questa fede Gesù lo guarisce all’istante e lo salva.
Ottenere la vista della fede ci permette di seguire Gesù che ha detto: "Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12).
Alla fine del racconto tutti i presenti hanno un comportamento concorde e corale con il cieco guarito: lodano Dio con lui. La lode, che ci fa partecipi del bene altrui, è l’espressione più alta dell’amore.

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CAPITOLO 19

1 Entrato in Gerico, attraversava la città. 2 Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3 cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. 4 Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. 5 Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". 6 In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. 7 Vedendo ciò, tutti mormoravano: "È andato ad alloggiare da un peccatore!". 8 Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: "Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto". 9 Gesù gli rispose: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; 10 il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto".

L’incontro di Gesù con Zaccheo ripropone uno dei temi fondamentali del vangelo: la preferenza di Dio per i peccatori. Quest’uomo altolocato e benestante è insoddisfatto di sé. In apparenza ha tutto, in realtà gli manca tutto. In quanto pubblicano è escluso dalla salvezza secondo la legge, in quanto ricco è escluso dalla salvezza secondo il vangelo (cf. Lc 18,24ss). E’ un peccatore della peggior specie, è un caso impossibile.
Anche in questo caso, come nel brano precedente, la moltitudine dei discepoli nasconde agli occhi di Zaccheo il Gesù che cercava di vedere. La comunità è il luogo dell’incontro con Dio, ma qualche volta impedisce di vederlo. La folla non aiuta Zaccheo a trovare Gesù e criticherà Gesù quando deciderà di andare nella sua casa.
Il pubblicano viene chiamato per nome: "Zaccheo". Questo nome significa "Dio ricorda". Dio si ricorda di lui e gli usa misericordia, come aveva cantato il suo omonimo, Zaccaria: "Ha soccorso il suo servo, ricordandosi della sua misericordia"(cf. Lc 1,54). In Zaccheo si compie la volontà di salvezza del Padre, che Gesù ha la missione di attuare in questo mondo. E tutto deve avvenire "subito" e "in fretta" (vv. 5-6). E’ l’urgenza della salvezza. Ci ricorda Maria che corre a portare il Salvatore a chi l’attende (cfr Lc 1, 39). Ma questa volontà di Dio che desidera salvare tutti e subito suscita incomprensione e mormorazione nei benpensanti di allora come in quelli di tutti i tempi.
L’ansia e la tensione di Zaccheo si trasformano in esultanza, che è la partecipazione alla felicità di Dio. L’angelo Gabriele ha invitato Maria a rallegrarsi, ora tale allegrezza passa a un peccatore convertito. L’incontro con Gesù libera l’uomo dalle sue colpe, dalle sue perplessità e angosce e lo riempie di pace e di gioia.
La folla critica il comportamento di Gesù perché non lo capisce. Egli è venuto a portare agli uomini il perdono di Dio, e non deve fare meraviglia che lo conceda a coloro che ne hanno più bisogno. Dio non è come l’hanno presentato gli scribi e i farisei di tutti i tempi. È diverso. Non ha nemici, non è contro nessuno, non fa distinzioni tra giudei e pagani, tra giusti e peccatori. Tutti sono uguali davanti a lui, tutti bisognosi di grazia, di perdono e di aiuto.
Luca si compiace di presentare Gesù che si trova a suo agio in casa di un peccatore. La salvezza è per tutti, e prima di tutto per i peccatori che si pentono. E il pentimento si manifesta nel riordinare la propria condotta, riparando i torti commessi. E poiché le ingiustizie sociali pesano in definitiva sempre sui poveri, Zaccheo darà loro la metà dei suoi beni. E nei casi specifici di truffa, restituirà secondo la legge: quattro volte tanto (cf. Es 21,37; 2Sam 12,6). La giustizia sociale è il primo frutto della conversione.
Gesù non è venuto per condannare, ma per salvare. La sua missione si compie dando accoglienza ai peccatori. San Paolo ha scritto: "Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1Tm 1,15-16).
Zaccheo cercava Gesù, ma alla fine di questo episodio evangelico scopriamo che, ancor più e ancor prima, era Gesù che cercava Zaccheo che si era perduto (v. 10). La lezione di questo brano di vangelo ha bisogno di essere sempre ricordata nella Chiesa. C’è sempre qualcuno nella comunità cristiana che ha paura di avvicinare i peccatori, gli scomunicati e i nemici della religione e della fede. Il vangelo ci spinge ad essere vicini a tutti, a stabilire buoni rapporti con tutti, perché tutti hanno bisogno di salvezza, e tocca proprio a noi portarla a loro.
"Il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto" (v. 10). È la chiave di lettura di tutta la storia di Gesù.

11 Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, Gesù disse ancora una parabola perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12 Disse dunque: "Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. 13 Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. 14 Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un’ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi. 15 Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16 Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. 17 Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. 18 Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. 19 Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città. 20 Venne poi anche l’altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto; 21 avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato. 22 Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23 perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi. 24 Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci 25 Gli risposero: Signore, ha già dieci mine! 26 Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 27 E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me".

Il regno di Dio è concepito come un mondo superiore che fa irruzione in quello dell’uomo sconvolgendolo e rinnovandolo. Alcuni ritenevano che tale manifestazione incombesse da un momento all’altro, addirittura in concomitanza con l’arrivo di Gesù a Gerusalemme: in quello stesso istante. Per togliere una tale tensione nei suoi discepoli Gesù racconta questa parabola.
Il nobile personaggio della parabola indica Gesù che sta per recarsi in un paese lontano, ossia in cielo. Di là egli ritornerà con potenza e onore di re. Per il tempo della sua assenza egli affida i suoi beni ai suoi servi affinché li facciano fruttare. Il tempo che intercorre tra l’ascensione di Gesù al cielo e il suo ritorno nella gloria, è tempo di lavoro e di imprese missionarie.
Durante la sua assenza i suoi nemici non si danno pace. Essi fanno di tutto perché non venga il suo regno (cf. Lc 11,2). Ma Gesù verrà nello splendore della sua dignità regale; tuttavia questo non succederà "da un momento all’altro" (v. 11).
Al suo ritorno Gesù domanderà conto dell’amministrazione affidata ai suoi servi. Come ricompensa del loro fedele servizio, anche i discepoli parteciperanno alla sovranità di Cristo (Lc 12,43; 22,30).
Le amare osservazioni che il servo malvagio e fannullone fa contro il suo padrone sono la manifestazione della sua cattiva coscienza. Il Signore viene accusato di essere un padrone crudele, un trafficante ingordo, un egoista senza riguardo per nessuno. Secondo queste parole sarebbe stato proprio il Signore a togliere ogni coraggio e a mettere addosso al suo servo un tale terrore paralizzante.
Quello che il Signore domanda è fedeltà nell’amministrazione, attività coraggiosa, lavoro oculato. Per questo non è concepibile un’attesa inoperosa e piena di paura. Il capitale che ci ha dato non serve per arricchire davanti agli uomini, ma davanti a Dio; farlo fruttare non significa accumulare con avidità, ma dare con generosità (cf. Lc 12,13ss; 16,1ss). Questa parabola illustra la scelta giusta operata da Zaccheo: ha fatto fruttare i suoi averi dandoli ai poveri. Il vero guadagno che ci arricchisce davanti a Dio (cf. Lc 12,21) consiste nel donare. E’ l’unico modo di investire; ci dà il nostro vero tesoro (cfr Lc 12, 33) e ci procura amici che ci accolgano nelle dimore eterne (cf. Lc 16,9). La salvezza è un premio e come tale è insieme dono e conquista, incontro tra la benevolenza di Dio e la libertà dell’uomo. Il premio è sproporzionato al merito, come una città rispetto a una "mina". Una "mina" greca d’argento corrispondeva allo stipendio di trecento giornate lavorative.
Fuori parabola, Dio ci dona "molto più di quanto possiamo domandare o sperare" (Ef 3,20): ci dona se stesso. Tutto è dono suo, noi stessi e le nostre azioni.
La paura di Dio è tipica di Adamo (Gen 3,10) e dei suoi discendenti. Essa deriva dall’immagine di un Dio cattivo, che non ci ama. Questa paura blocca l’azione dell’uomo. L’uomo "religioso" considera Dio severo e intransigente. Il suo comportamento da uomo "giusto" è mosso da un’estrema difesa da Dio, nella ricerca parossistica di chiudere il conto in parità. Ma ciò non è possibile. L’unica via d’uscita è la gratitudine per la gratuità del dono.
Il v. 27 è un’immagine truculenta per presentare la dannazione eterna. È la sorte di chi rifiuta la vita di Dio.

28 Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.
29 Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: 30 "Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui. 31 E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete?, direte così: Il Signore ne ha bisogno". 32 Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto. 33 Mentre scioglievano il puledro, i proprietari dissero loro: "Perché sciogliete il puledro?". 34 Essi risposero: "Il Signore ne ha bisogno".
35 Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 36 Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. 37 Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
38 " Benedetto colui che viene,
il re, nel nome del Signore.
Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli!".
39 Alcuni farisei tra la folla gli dissero: "Maestro, rimprovera i tuoi discepoli". 40 Ma egli rispose: "Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre".

È la venuta del Messia, l’inizio del suo regno. Viene il Signore della pace, l’erede del trono di Davide che regnerà senza fine (cf. Lc 1,32-33). Viene in umiltà e mitezza.
La salvezza consiste nell’accogliere questo Messia povero, sempre in viaggio e sempre alla porta che bussa. Egli viene e verrà sempre allo stesso modo in cui l’abbiamo visto venire.
Gesù sarà rifiutato per la sua scelta di essere povero e umile. La fede cristiana consiste nell’accettarlo così com’è.
La visita di Gesù a Gerusalemme ha il suo centro nel tempio e il suo punto di partenza e di arrivo sul monte degli Ulivi. Su questo monte riceverà il suo battesimo di sangue (Lc 22,4) e si eleverà al cielo (Lc 24,50-51).
Il Messia non viene con il cavallo come chi ha il potere. Non viene neppure con il carro da guerra come chi vuole conquistarlo (Zc 9, 9). Il nostro re è in mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27). Per questo viene cavalcando l’umile animale da servizio quotidiano.
L’asinello è figura di Gesù che prende su di sé il nostro peso morto (Lc 10,34; Gv 1,29). Il suo messianismo è in povertà, umiliazione e umiltà, che sono i mezzi potenti di chi ama e libera dalla schiavitù dell’egoismo. Rifugge dalle ricchezze, dal potere e dalla gloria, che sono i mezzi deboli di chi ha paura e schiavizza.
L’asinello, che è figura di Gesù, rappresenta pure l’immagine del vero cristiano che serve per amore in umiltà. Nella comunità cristiana ci sono troppi cavalli da parata e pochi asinelli che portano il Cristo a Gerusalemme.

41 Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: 42 "Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. 43 Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; 44 abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata".

In questo brano Luca dà l’ultimo tocco al ritratto di Gesù, immagine perfetta del Padre. Il pianto di Gesù rivela il mistero più grande di Dio: la sua passione per noi. Ciò che Dio aveva detto a Geremia, si avvera ora in Gesù: "Tu riferirai questa parola: ‘I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale’" (Ger 14,17). Gesù piange su Gerusalemme. La condanna cadrà su di lei. Gesù non può impedirla. Le lacrime manifestano la sua impotenza. Il suo pianto impotente nasconde un profondo mistero. Dio nasconde la sua potenza nell’amore di Gesù che salva e nella sua debolezza. Egli prende con tanta serietà la libertà dell’uomo, che preferisce piangere impotente in Gesù, piuttosto che togliere alla creatura umana la sua libertà. Il pianto di Gesù è l’ultimo invito alla penitenza per la città ostinata nel suo rifiuto e nel suo male.
Le parole che Gesù rivolge a Gerusalemme non sono minacce, né la sua distruzione sarà castigo di Dio. Dio è misericordioso e perdona (cf. Es 34,6-7; Sal 86,15; 103,8; Gio 4,2; ecc.). Le parole di Gesù sono una constatazione sofferta del male che il popolo fa a se stesso. Il male, dal quale mette inutilmente in guardia Gerusalemme, ricadrà infatti su di lui. In croce, sarà assediato, angustiato e distrutto da tutta la cattiveria del mondo e dall’abbandono di tutti. Il pianto di Gesù esprime la sua debolezza estrema, che è la forza dell’amore, che portò lui alla croce (cf. 2Cor 13,4) e noi alla salvezza.
Gesù aveva detto: "Beati voi che ora piangete" (Lc 6,21). Ora è lui stesso che piange. Egli realizza in sé il mistero del regno di Dio su questa terra: un seme gettato nel pianto. Ma chi semina nel pianto mieterà con giubilo (Sal 126,5-6).
Il motivo del lamento sta nel fatto che nel giorno della sua entrata in Gerusalemme, essa non ha compreso "la via della pace". Di conseguenza, avendo rifiutato il Cristo che è la nostra pace (cf. Ef 2,14), iniziano per lei i giorni di guerra, che continueranno fino alla sua distruzione.
Questo giorno dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme porta a compimento la lunga storia di offerte di salvezza da parte di Dio alla città santa. Questo è il momento in cui dovrebbe esserle donata la pace, la salvezza. Gerusalemme dovrebbe solamente riconoscere che Gesù è il principe della pace, inviato da Dio. Ma essa, che ha ucciso i profeti e lapidato coloro che Dio le aveva mandato per salvarla, rifiuta questo riconoscimento. Ricordiamo un lamento precedente di Gesù su Gerusalemme: "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa viene lasciata deserta" (Lc 13,34-35). Il popolo di Gerusalemme si chiude alla parola di Dio: "Sono un popolo insensato e in essi non c’è intelligenza: se fossero saggi, capirebbero, rifletterebbero sulla loro fine" (Dt 32,28-29). In questo momento si adempie ancora ciò che Dio aveva detto al profeta Geremia riguardo a Gerusalemme: "Tu mi hai respinto, dice il Signore, mi hai voltato le spalle e io ho steso la mano su di te per annientarti; sono stanco di avere pietà" (Ger 15,6).
Gesù annuncia il verdetto di Dio sulla sua nazione, ma lo fa a malincuore, con dolore, piangendo, non esultando di gioia per la vendetta di Dio che si abbatte sui peccatori. Gesù non è venuto per punire, ma per salvare; per recare la pace, non la guerra. Israele si era allontanato da Dio, l’aveva dimenticato e offeso; Gesù viene a ristabilire i buoni rapporti tra di loro. Il suo stesso modo di presentarsi, semplice, umile rivelava lo scopo pacifico della sua venuta. Un messia di questo genere non poteva non suscitare fiducia. Gerusalemme non ha riconosciuto il giorno del perdono e della grazia, e allora dovrà fare la conoscenza col giorno dell’ira e dello sterminio dei suoi abitanti. La distruzione di Gerusalemme è vista come un castigo divino in risposta al rifiuto del Messia. La grazia, la bontà di Dio, quando è rifiutata, diventa ira, vendetta, castigo.
Ma, a questo punto, ci domandiamo come possiamo mettere d’accordo le pagine del vangelo che ci presentano Dio come amore e misericordia con questa pagina in cui sembra che il volto del Dio-Amore sia totalmente stravolto e negato.
Il vangelo di Giovanni ci aiuta a capire meglio il motivo della distruzione di Gerusalemme: "Pilato disse ai giudei: ‘Ecco il vostro re!’. Ma quelli gridarono: ‘Via, via, crocifiggilo!’. Disse loro Pilato: ‘Metterò in croce il vostro re?’. Risposero i sommi sacerdoti: ‘Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare’. Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso" (Gv 19,14-16). La dichiarazione pubblica e solenne dei sommi sacerdoti manifesta senza equivoci il rifiuto di Dio e del suo Cristo come re e salvatore d’Israele, e la scelta di Cesare come loro re e salvatore. E il nuovo signore di Israele, l’imperatore di Roma, ha agito secondo la logica di tutti i potenti di questo mondo, distruggendo e massacrando il popolo ribelle. Sono gli eserciti dell’impero romano che hanno distrutto Gerusalemme, non Dio.
Le potenze del male sono tenute lontane dalla protezione di Dio. Il giorno in cui allontaniamo Dio dalla nostra vita, esse si comportano come le belve quando cacciamo via il domatore che le teneva debitamente a bada: ci sbranano. E non perché sono state aizzate contro di noi dal domatore indispettito e vendicativo, ma perché questa è la loro condotta naturale di belve. Quando rifiutiamo il regno di Dio, cadiamo immediatamente sotto il potere del demonio, che "è stato omicida fin da principio" (Gv 8,44).

45 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: "Sta scritto:
La mia casa sarà casa di preghiera.
Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!".
47 Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; 48 ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.

Il viaggio di Gesù a Gerusalemme si conclude nel tempio. Egli entra nei cortili del tempio non tanto per pregare, quanto per compiere un rito di purificazione della casa del Padre. Scaccia tutti i commercianti e pronuncia contro di loro severe parole di biasimo e di condanna. La casa di Dio non deve essere adibita a luogo di mercato e la religione non può essere pretesto e paravento di operazioni commerciali.
A differenza dei suoi sacerdoti, Dio non vende i suoi favori a chi cerca di conquistarselo con prestazioni religiose o addirittura con il denaro. Il peccato più grave contro di lui è quello di voler comperare il suo amore: è come trattarlo da prostituta. Egli è il Padre pieno di grazia e di misericordia. La salvezza è suo dono gratuito al quale rispondiamo con un amore filiale gratuito. Questo è il vero culto spirituale, gradito a Dio (cf. Rm 12,1). La cattiva immagine di Dio è l’origine di tutti i mali dell’uomo.
Il culto di mammona cerca sempre di sostituirsi a quello del vero Dio. Ma Gesù ci ha detto senza mezzi termini che non possiamo servire a due signori (cf. Lc 16,13). Infatti Dio e mammona sono inconciliabili tra loro, come il dono e il possesso, la vita e la morte, l’amore e l’egoismo.
Il profeta Zaccaria aveva preannunciato la venuta del Messia con queste parole: "In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa di Dio" (14,21). Permane sempre anche per la Chiesa il pericolo di diventare una spelonca di ladri alla ricerca del turpe guadagno (1Pt 5,2). La povertà e la gratuità sono le due condizioni indispensabili che Gesù ha posto per l’annuncio del vangelo (cf. Lc 9,1ss; 10,1ss). Esse manifestano l’essenza di Dio che è amore. E l’amore dà gratuitamente tutto ciò che è e ha.
Con la predicazione nel tempio Gesù si inimica i capi del giudaismo, i quali decidono subito di farlo morire. Ma il popolo si schiera dalla sua parte e ascolta le sue parole. Da queste persone usciranno i primi elementi per edificare il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa.

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CAPITOLO 20

1 Un giorno, mentre istruiva il popolo nel tempio e annunziava la parola di Dio, si avvicinarono i sommi sacerdoti e gli scribi con gli anziani e si rivolsero a lui dicendo: 2 "Dicci con quale autorità fai queste cose o chi è che t'ha dato quest'autorità". 3 E Gesù disse loro: "Vi farò anch'io una domanda e voi rispondetemi: 4 Il battesimo di Giovanni veniva dal Cielo o dagli uomini?". 5 Allora essi discutevano fra loro: "Se diciamo "dal Cielo", risponderà: "Perché non gli avete creduto?". 6 E se diciamo "dagli uomini", tutto il popolo ci lapiderà, perché è convinto che Giovanni è un profeta". 7 Risposero quindi di non saperlo. 8 E Gesù disse loro: "Nemmeno io vi dico con quale autorità faccio queste cose".

Vediamo da una parte Gesù e il popolo che lo ascolta; dall’altra i capi che gli si oppongono. Nessuno dei dominatori di questo mondo può conoscere la Gloria (1Cor 2,8-9).
Il grande peccato d’Israele fu quello di tentare Dio chiedendogli che rispondesse con un segno incontrovertibile alla sua domanda: "Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?" (Es 17,7).
Lo stesso si ripete qui nei confronti di Gesù e della sua parola. L’uomo religioso chiede che Dio obbedisca a lui, invece di obbedire a Dio (cf. la terza tentazione di Gesù al cap. 4).
Dobbiamo quindi smettere di irritare Dio mettendolo in questione. È meglio mettere in questione noi stessi.
Gesù ha purificato il tempio. In esso è tornata la Gloria: la Parola che è Gesù. Egli non spiega Mosè o i profeti, ma annuncia la buona notizia che è lui stesso. Non è un mastro che insegna, ma il Signore che salva. Il nocciolo della disputa è l’autorità della sua parola.
La domanda degli avversari è duplice: di che tipo è e da dove gli deriva questa autorità. Ma non è Dio che deve rispondere alle domande inquisitorie dell’uomo, bensì l’uomo alle domande sapienti di Dio. È lui il Creatore, e noi le sue creature. L’uomo è tale nella misura in cui ascolta Dio e gli risponde. Solo se siamo disposti a rispondergli e a convertirci ci è chiara l’autorità della sua parola.
Il battesimo di Giovanni è un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (3,3). La predicazione di Giovanni sintetizza la profezia e la promessa dell’Antico Testamento: l’uomo è peccatore e Dio perdona. La conversione è riconoscere i due fatti e volgersi dal proprio peccato al suo perdono. Chi non accetta l’autorità di Giovanni che chiama a convertirsi, non riconosce quella del vangelo che ci dice a chi convertirsi. Bisogna riconoscersi fra i pubblicani e i peccatori per convertirsi: solo il cieco è illuminato, solo il malato accoglie il medico. Gesù invita coloro che lo considerano nemico ad accettare il battesimo di Giovanni. Solo se ammettono il proprio male incontrano lui, il Dio amico che è venuto a liberarli.
I capi d’Israele non hanno creduto a Giovanni perché non volevano convertirsi. L’ignoranza circa l’"unico buono" ci fa ritenere come bene il nostro male. Non accogliamo ciò che viene dal cielo perché siamo ricurvi sulle cose della terra.
Per ora il popolo è favorevole a Gesù. Poi manifesterà di essere vittima della stessa ignoranza dei capi, che lo consegneranno a morte (23,13; At 3,17).
L’ignoranza di chi non vuole rispondere è volontaria e preclude alla verità. Uno dei modi per resistere a Dio è quello di continuare a interrogare invece di lasciarsi interrogare. A Giobbe che dice: "Io parlo, e tu mi rispondi", Dio dice: "Io ti interrogo e tu mi risponderai" (Gb 13,22; 38,3). Egli risponde solo a chi gli risponde: "Infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano; si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui" (Sap 1,2).
L’autorità del Vangelo è riconosciuta solo da chi accetta l’Antico Testamento, che si riassume nell’appello di Giovanni alla conversione. Chi non vuol vedere la propria perdizione non può vedere la salvezza.
Dio è Parola. Dove non è ascoltata, cade nel silenzio: la Parola tace, Dio muore. Ma proprio così ci dice la parola più potente: lui è amore senza limiti, fedele oltre ogni infedeltà (cf. brano seguente). Per questo il silenzio di Dio è la sua parola più eloquente.

9 Poi cominciò a dire al popolo questa parabola: "Un uomo piantò una vigna, l'affidò a dei coltivatori e se ne andò lontano per molto tempo. 10 A suo tempo, mandò un servo da quei coltivatori perché gli dessero una parte del raccolto della vigna. Ma i coltivatori lo percossero e lo rimandarono a mani vuote. 11 Mandò un altro servo, ma essi percossero anche questo, lo insultarono e lo rimandarono a mani vuote. 12 Ne mandò ancora un terzo, ma anche questo lo ferirono e lo cacciarono. 13 Disse allora il padrone della vigna: Che devo fare? Manderò il mio unico figlio; forse di lui avranno rispetto. 14 Quando lo videro, i coltivatori discutevano fra loro dicendo: Costui è l'erede. Uccidiamolo e così l'eredità sarà nostra. 15 E lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero. Che cosa farà dunque a costoro il padrone della vigna? 16 Verrà e manderà a morte quei coltivatori, e affiderà ad altri la vigna". Ma essi, udito ciò, esclamarono: "Non sia mai!". 17 Allora egli si volse verso di loro e disse: "Che cos'è dunque ciò che è scritto:
La pietra che i costruttori hanno scartata,
è diventata testata d'angolo?
18 Chiunque cadrà su quella pietra si sfracellerà e a chi cadrà addosso, lo stritolerà". 19 Gli scribi e i sommi sacerdoti cercarono allora di mettergli addosso le mani, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito che quella parabola l'aveva detta per loro.

In questo brano il rapporto tra Dio e l’uomo ci viene presentato come un dramma senza via d’uscita: da una parte la libertà di Dio che non può non amare ed è fedele; dall’altra la schiavitù di chi non sa amare ed è infedele. Qui vediamo il punto d’arrivo della crescente bontà del Signore e della crescente cattiveria dell’uomo nei suoi confronti. L’autorità della parola di Gesù è il potere di uno che ama senza limiti anche quelli che gli resistono con ostinazione estrema. La parola della croce è il punto cruciale della nostra relazione con Dio, dove il culmine della nostra malvagità si incontra con l’abisso della sua bontà. Nella morte del Figlio di Dio l’infedeltà dell’uomo e la fedeltà di Dio si trovano faccia a faccia. E Dio vince perdendo. Il suo fallimento realizza la sua verità nella nostra storia: un amore più forte di ogni rifiuto e della stessa morte. La pietra scartata diventa testata d’angolo, il sommo male è riempito dal sommo bene: Dio dà la vita del Figlio a chi gli toglie la vita. Questa è l’eredità che Dio ci aveva riservata fin dall’eternità. L’uguaglianza con lui, che il serpente ci suggerì di rapire, è il dono che fin dall’inizio voleva donarci. La malvagità umana non vanifica il suo disegno di salvezza, anzi, ne diviene strumento inconsapevole (cf. At 4,28). Non perché Dio approvi il male, ma perché nulla può resistere al Signore di tutto e di tutti. Il suo amore lo rende rispettoso e impotente, ma non inefficace. Nella sua sapienza lascia il male, perché sa che alla fine compie il bene: "Là dove è abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20). Dio per realizzare i suoi piani desidera la libera collaborazione di chi lo ama, e si serve della libera opposizione di chi gli resiste.
La parabola dei vignaioli infedeli manifesta il mistero, quasi il travaglio, di Dio che cerca e trova il modo più bello per salvare l’uomo dal male, senza violentarne la libertà. Il suo amore di fronte al rifiuto non si ritrae; anzi si espone in un’offerta incondizionata. Così si fa conoscere per quello che è: amore senza limiti.
Mentre l’uomo dice: "Uccidiamo il Figlio e diventeremo eredi", il Figlio, da noi ucciso, ci dà realmente in eredità la sua vita. Se il peccato è rapire ciò che è donato, la salvezza è donare ciò che è rubato. Tutto, anche il male che Dio non vuole, concorre al bene che lui vuole per noi (Rm 8,28). Chi ama Dio, lo sa. Chi non lo ama non lo sa e vive ancora nelle sue paure. Ma Dio ama tutti i suoi figli e agisce con tutti allo stesso modo. Se fa del favoritismo è solo per i più svantaggiati, ossia per tutti.
Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia (Rm 11,32). Il rifiuto degli israeliti ha portato la salvezza ai pagani. Se il loro fallimento è già ricchezza per tutti, cosa sarà la loro riuscita? (Rm 11,11-12). La loro disobbedienza è momentanea, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rm 11,33).
La fedeltà del Signore rimane in eterno (Sal 117,2). La salvezza è aprirsi alla fedeltà di Dio nella nostra infedeltà.
La parabola è rivolta al popolo perché riconosca il male che per ignoranza e per delega compie attraverso i suoi capi.
La vigna è Israele; Dio è colui che l’ha dissodata, piantata e coltivata (Is 5,1-7; Sal 80,9-20). La vigna è la gioia e la vita del contadino, che vi prodiga tutte le sue cure e vive dei suoi frutti. Così l’uomo è la gioia e la vita di Dio, che lo ama e ha per lui tutte le cure: vive infatti del suo amore, perché l’amore non riamato muore di passione.
I contadini sono i capi di Israele, responsabili dell’osservanza della Legge. Questa si riassume nell’amore di Dio e del prossimo (Dt 6,5; Lv 19,18; Rm 13,9).
"Se ne andò lontano per molto tempo". Dio non è impiccione. Mantiene quella distanza che lascia all’uomo lo spazio e la responsabilità di agire.
Dio, nei momenti critici, manda i suoi profeti perché richiamino i capi e il popolo a fare frutti degni di conversione (3,8). Il profeta ha la funzione di annunciare la fedeltà di Dio e di denunciare l’infedeltà dell’uomo perché si converta.
Il destino dei profeti è tragico (6,22ss.; 9,7; 11,46-52; 13-34; Eb 11,32-38). "Il Signore mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti" (2Cr 36,14-16). È la storia antica e nuova, di sempre.
L’amore di Dio è fedele: continua senza scoraggiarsi. Non si lascia vincere dal male, ma vince il male (Rm 12,21).
Al crescere del male dell’uomo corrisponde il crescere del bene di Dio. L’amore aumenta in proporzione della non amabilità dell’altro; non conosce altra misura che il bisogno dell’altro.
Si nota un crescendo di male: il primo servo è percosso; il secondo, percosso e disprezzato; il terzo, ferito e gettato fuori. Sembra che la bontà di Dio sia una provocazione alla cattiveria: "Gli empi trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio" (Gd 4). Il bene diventa occasione di male sempre maggiore. Dio attende che il male cresca all’infinito, per dare il suo bene infinito.
Dio fa appello alla sua sapienza divina, facendo proprio il problema dell’amato. Questa angoscia di Dio, che si interroga e si sente in colpa per il male dell’uomo, è il punto più patetico della Scrittura. In Is 54,7-10 egli arriva addirittura a scusarsi con noi se ci ha abbandonato un poco, e promette che non lo farà più. Si addossa la responsabilità di quanto noi abbiamo fatto, dicendo lui la parola di pentimento che spetterebbe a noi dire.
L’uomo si è allontanato dal Padre. Questi, mandando a noi suo Figlio, assume su di sé questa lontananza. La parabola spiega l’origine della missione di Gesù: l’amore necessario del Padre per tutti i figli, che lui, il primogenito, conosce. Dio infatti ha tanto amato il mondo peccatore da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3,16; Rm 5,6ss). Invia il Figlio perché in lui vediamo il fratello e impariamo a conoscere il Padre. L’invio di Gesù è il punto di arrivo della fedeltà di Dio a Israele.
Gesù non è l’erede in concorrenza con noi: è lui la nostra eredità (Sal 15,5). Con la sua morte ci dà la vita, e ci fa eredi di Dio. La misteriosa sapienza del Padre sa trasformare il male in bene: nell’uccisione del Figlio ci fa dono del Figlio e ci dona di essere figli. Della fossa scavata dall’empio (Sal 7,16) egli fa l’abisso della sua misericordia: il male infinito diventa capacità di contenere il Bene infinito.
Quale male può nuocere all’uomo che conosce Dio, se questi ha fatto del sommo male il sommo bene? Per questo, in ogni luogo e in ogni tempo, per quanto oscuro, possiamo fare sempre eucaristia e cantare l’inno pasquale, ripetendo: "Perché eterno è il suo amore per noi" (Sal 136). S. Agostino, considerando queste meraviglie compiute da Dio, esclamava: "O Felix culpa, quae tantum meruit nobis Salvatorem": "Oh felice colpa (di Adamo) che ci ha meritato un Salvatore cosi grande!".
Il Figlio non solo è rifiutato, ma anche gettato fuori le mura e ucciso (Eb 13,12; Gv 19,17). La morte del Figlio è il punto di arrivo della storia della salvezza. Rivela il mistero di Dio: amore totale e senza riserve per l’uomo peccatore. Dio non ha più nulla da dire o da dare oltre la croce del Figlio. È la sua manifestazione piena.
Se Dio ha fatto così a se stesso, morendo per amore, che cosa farà per coloro che l’hanno ucciso?: "Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?". Nulla e nessuno potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,31-39).
Questo suo amore, che lui non può rinnegare, è la possibilità di salvezza offerta a tutti e crea la libertà per rispondervi; è l’alleanza eterna, firmata col suo sangue in croce.
I capi saranno distrutti come "capi", per essere salvati come figli, simili al Figlio. E la vigna avrà altri capi. Diventerà la Chiesa dove, invece del padrone che possiede, ci sarà il Padre che dona e fa diventare i poveri gli eredi del suo regno; invece del dominatore che esercita il potere, ci sarà il Figlio che si spoglia di tutto e serve tutti fino all’umiliazione del trono della croce; invece dello spirito di superbia che riempie di vuoto, ci sarà la sapienza dello spirito d’amore, che è umiltà e verità. C’è continuità fra Israele e la Chiesa: è la stessa vigna. Solo che la salvezza del Signore ora è aperta a tutti.
Gesù spiega come il rifiuto dei capi realizzi il mistero pasquale. Dio attua il suo disegno di salvezza proprio attraverso il male che l’uomo compie: "Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d’Israele per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse" (At 4,27-28). "Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti... è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati (At 4,10-12). Il fatto sorprendente, l’opera mirabile di Dio ai nostri occhi (Sal 118,23), è che il male stesso attua il disegno di salvezza di colui che proprio sulla croce è vittorioso. In questa parabola si fa vedere la trama dell’azione di Dio che "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1Tm 2,4).
Ci viene detto come egli salva l’infedeltà di ogni storia, d’Israele e di tutti gli altri popoli. La fedeltà di Dio entra nell’infedeltà dell’uomo e la trasforma. In questo modo si realizza ciò che è impossibile agli uomini, ma è possibile a Dio (Lc 18,27).
La pietra di inciampo richiama la profezia di Simeone (2,34). La croce del Figlio dell’uomo è uno scandalo contro cui ognuno inciampa e si sfracella (Is 8,14-15), nessuno escluso. È il giudizio di Dio, che convince il mondo di peccato per salvarlo. La pietra che frantuma richiama il piccolo sasso di Dn 2,34-44. È il regno di Dio che con la sua debolezza abbatte i potenti: sbriciola la falsa pretesa umana e riduce ognuno a quell’umiltà che è la sua verità, unica condizione di salvezza.
Gli scribi e i sommi sacerdoti realizzano quanto la parabola ha appena annunciato. Grande è l’autorità del Vangelo se i nemici sono i primi a realizzarlo! Si sottolinea che il male viene da chi domina. Il nemico ha capito che l’amore fedele di Dio in Gesù è la sua liquidazione totale e si precipita accecato al proprio destino.

20 Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all'autorità e al potere del governatore. 21 Costoro lo interrogarono: "Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. 22 E' lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?". 23 Conoscendo la loro malizia, disse: 24 "Mostratemi un denaro: di chi è l'immagine e l'iscrizione?". Risposero: "Di Cesare". 25 Ed egli disse: "Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". 26 Così non poterono coglierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

Luca non aspetta un imminente ritorno del Signore. Sa che il credente deve testimoniarlo qui e ora, facendo i conti con una storia che continua come prima. Per questo ci fa sapere quale rapporto deve avere col mondo uno che vive in esso senza appartenere ad esso. I nemici che provocano questa discussione hanno già preparato l’accusa che faranno a Gesù davanti a Pilato: "Abbiamo trovato costui che sobillava la nostra gente e impediva di dare il tributo a Cesare e diceva di essere il Cristo re" (23,2).
Luca ci tiene a scagionare Gesù dall’accusa di sobillatore politico e fa constatare la sua innocenza dai due capi politici, Pilato ed Erode (23,14-15). Ciò è importante, sia per non esporre la comunità a inutili persecuzioni, sia per non fraintendere il senso della sua missione.
L’esordio degli avversari è il più bel giudizio su Gesù. Pagare il tributo significa riconoscere il potere romano e rinunciare alle attese messianiche del popolo. Non pagarlo è prospettiva di morte sicura. Gesù non possiede denaro con l’immagine di Cesare. Essi, così scrupolosi in apparenza, in realtà ne possiedono e desiderano possederne sempre di più. La risposta che Gesù darà è già chiara nella scelta pratica: i suoi nemici hanno la moneta e l’immagine di Cesare, lui non ha la moneta, ed è l’immagine di Dio. Per Luca l’appartenenza o meno al Regno si decide nella povertà: "Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo" (14,33); "Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi" (18,22). La Bibbia proibisce di farsi immagini di Dio. L’unica immagine a sua somiglianza è l’uomo libero di servire i fratelli.
Il denaro porta le insegne della divinizzazione del potere romano. All’epoca di Gesù la moneta aveva su una faccia il mezzobusto dell’imperatore nudo e l’iscrizione: "Tiberio Cesare Augusto figlio del divino Augusto". Ogni cosa è di colui di cui porta l’immagine: il denaro con l’immagine di Cesare è di Cesare, l’uomo, immagine di Dio è di Dio. Se si sceglie il denaro si è schiavi del potere. Se si sceglie Dio si è liberi, figli di Dio e fratelli di tutti. Chi possiede la moneta con l’effigie di Cesare suggella il suo dominio su di sé e si arrende a lui. Chi non possiede la moneta porta l’effigie del suo Signore: è come lui, libero di servire per amore. "Se tu non vuoi essere debitore di Cesare, cerca di non possedere ciò che appartiene al mondo... Se non vuoi avere niente da dare al re della terra, abbandona tutti i tuoi beni e segui Cristo... A buon diritto il Signore, prima di tutto, decide che si deve dare ciò che è di Cesare: non si può infatti appartenere a Dio se non si rinunzia al mondo" (s. Ambrogio, Commento a Luca).
La signoria dell’uomo sull’uomo è principio di ogni schiavitù; quella di Dio sull’uomo è principio di libertà. Egli è l’unico Signore, e non ce ne sono altri; anche se in realtà ci sono tanti presunti signori (1Cor 8,5-6). La capacità di discernere in concreto il bene da fare qui e ora dipende dalla libertà che abbiamo dall’immagine di Cesare. Dio depone i potenti dai troni (1,52) proprio perché non usa le loro stesse armi: all’avere, al potere e all’apparire di chi domina, contrappone la povertà, il servizio e l’umiltà di chi ama.
La risposta di Gesù, in apparenza, soddisfa tutti. I romani non potevano obiettare nulla, perché ha detto: "Date a Cesare ciò che è di Cesare". I loro nemici neppure, perché dice: "Date a Dio ciò che è di Dio". Infatti se tutto è di Dio, che cosa resta da dare a Cesare, se non il rifiuto alle sue pretese di essere padrone del mondo?

27 Gli si avvicinarono poi alcuni sadducei, i quali negano che vi sia la risurrezione, e gli posero questa domanda: 28 "Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fratello. 29 C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30 Allora la prese il secondo 31 e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. 32 Da ultimo anche la donna morì. 33 Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie". 34 Gesù rispose: "I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35 ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; 36 e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37 Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38 Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui". 39 Dissero allora alcuni scribi: "Maestro, hai parlato bene". 40 E non osavano più fargli alcuna domanda.

La risurrezione non è soltanto un insegnamento di Gesù, è anche un annuncio della Scrittura (v. 37). L’affermazione: "Io sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" lascia intendere che il mondo dei defunti è un mondo di persone viventi. Il problema della continuità dell’esistenza si è affacciato già nelle ultime pagine dell’Antico Testamento, ma è diventato il messaggio centrale della predicazione cristiana.
In Ezechiele 37,13-14 la risurrezione è vista come quell’azione che ci fa riconoscere Dio: "Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò".
La fede nella risurrezione portava i giudei a pensare che i morti continuassero nella nuova vita le abitudini della vita terrena. Una tale fede viene colpita e giustamente ridicolizzata dai sadducei. Gesù non condivide il modo di pensare la risurrezione che avevano i giudei. Chi risorge dopo la morte non si sposa e non viene sposato. La vita dei risorti non è la continuazione delle forme delle vita terrena. I risorti non appartengono più a questo mondo terrestre, ma a quello futuro e nuovo. I figli di questo mondo sono soggetti al peccato e alla corruzione, i figli del mondo futuro ricevono la vita nuova e senza fine.
Il matrimonio è stabilito per il mondo presente e finisce con il mondo presente. Gli uomini del mondo futuro sono immortali, perché sono uguali agli angeli. Gli angeli nella Scrittura sono chiamati figli di Dio (cfr Gb 1, 6; 2, 1). I risorti ricevono la filiazione divina (1Gv 3,2; Rm 8,21), la gloria (Rm 8,21) e un corpo "spirituale" (1Cor 15,44).
La risurrezione è la nostra nascita piena alla condizione di figli di Dio. Gesù infatti, figlio di Davide secondo la carne, è costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti (Rm 1,3-4). Egli è il primo fra molti fratelli, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti (Rm 8,29; Col 1,18).
Dio è il Dio dei viventi, perché tutti vivono per lui. Il Dio dei viventi non si circonda di morti: "Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi" perché è il "Signore, amante della vita" (Sap 1,3; 11,26).

41 Egli poi disse loro: "Come mai dicono che il Cristo è figlio di Davide, 42 se Davide stesso nel libro dei Salmi dice:
Ha detto il Signore al mio Signore:
siedi alla mia destra,
43 finché io ponga i tuoi nemici
come sgabello ai tuoi piedi?
44 Davide dunque lo chiama Signore; perciò come può essere suo figlio?".

È l’unica volta che Gesù provoca di sua iniziativa, con una discussione di tipo rabbinico. In essa fa la domanda decisiva. Chi risponde trova risposta a tutte le sue domande su di lui. Mentre noi non osiamo più interrogarlo, egli ci interpella direttamente perché lo riconosciamo come il Signore Dio.
Gesù si rivolge a chi non osa più interrogarlo (v. 40). La fede inizia quando tace la nostra domanda su di lui e ascoltiamo la sua domanda rivolta a noi. Tutto il brano, costituito da un’unica domanda, è un invito ad accettare come nostro Salvatore e nostro Dio colui che va in croce per noi. Il popolo nuovo dei cristiani nasce dalla risposta a questa domanda.
Secondo la profezia di Natan, il Messia doveva discendere da Davide (2Sam 7,1ss); egli avrebbe realizzato il regno di Dio, la sua giustizia e la sua pace (Is 9,6). L’inizio e la fine della domanda riguardano il "come" il Cristo è figlio di Davide, se è suo Signore. In altre parole, di che tipo è il suo messianismo, se il messia è Dio stesso che si fa crocifiggere per l’uomo?
La domanda di Gesù parte dalla Scrittura, perché da lì viene la risposta. Infatti non è pensamento d’uomo, ma rivelazione di Dio. La Chiesa primitiva vede nel Sal 110 la glorificazione del Messia mediante la croce. La sua morte per i fratelli non fu il fallimento, ma la realizzazione del regno del Padre e la sua intronizzazione come Figlio (At 2,36; Fil 2,9).
Gesù, per ottenere il Regno, ha dovuto affrontare molti nemici: sono tutti gli uomini che non vogliono che lui regni su di loro. L’inimicizia degli uomini è la causa della sua morte in croce. Ma questa sarà la vittoria definitiva sulla nostra inimicizia e annullerà il chirografo della nostra condanna (Ef 2,16; Col 2,14-15). La sua risurrezione sarà il trionfo sull’ultimo nemico, la morte, e segnerà l’alba del giorno in cui consegnerà il Regno al Padre, perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,24-28).
Secondo le Scritture il Messia non è solo figlio di Davide: l’erede del suo trono sarà il Figlio stesso dell’Altissimo (1,32). Gli angeli a Betlemme lo proclamano Salvatore, Cristo e Signore (2,11). Gesù non chiede come il figlio di Davide sia il Signore. Ma ci esorta ad accettare questa rivelazione dello Spirito e ci invita a riflettere "come" il Signore è figlio di Davide, cioè Messia. La sapienza di Dio, rivelandosi sulla croce del Figlio, mette in crisi ogni messianismo mondano e ogni falsa immagine di Dio. Solo dopo aver ucciso per ignoranza l’autore della vita (At 3,12-18), sapremo chi è il Signore: colui che ci amò più di se stesso e si consegnò per noi alla morte.

45 E mentre tutto il popolo ascoltava, disse ai discepoli: 46 "Guardatevi dagli scribi che amano passeggiare in lunghe vesti e hanno piacere di esser salutati nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti; 47 divorano le case delle vedove, e in apparenza fanno lunghe preghiere. Essi riceveranno una condanna più severa".

Gli scribi insegnano la volontà di Dio, Gesù la compie. Il loro desiderio e il loro amore non è Dio, ma l’io, che si gonfia di presunzione e di prestigio. Sono avidi di protagonismo che si manifesta nell’appariscenza delle vesti, nella ricerca della riverenza da parte di tutti e nella brama dei primi posti in ambito religioso e civile. Sono gli uomini realizzati che tutti guardano con invidia: sono i maestri che vorremmo seguire per giungere dove sono giunti loro. Il loro sapere, oltre che un apparire che inganna, è anche un potere che opprime: divorano le case delle vedove. La loro religiosità si presta molto bene a fare da alibi e copertura del proprio peccato. Con la preghiera riescono a ingannare anche se stessi. Ma tutte queste cose non traggono in errore Dio, che la pensa diversamente da loro.

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CAPITOLO 21

1 Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. 2 Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli 3 e disse: "In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. 4 Tutti costoro, infatti, hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere".

Questa povera vedova ci dà la lezione fondamentale del vangelo: nelle due monete che getta nel tesoro del tempio rende a Dio ciò che è di Dio, cioè tutta la sua vita.
Nel giudizio di Gesù la povera vedova ha dato più dei ricchi, perché ha dato tutto ciò che possedeva. Ella affida a Dio la propria vita senza angustiarsi e preoccuparsi. Mette in pratica alla lettera l’insegnamento di Gesù: "Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete… Non cercate ciò che mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta" (Lc 12,22-31).
A Dio non si deve dare né tanto né poco né nulla, ma tutto ciò che siamo e abbiamo, perché "noi siamo suoi" (Sal 100,3). L’unica cosa da fare è corrispondere liberamente al suo amore totale (cf. Lc 10,27).
Questa donna è immagine della Chiesa. La Chiesa è la comunità dei piccoli, dei poveri e dei disprezzati, i quali però sono grandi davanti a Dio perché donano tutto ciò che hanno con umiltà e semplicità e pongono la loro fiducia in lui. Nella Chiesa non contano i potenti e i sapienti: la vera storia è fatta dagli umili che, come questa vedova, vivono l’amore concreto nello Spirito del Signore. Gesù prima di morire ce li addita come maestri.

5 Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, disse: 6 "Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta". 7 Gli domandarono: "Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?".
8 Rispose: "Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: "Sono io" e: "Il tempo è prossimo"; non seguiteli. 9 Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine".
10 Poi disse loro: "Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, 11 e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo. 12 Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. 13 Questo vi darà occasione di render testimonianza. 14 Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15 io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. 16 Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; 17 sarete odiati da tutti per causa del mio nome. 18 Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. 19 Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime.

Il tempio di Gerusalemme era considerato una delle sette meraviglie del mondo. Ed ecco che ad alcuni che ammirano e magnificano il tempio, Gesù dà una predizione di sventura: il tempio sarà distrutto. Dio non bada alla bellezza dei marmi e alla preziosità dei doni, ma vuole un popolo dalla cui vita traspaia che Dio abita in mezzo ad esso. Il profeta Michea aveva predetto: "Udite dunque, o principi della casa di Giacobbe, o giudici della casa d’Israele, che avete in orrore la giustizia e pervertite ogni diritto, che edificate Sion con il sangue e Gerusalemme con l’iniquità!… Per colpa vostra, Sion sarà arata come un campo, Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine e il monte del tempio un’altura boscosa" (3,9-12).
Gesù viene interrogato qui unicamente circa la fine del tempio. La distruzione di Gerusalemme non fa parte degli avvenimenti della fine del mondo. Essa è già avvenuta quando Luca scrive il suo vangelo.
L’intento primo dell’evangelista è mostrare che non stiamo andando verso "la fine", ma verso "il fine". Il dissolversi del mondo vecchio è contemporaneamente la nascita del mondo nuovo. Gesù non risponde alla nostra curiosità circa il futuro, ma vuole toglierci le ansie e gli allarmismi sulla fine del mondo, che non servono a nulla e producono unicamente del danno. Alla paura della fine del mondo e della morte Gesù offre l’alternativa di una vita che si lascia guidare dalla fiducia nel Padre, in un atteggiamento d’amore che ha già vinto la morte. Il Figlio di Dio diventato uomo ci ha già rivelato il destino dell’uomo e del mondo: il suo mistero di morte e risurrezione è la verità del presente e del futuro.
Per gli ascoltatori di Gesù la distruzione del tempio significava la fine del mondo e il ritorno del Figlio dell’uomo (cf. Mt 24,3). In realtà significa la fine di un mondo vecchio e l’inizio di un mondo nuovo.
Il credente in Cristo non deve dare ascolto a voci false e fuorvianti. Anche san Paolo ha dovuto avvertire i cristiani di Tessalonica, scrivendo loro: "Vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro ricongiungimento con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare né da pretese ispirazioni né da parole né da qualche lettera fatta passare per nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! (2Ts 2,1-3).
Verranno molti e usurperanno il nome stesso di Cristo e la predizione della sua manifestazione al mondo, dicendo: "Io sono". Con queste parole, che sono la traduzione del nome di Dio, ognuno di essi si presenterà come il salvatore mandato definitivamente da Dio per portare a compimento la storia del mondo. Gesù smaschera questi "salvatori" chiamandoli seduttori. San Paolo presenta così il seduttore: "Verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio" (2Ts 2,3-4).
La mancanza di umiltà è il primo segno della menzogna. Uno solo è il Salvatore e il Signore: colui che si è fatto ultimo di tutti e servo di tutti. Tutti i seduttori sono mossi dall’orgoglio, dall’interesse, dall’invidia, dalla cupidigia. Usano Dio, la sua parola e i suoi doni per affermare il proprio io. Nei confronti di questi figuri Gesù ci dà un avvertimento grave: "Non lasciatevi ingannare!… Non seguiteli"(v. 8).
Prima della distruzione di Gerusalemme, i cristiani sono stati perseguitati dai giudei e dall’impero romano, come ci descrive Luca negli Atti degli apostoli. Essi sono colpiti per la loro fede in Gesù: "A causa del mio nome" (v. 12). Essere cristiani è un reato. Aderendo a Gesù si rischia di passare nel numero dei malfattori.
Ma l’evangelista invita a tener presenti anche i risvolti positivi delle persecuzioni. Esse offrono occasioni di testimoniare il Signore con la vita e le parole. L’azione giudiziaria serve alla predicazione, il carcere, all’attività missionaria. Il vangelo di Gesù è annunziato attraverso le sofferenze dei martiri: il loro esempio è più eloquente dell’annuncio dei predicatori.
I cristiani di Gerusalemme, costretti a fuggire dalla città, portano il vangelo nelle campagne della Giudea e della Samaria (cf. At 8,1-4) e giungono fino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia (cf. At 11,19; 15,3). Pietro, Giovanni, Stefano sono condotti davanti al sinedrio, Paolo davanti ai governatori romani, e tutti recano il messaggio di Cristo là dove altrimenti non sarebbe mai arrivato.
Paolo scrive ai Filippesi che la sua carcerazione è occasione per annunciare il vangelo: "Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio e ovunque si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno" (Fil 1,12-14).
La fedeltà a Cristo mette i discepoli in contrasto con tutti coloro che non accolgono la fede cristiana. Se Gesù e la sua parola sono rifiutati, anche i cristiani saranno rifiutati. Gesù ha detto: "Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me" (Gv 15,18). Lo storico romano Tacito riassume così il suo giudizio sui cristiani: "Odiosi all’intero genere umano".
Il cristiano è colui che per vocazione deve resistere fino alla fine con la pazienza, che non è rassegnazione, ma resistenza costante e inflessibile. Nel libro dell’Apocalisse leggiamo: "Colui che deve andare in prigionia, andrà in prigionia; colui che deve essere ucciso di spada, di spada sia ucciso. In questo sta la perseveranza e la fede dei santi" (13,10). Per questa via il fedele giungerà alla vita eterna.
La pazienza è la caratteristica di Gesù che si fa carico del male. Anche il discepolo viene associato al suo mistero di morte e risurrezione: perdendo la vita, la salva (cf. Lc 9,24). Nel martirio il cristiano acquista la propria identità con Gesù, il Figlio morto e risorto.

20 Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. 21 Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; 22 saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia.
23 Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. 24 Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti.
25 Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26 mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
27 Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
28 Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina".

In casi di assedio, la città era il luogo di difesa più sicuro. Ora no, perché Gerusalemme sarà distrutta. In quei giorni si verifica la distruzione predetta dai profeti (1Re 9,6ss; Mi 3,12; Dn 9,36). La distruzione di Gerusalemme è una vendetta dei romani, non di Dio; ma insieme rivela anche la tragica realtà di chi rifiuta la sua visita.
Gesù ha compassione e piange non per sé, ma per la città che uccidendo lui fa del male a se stessa (cf. Lc 13,34; 19,42; 23,28). Questo "ahimè" di Gesù è il grido supremo della sua misericordia.
Nella guerra del 66-70 d.C., secondo un calcolo un po’ gonfiato di Giuseppe Flavio, furono uccisi 1.100.000 giudei e furono fatti schiavi 97.000 sopravvissuti.
La fine di Gerusalemme è l’inizio del tempo dei pagani. L’invito al Regno, rifiutato dagli ebrei, passa ora a tutti i popoli del mondo. Il rifiuto dei giudei, invece di bloccare la salvezza, la allarga ai pagani (At 13,46). Quando essa sarà giunta a tutti i popoli della terra, anche Gerusalemme riconoscerà il suo Signore (Rm 11,25-26).
I versetti 25-28 di questo brano non sono descrizioni di cataclismi cosmici, ma modi di dire immaginosi, iperbolici, irreali a cui gli autori della Bibbia hanno fatto ricorso per annunciare le grandi novità di salvezza e di liberazione portate dal Messia. La Bibbia abbonda di tali descrizioni per presentare avvenimenti storici come la caduta di un re, una sconfitta militare o un qualsiasi rivolgimento nazionale (cf. Es 19,18-19; Is 14,12; Ger 4,23-28; Gl 3,1-5; ecc.).
Prendere alla lettera questi annunci non significa solo fraintendere, ma addirittura stravolgere il loro significato. Per es. san Pietro presenta la Pentecoste come giorno in cui si avverano queste parole del profeta Gioele: "Farò prodigi in alto nel cielo e segni in basso sulla terra, sangue, fuoco e nuvole di fumo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue, prima che venga il giorno del Signore, giorno grande e splendido. Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato" (At 2,19-21). Ma non si vide nulla di simile in quel giorno. Ci furono grandi avvenimenti, conversioni e rivolgimenti nelle menti e nelle coscienze: questo sì. Il giorno di Pentecoste si concluse così: "Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone" (At 2,41).
Questi modi di dire, dunque, non annunciano una rivoluzione nel mondo fisico, ma un grande evento nella storia della salvezza. Anche nel nostro linguaggio, quando succede qualcosa di imprevisto o di grave, si dice: "Mi sono sentito cadere il mondo addosso!". Ma, per fortuna il mondo non è ancora caduto addosso a nessuno: l’espressione vuol dire altro.
Le potenze dei cieli che saranno sconvolte sono le potenze del nemico, che Gesù vide cadere dal cielo come folgore durante la predicazione dei discepoli (Lc 10,18-19). Se l’uomo ha investito tutto nel mondo presente vede con terrore il crollo di tutti i suoi beni e di tutte le sue attese. Se ha investito tutto nei beni del cielo vede giungere la sua felicità eterna.
Il Figlio dell’uomo che viene è il Signore che mi ha amato e ha dato se stesso per me (cf. Gal 2, 20) e che mi ha amato quando ancora ero peccatore (cf. Rm 5,6ss). Il suo giudizio sarà il perdono ai crocifissori (cf. Lc 23,34) e l’offerta del paradiso al malfattore (cf. Lc 23,43). Il nostro giudice infatti è colui che ha detto di amare i nemici, di non giudicare, di non condannare, di perdonare sempre. È misericordioso come il Padre suo (cf. Lc 6,27-38). La venuta di Cristo si identifica con la nostra liberazione e la nostra salvezza.

29 E disse loro una parabola: "Guardate il fico e tutte le piante; 30 quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l’estate è vicina. 31 Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. 32 In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. 33 Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

Quando il Signore tornerà alla fine dei tempi non ci sarà bisogno di messaggeri che annuncino l’approssimarsi del regno di Dio, perché ognuno se ne accorgerà da sé per i fatti che potrà osservare. Nessun uomo, che abbia senno, ha bisogno di essere aiutato a capire che l’estate è vicina quando germogliano gli alberi.
Il regno di Dio verrà a noi con la stessa certezza con cui a suo tempo viene l’estate. Gesù non ci comunica una scadenza esatta perché "nessuno conosce il giorno e l’ora, se non il Padre" (Mt 24,36; Mc 13,32).
"La parola di Dio dura sempre" (Is 40,8). Dobbiamo fondare su di essa la nostra vita. Questa parola ci dà la certezza che il Signore viene. Viene come è venuto allora; e allo stesso modo verrà alla fine. "Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre. Non lasciatevi sviare da dottrine varie e a voi estranee" (Eb 13,8-9).

34 State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; 35 come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. 36 Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo".

La nostra vita non deve essere dominata dal terrore del futuro né stordita dalle sollecitudini esagerate per i beni della terra, diversamente non sappiamo più vedere ciò che ci attende. Chi si interessa solo della vita terrena e dei suoi piaceri, non ha tempo né volontà per pensare al giorno finale.
Alla sobrietà e all’attenzione bisogna aggiungere la vigilanza e la preghiera. San Paolo ci esorta: "È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri" (Rm 13,11-14).
La vigilanza dev’essere nutrita da una preghiera costante per non cadere nella tentazione finale di perdere la fede nella fedeltà del Signore. San Paolo scrive: "Voi fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri… Dio non ci ha destinati alla sua collera, ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi" (1Ts 5,4-10).
La vigilanza cristiana è l’esatto contrario dell’oppio dei popoli, è il contrario del cuore appesantito dalle crapule. La vigilanza e la preghiera sono il nostro alzare il capo davanti al Signore che viene, non come giudice, ma come fratello.
È certo che il Signore verrà. Occorrono serietà e severità di vita, vigilanza e pietà per vivere coerentemente la vocazione cristiana e trovarsi pronti all’incontro con lui.
Il tempio e il monte degli Olivi sono ormai i due poli della vita di Gesù. Dalla notte di Gesù scaturisce l’aurora della Chiesa (cf. Lc 6,12-13). Il popolo si alza presto per andare ad ascoltare Gesù nel tempio. Gesù è presentato come la Sapienza: "La Sapienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l’ama e trovata da chiunque la cerca. Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano. Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà (Sap 6,12-14).

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CAPITOLO 22

1 Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua, 2 e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano come toglierlo di mezzo, poiché temevano il popolo. 3 Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici. 4 Ed egli andò a discutere con i sommi sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo nelle loro mani. 5 Essi si rallegrarono e si accordarono di dargli del denaro. 6 Egli fu d'accordo e cercava l'occasione propizia per consegnarlo loro di nascosto dalla folla.

Comincia il racconto della Passione. Il lungo cammino di Dio in cerca dell’uomo volge al termine. Iniziato tra gli alberi del giardino (Gen 3,8ss), si conclude sull’albero della croce. Lì il Figlio di Dio trova ogni uomo fuggitivo, gli si fa vicino e gli offre la sua solidarietà. Lì finalmente vediamo chi è Dio per noi e chi siamo noi per lui. Paolo, profondo conoscitore del mistero di Dio, ha scritto: "Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso" (1Cor 2,2). Il Dio che nessuno ha mai visto (Gv 1,18) si rivela a noi in Gesù. La sua carne crocifissa è la manifestazione totale e definitiva di Dio come amore infinito per l’uomo.
Il racconto della Passione è il nucleo attorno al quale è cresciuto e si è strutturato il resto del Vangelo. Il resto della Bibbia ci rivela Dio come di spalle: ci dice ciò che ha fatto per noi. Qui invece lo vediamo faccia a faccia, in ciò che si è fatto per noi. Dio non ha più veli: "Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che ‘Io sono’" (Gv 8,28), cioè conoscerete Dio. La croce è la distanza tra Dio e l’idolo, la distanza che Dio si è preso dalla cattiva immagine che di lui ci aveva fornito il serpente. Solo così veniamo guariti dalla paura verso di lui, paura che è l’origine di ogni male, e conosciamo la verità che ci fa liberi (cf. Gv 8,32). Sulla croce il Giudice è giudicato, l’Innocente condannato, il Giusto giustiziato, l’Autore della vita ucciso, il Re dei re intronizzato sul patibolo dello schiavo. Sulla croce la Parola eterna di Dio tace. Ma il suo silenzio grida l’esistenza stessa di Dio, amore infinito che si ritrova perdendosi e pervade ormai tutto l’universo, riempiendo della sua luce ogni tenebra.

7 Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. 8 Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: "Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare". 9 Gli chiesero: "Dove vuoi che la prepariamo?". 10 Ed egli rispose: "Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà 11 e direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov'è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? 12 Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata; là preparate". 13 Essi andarono e trovarono tutto come aveva loro detto e prepararono la Pasqua.

Prima dell’ultima cena, Luca nomina sei volte la pasqua ebraica. L’eucaristia è la settima definitiva pasqua, in cui tutto è compiuto e la creazione raggiunge in Dio il suo riposo. La nostra vita di peccatori è la sua morte. La sua morte di giusto è la nostra vita. Mangiare la pasqua con lui significa essere associati a lui che porta il peso della debolezza del mondo, testimone dell’amore del Padre verso i fratelli. In noi si compie la sua stessa passione e continua il disegno di Dio per la salvezza del mondo (Col 1,24; At 4,28; 1Cor 4,9-14).
Dio aveva sostituito il figlio di Abramo con l’agnello. Ora sostituisce l’agnello con il suo Figlio. È lui l’agnello immolato prima della fondazione del mondo (1Pt 1,20; Ap 13,8). Il Signore ha già previsto e predisposto tutto perché desidera mangiare con noi. Il suo desiderio di stare con noi è infinitamente più grande del nostro di stare con lui (v. 15).
Il v. 11 il solo passo di Luca in cui Gesù designa se stesso come Maestro. La sala superiore è un luogo posto in alto, fuori dalle comuni occupazioni quotidiane. È il luogo della comunione con Dio e della preghiera. In questa stanza superiore si svolgono i misteri della fede: il dono del Pane e dello Spirito, l’esperienza di preghiera e le apparizioni del Risorto, la comunione con lui e tra i fratelli. In At 1,13-14 si dice che lì dimorano gli Undici con Maria, perseveranti nella preghiera. È il luogo da cui parte e a cui conduce la missione. Evidentemente questa stanza superiore non è solo il luogo materiale in cui si svolgono gli ultimi avvenimenti di Gesù e i primi avvenimenti della Chiesa. È la Chiesa stessa come luogo di comunione con lui e tra di noi, dove mangiamo il suo pane e beviamo il suo Spirito.
Pietro e Giovanni andarono e trovarono come aveva detto loro Gesù. Chi ascolta la parola del Maestro trova quanto lui dice. Egli è la verità.

14 Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, 15 e disse: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16 poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio". 17 E preso un calice, rese grazie e disse: "Prendetelo e distribuitelo tra voi, 18 poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio".
19 Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me". 20 Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi".

Questo brano ci presenta l’ultima cena e l’istituzione dell’Eucaristia. È il banchetto in cui ci nutriamo di Cristo, facciamo memoria della sua passione, ci abbeveriamo del suo Spirito e riceviamo il pegno della gloria futura. Questo racconto è il nucleo genetico di tutto il vangelo: "Fate questo in memoria di me" (v. 19).
I fratelli, riuniti a mensa, celebrano la memoria del Signore morto e risorto, asceso al cielo e presente in mezzo a loro; mangiano la sua Pasqua nell’attesa del suo ritorno. Nell’Eucaristia si coglie il significato di tutto quanto Gesù ha detto e fatto, e si vede il compimento della Legge, dei Profeti e dei Salmi. In essa Dio ci dà il dono dei doni: ci dona se stesso. Qui il suo amore per noi raggiunge il suo fine: si unisce a noi e si fa nostra vita. È il punto di arrivo di tutta la creazione che si congiunge al suo Creatore. Qui vediamo e gustiamo l’umiltà di Dio che, per essere desiderato da colui che egli ama, si fa suo bisogno fondamentale: pane. E siccome uno diventa ciò che mangia, mangiamo il Figlio e diventiamo figli. Veramente l’eucaristia ci divinizza.
Facendo memoria di questo grande dono, viviamo sempre in rendimento di grazie al Padre e attingiamo la forza per vivere da fratelli, in umiltà e servizio reciproco. Questo è il pane che ci dà la forza per il lungo viaggio che ci porterà al monte di Dio dove lo contempleremo faccia a faccia. L’eucaristia ci introduce nell’eterno "sì" di compiacenza e d’amore tra Padre e Figlio. E questa è la vita eterna.
In tutte le religioni c’è il sacrificio dell’uomo per Dio. Nel cristianesimo invece sta al centro il sacrificio di Dio per l’uomo. E di questo facciamo memoria e ringraziamento nell’eucaristia.
È l’ora in cui si mangia la Pasqua, al tramonto del sole. Ma questa Pasqua è il compimento di tutto il disegno di Dio: egli si consegna all’uomo come sua vita, e la creatura vive del suo creatore. L’ora del dono di Dio coincide con l’ora del male del mondo (v. 53). Al colmo del male dell’uomo corrisponde il massimo dell’amore di Dio.
Gli apostoli sono quelli che stanno con lui. Non perché sono bravi, ma perché Gesù desidera stare con loro, suoi fratelli perduti. Stare con il Figlio è la nostra vita, la pienezza del dono pasquale che viviamo nell’Eucaristia. Gran parte del vangelo di Luca presenta Gesù a tavola con i peccatori.
Il suo grande desiderio è il traboccare del suo grande amore. "La sua brama è verso di me" (Ct 7,11). Nell’Eucaristia si sazia il desiderio di Cristo perché il suo amore è accolto e si fa cibo del nostro desiderio di lui: "Chi mangia me, vivrà per me" (Gv 6,57). Nel corpo di Gesù, donato per noi, si consuma l’amore di Dio per l’uomo. Dio riposa nell’uomo e l’uomo in Dio, in comunione di vita e d’amore.
Gesù ha desiderato ardentemente mangiare la sua Pasqua con i Dodici, dei quali uno lo tradisce, uno lo rinnega e dieci fuggono abbandonandolo solo nel momento del bisogno. Il suo amore dovrà portare il male di coloro che ama.
È l’ultima sua cena pasquale ebraica. Il segno cessa e cede il posto alla realtà: la cena del Signore. All’agnello offerto dall’uomo a Dio succede l’Agnello offerto da Dio all’uomo, il Figlio stesso che dà la sua vita per la salvezza del mondo.
La Pasqua si compie nel regno di Dio. L’eucaristia è solo un anticipo della gloria futura, quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). La distanza tra Eucaristia e Regno è il motivo della missione al mondo, perché tutti i fratelli vivano del pane dei figli.
Gesù risorto desidera sempre spezzare il pane con i suoi discepoli. Lo fa ogni volta che i suoi lo invitano a restare con loro, come i discepoli di Emmaus (24,29).
Il calice della benedizione offerto da Gesù, che passa tra i commensali dopo la consumazione dell’agnello, è il terzo nella cena pasquale. Mentre i discepoli bevono l’ultimo calice della pasqua antica, Gesù dà loro appuntamento nel Regno dove insieme berranno il calice della gioia eterna.
Il prendere il pane da parte di Gesù non è una rapina, come quella di Adamo, ma rendimento di grazie (eucaristia) al Padre, fonte della sua vita. Questa sua vita ricevuta in dono dal Padre egli la dona ai fratelli perché ne vivano. Il vero e definitivo agnello pasquale, che Dio dona all’uomo, è suo Figlio. Tutta la vita di Gesù è rivelazione di Dio. Il suo corpo dato per noi ne è il vertice: Dio si manifesta come puro dono di sé, amore assoluto.
Fare memoria di lui significa vivere oggi del suo dono, fare del suo amore crocifisso la nostra vita. Questo pane è il mistero della fede: il pane del Regno, il dono del Figlio che ci introduce nella vita del Padre.
La gioia del vino, frutto della terra promessa, è sostituita dal sangue del Figlio. La nuova alleanza subentra all’antica. Ci dissetiamo con ebbrezza alla fonte della vita.
L’antica alleanza è stata sempre rotta dalla nostra infedeltà. Ma la maledizione che si sarebbe dovuta abbattere su di noi (Ger 34,18) è ricaduta su di lui. Qualunque cosa gli facciamo, il suo amore resta fedele in eterno. Finalmente conosciamo chi è Dio per noi: amore assoluto e senza condizioni. E conosciamo anche chi siamo noi per lui: figli amati e perdonati in eterno nel Figlio. Da qui nasce la nuova legge, scritta nel cuore. Questo amore infatti ci dà la libertà di corrispondervi; ci abilita ad amare come lui ci ha amati.
Chi celebra l’Eucaristia si sente domandare come al lebbroso guarito: "E gli altri nove dove sono?" (Lc 17,17). La missione scaturisce dall’amore di Cristo, che ci spinge verso tutti (2Cor 5,14), fino agli estremi confini della terra. L’Eucaristia, vertice e principio della vita cristiana, ci apre sempre agli altri.

21 "Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. 22 Il Figlio dell'uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell'uomo dal quale è tradito!". 23 Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.
24 Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. 25 Egli disse: "I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. 26 Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. 27 Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.
28 Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; 29 e io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, 30 perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.

I vv. 21-38 contengono le parole di addio di Gesù, il suo testamento. La Chiesa, riunita attorno alla mensa, esamina se stessa. L’Eucaristia è il giudizio di Dio sul mondo, un giudizio di salvezza, che evidenzia il peccato da cui ci libera. Il dono del suo amore è come lo specchio della verità, nel quale vediamo il nostro egoismo. Il Signore si dona a una comunità che lo tradisce, non capisce, fugge e lo rinnega.
Dividiamo il discorso in due parti (vv.21-30 e 31-37). In questa prima parte il tono è dato dal tradimento di Giuda (vv. 21-23), dove si consuma il mistero di iniquità dell’uomo. I vv. 24-27 mostrano che tutti i discepoli hanno la loro quota di partecipazione a questo male, per riscattarci dal quale Cristo si fa servo e muore. Mentre lo spirito del demonio ci fa cercare l’autoaffermazione e il dominio, lo Spirito di Gesù ci fa conoscere il vero modo di realizzarci a immagine di Dio. L’Eucaristia denuncia il male dell’uomo e dona il bene di Dio. Tutta la Chiesa, rappresentata dai Dodici, mangia e beve il pane e il vino del Regno, che l’associano allo stesso destino di passione e di gloria del suo Signore (vv. 28-30).
Dio si consegna a chi lo prende e lo consegna ai suoi nemici; si dona a chi lo ruba e lo butta via. Il tradimento di Giuda non è un gesto mostruoso e unico. Giuda è nostro fratello. Compie quel male che tutti noi compiamo, si comporta secondo il buon senso che porta a cercare il proprio interesse e la propria affermazione. È Gesù che l’ha deluso, perché segue un’altra via. Il vero peccato di Giuda, più che quello di tradire Gesù, fu quello di pensare: "Ho sbagliato, quindi pago! ", e di non accettare il suo amore gratuito. La salvezza è accogliere il fatto che lui mi ama gratis e muore per me peccatore. La nostra libertà non è tanto quella di non fare il male, ma quella di non rifiutare il perdono.
Il Signore si dona a una comunità sempre aperta al tradimento. Sulla stessa tavola di salvezza c’è sempre il nostro peccato e il suo perdono.
Il male dell’uomo non distrugge il bene di Dio, ma lo realizza in un disegno più ampio e meraviglioso (At 2,23; 3,18; 4,28...). Qui non si intende dire che Giuda abbia dovuto recitare un copione già fissato, in cui gli tocca la parte più brutta. L’uomo fa il male liberamente, o meglio, perché schiavo dell’ignoranza! Ma Dio l’ha già previsto; e, nel suo amore, ha fissato il suo piano di salvezza: il Figlio dell’uomo se ne andrà portando su di sé il male dei fratelli.
"Ahimè per quell’uomo" non è una minaccia. Gesù ama Giuda. Se l’amore si misura dal bisogno, Giuda in questo momento è amato più di tutti i discepoli. Gesù semplicemente gli fa prendere coscienza del male che egli si sta facendo, e per il quale lui soffre. Dice "ahimè" perché il male dell’amato ricade su chi ama. La croce di Gesù è l’"ahimè" di Dio per il male del mondo. Esso è così grave, da distruggere il senso della creazione: è infatti meglio non essere nati (Mc 14,2 l; Mt 26,24). Gesù è morto per il peccato di Giuda, e la sua morte è il prezzo di ogni peccato. Quando diciamo che siamo salvati significa che veramente eravamo perduti. Giuda, come ogni uomo, più che autore è attore del male. Vittima del male per ignoranza, ne diventa pure suo veicolo (Lc 23,34; At 3,17).
Ognuno cerca nell’altro il colpevole. La salvezza non viene dal denunciare il peccato altrui (Gen 3), ma dal riconoscere il proprio. Giusto non è colui che si giustifica, ma chi riconoscendosi ingiusto accetta di essere giustificato per grazia. La lite che segue mostra come tutti i discepoli hanno il medesimo male dei capi di questo mondo e di Giuda stesso: la ricerca del proprio io al di sopra di tutto e di tutti.
Questa contesa sulla preminenza dei discepoli si svolge nel quadro dell’ultima cena, alla presenza di Gesù che se ne va alla morte per tutti.
L’ordine delle precedenze nella comunità dei discepoli di Gesù ha tutt’altro significato che tra i pagani infedeli. Tra questi, chi ha il potere di sottomettere gli altri, li sottomette allo scopo di essere l’unico a detenere l’autorità e così dominare incontrastato. È un’ironia che "dominatori" di questo genere si facciano per giunta chiamare "benefattori".
L’imperatore romano fin dal tempo di Augusto portava il titolo di "salvatore e benefattore del mondo". La brama di dominare si presenta così sotto la maschera dell’amicizia e della beneficenza. Mentre in realtà, la regalità del mondo è dominio che toglie la libertà e rende schiavi.
Anche nella comunità cristiana esiste, per volontà di Cristo, una "gerarchia". Ma chi ha l’autorità nella comunità, deve sapere che non è il padrone di essa, ma il servo. Ogni potere, in Cristo, è un servizio.
La bramosia di vincere, il desiderio di prevalere sull’altro è all’origine di ogni guerra e lotta tra gli uomini.
La lunga catechesi che dura dall’inizio del vangelo non sembra aver cambiato ancora molto il cuore dei discepoli! Davanti a Gesù che si umilia fino alla morte di croce, si evidenzia il peccato del mondo: il protagonismo. Tutte le divisioni tra gli uomini e nella Chiesa, anche se camuffate in infiniti modi, nascono da quest’unica fonte: l’autoaffermazione. È l’egoismo, frutto mortale del veleno del serpente. E Gesù si dona proprio a questi discepoli. Il pane della sua umiltà e del suo nascondimento è antidoto al lievito dei farisei.
Tutte le lotte tra gli uomini sono sempre per questo "sembrare più grande". L’idolatria è la ricerca di questa apparenza, propria di chi ignora la sua verità e quella di Dio. Il protagonismo è la malattia infantile dell’uomo che non si sente amato e non sa amare. È la regola di azione per il mondo e il principio di ogni male.
Lo Spirito di Cristo, rivelato e donato nell’Eucaristia, è amore che si attua nella povertà, nel servizio e nell’umiltà. È il contrario di quello del mondo.
San Paolo scrive: "Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo" (Fil 2,3-5).
"Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (v. 27). È la più bella definizione che Gesù dà di se stesso, la vera rivelazione della sua divinità. Dio è amore. E l’amore è servizio.
La presenza di Gesù tra noi sarà sempre quella del servo. Il punto fondamentale della fede è accettare che lui ci serva e ci lavi i piedi. Il cristiano è colui che riconosce come sorgente della sua vita il servizio gratuito del Signore: solo così può avere parte con lui e amare come lui ha amato.
Chi condivide con Cristo la fatica, condividerà anche la gloria. In uno degli inni più antichi che i cristiani cantavano a Cristo, troviamo queste parole: "Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso" (2Tim 2,11-13).
L’Eucaristia, unendoci a lui, ci apre al futuro definitivo: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e sederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele" (v. 30). Sederemo con lui da re, con il suo stesso potere di giudicare, cioè di salvare il mondo. Lui infatti è il giudice che non è venuto per giudicare, ma per salvare tutti nel suo sangue.

31 Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; 32 ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli". 33 E Pietro gli disse: "Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte". 34 Gli rispose: "Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi".
35 Poi disse: "Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?". Risposero: "Nulla". 36 Ed egli soggiunse: "Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. 37 Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine". 38 Ed essi dissero: "Signore, ecco qui due spade". Ma egli rispose "Basta!".

È l’ultima parte delle parole di addio di Gesù, del suo testamento. Egli prevede la situazione dei suoi nell’ora della prova. Conosce la difficoltà di Pietro (vv. 31-34) e di tutti (vv.35-38) quando lui, come sta scritto, condividerà la sorte dei malfattori.
"Percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse" (Mc 14,27). Luca pone in risalto la posizione di Pietro: satana lo vaglia come si vaglia il grano. Ma Gesù ha già pregato perché nella sua caduta, invece di disperdersi, speri in lui. È bene che Pietro fallisca. La frana dei suoi buoni desideri lascerà emergere dalla rovina la roccia salda che non crolla: la fedeltà del suo Signore. Nei suoi buoni propositi è nascosto un male sottile dal quale deve essere liberato e salvato. Si tratta dell’orgoglio e dell’autosufficienza. È il peccato più grave, addirittura l’essenza di ogni peccato.
Pietro passerà dalla propria giustizia e dal proprio amore per il Signore alla giustificazione e all’amore del Signore per lui. Non sarà lui a morire per Cristo, ma Cristo a morire per lui.
La salvezza non è il mio amore per Dio, ma l’amore di Dio per me. In questa circostanza Pietro compie il difficile passaggio dalla Legge al Vangelo, dall’Antico al Nuovo Testamento, per giungere alla conoscenza di Gesù come suo Signore, che l’ha amato e ha dato se stesso per lui (Fil 3,8; Gal 2,20). È il nocciolo della fede cristiana.
Il discepolo non è più bravo degli altri. È peccatore come tutti. Ma è contento perché sa che il Signore lo ama: ha riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per lui (1Gv 4,16). Questo è il vero principio della vita nuova.
"Il giusto vivrà di fede" (Rm 1,17; Ab 2,4) significa che il giusto vive della fedeltà del Signore verso di lui: nulla può separarlo dall’amore che Dio ha per lui in Cristo Gesù (Rm 8,39). Questa fede è incrollabile perché poggia non sulla fedeltà dell’uomo a Dio, ma sulla fedeltà di Dio all’uomo. Neanche il peccato e la morte sottraggono l’uomo a Dio, perché lui si è fatto peccato e morte per noi, per essere nostra giustificazione e vita.
Pietro, dopo aver sperimentato e capito tutte queste cose, avrà la funzione di confermare i suoi fratelli in questa fede nella fedeltà di Dio, che è il fondamento della Chiesa.
Il v. 31 è la vera chiamata di Pietro. In Luca è la prima volta che Gesù lo chiama per nome e per ben due volte. È una vocazione solenne, come quella di Abramo, di Mosè, di Samuele, di Marta e di Saulo.
Satana, come entrò in Giuda, così cerca di entrare in tutti i discepoli. La sua azione, della quale fa richiesta a Dio (Gb 1,6), non sarà che un’azione di vaglio. Gli è permesso di agire, ma Dio se ne serve per il bene. Separerà il frumento dalla pula. Purificherà la fede dei discepoli, conducendoli a quella infedeltà che offrirà loro la possibilità di una fede più pura: accettare di vivere solo della fedeltà del Signore.
In forza della sua preghiera Gesù non garantisce a Pietro l’impeccabilità, ma l’indefettibilità nella fede. Questa consiste nel fondare la propria vita nella sua misericordia. Pietro sbaglierà, ma si convertirà. La sua esperienza di infedeltà gli farà conoscere meglio se stesso e il suo Signore. Così sarà in grado di rendere incrollabile la fede dei suoi fratelli che attraverseranno le sue medesime difficoltà. La sua funzione, dirà lui stesso, non è quella di spadroneggiare sul gregge a lui affidato, ma di essere modello di umiltà e di confidenza nel Signore (1Pt 5,1ss).
Pietro è un uomo dai grandi desideri. Ma confida nella carne. E la sua carne è debole. Non si può porre la fiducia in essa, ma in colui che "ha il potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare (Ef 3,20). Egli, nella nostra debolezza, manifesta la sua forza (2Cor 12,9).
Ora Gesù chiama Simone col suo nome nuovo, che significa "roccia", attributo di Dio nella sua sicurezza e fedeltà. Lo chiama così proprio mentre gli predice la sua sicura infedeltà.
Colui che deve confermare nella fede i fratelli, prima rinnegherà tre volte di conoscere Gesù. Ed è vero che egli non lo conosceva, perché non lo conosceva per quello che era veramente. Solo dopo lo conoscerà come "Gesù", che significa "Dio salva". La sua esperienza è normativa e indispensabile per giungere alla fede nel Salvatore.
Gesù ricorda ai discepoli le due volte che li inviò a predicare in povertà (9,1ss; 10,1ss). Tutto andò bene. L’esperienza passata deve essere motivo di fiducia in questo momento decisivo della passione.
Gesù è sempre stato contro il possesso e la violenza. Quindi le parole riguardanti la borsa e la spada sono da intendere come delle immagini che cercano di illustrare la grandezza della necessità che incombe. Perciò sono un appello alla fede dei discepoli, anche in vista di un futuro difficile. Gesù non esorta alla lotta armata, ma ad avere come unica protezione la fede nella parola di Dio. Essa è infatti la spada dello Spirito (Ef 6,17; Eb 4,12) che esce dalla bocca del Cristo (Ap 1,6). È l’arma d’attacco: la verità che vince la menzogna, la fiducia che dissolve la paura.
"Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori". È la sintesi delle Scritture che si compiono in Gesù. Con la citazione di Is 53,12, Gesù dice il perché della sua morte. Egli è il Servo sofferente di Iahvè, il giusto che porta su di sé l’iniquità del popolo e giustifica le moltitudini. Queste parole sono molto importanti per Luca. Sono la spiegazione anticipata della croce, che il Risorto continuerà dopo Pasqua. Questa breve citazione è il nocciolo di tutta la Scrittura che in Gesù trova compimento: si è fatto peccato e maledizione per salvare noi dalla maledizione del peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21). Queste parole chiariscono il significato salvifico della sua morte: ne sono l’interpretazione teologica autentica, fatta da lui stesso.
Ciò che riguardava Gesù è l’essere nelle cose del Padre suo (2,49). Ora si compie nella sua consegna totale a lui (23,46). La sua missione è ormai prossima alla conclusione.
I discepoli non hanno capito di che spada c’è bisogno. Invece della spada della Parola, hanno in mano due spade inutili e dannose. Gesù tronca il discorso. Con la sua agonia, nell’orto degli Olivi, mostrerà a tutti qual è la spada necessaria: l’abbandono fiducioso alla volontà del Padre.

39 Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. 40 Giunto sul luogo, disse loro: "Pregate, per non entrare in tentazione". 41 Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: 42 "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà". 43 Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. 44 In preda all'angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. 45 Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. 46 E disse loro: "Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione".

Nella trasfigurazione del Tabor, il Padre chiamò Gesù: "Figlio"; nella trasfigurazione del giardino degli Ulivi il Figlio lo chiama: "Padre". Là l’umanità lasciò trasparire la bellezza della divinità; qui la divinità riveste l’orrore della nostra disumanità. Gesù affronta la morte in tutta la sua drammaticità, così come ognuno di noi la sperimenta dopo il peccato: fine della vita, abbandono di ogni bene e di Dio stesso.
Da questa maledizione, in cui vive l’angoscia senza limiti dell’annientamento, Gesù si rimette con fiducia filiale nelle braccia del Padre. Ormai dalla perdizione assoluta si eleva a lui la voce del Figlio. In questa voce ogni uomo, che non può fuggire oltre, invoca il Padre e ritorna a casa. Dio entra in tutte le notti dell’uomo. Noi, con i discepoli, siamo invitati a tenere gli occhi aperti sul dolore di Dio per il mondo: "Restate qui e vegliate" (Mc 14,34). Da qui impariamo a conoscere chi è Dio.
La preghiera, di cui Gesù ci dà l’esempio, è la forza per vivere la morte, anche violenta, come segno di obbedienza al Padre della vita.
Il centro del brano è la lotta per passare dalla "mia" alla "tua" volontà. È la vera guarigione dal male originario dell’uomo, il ritorno di Adamo al suo rapporto filiale con il Padre. Gesù, fattosi per noi peccato (2Cor 5,21), vive in prima persona la paura del peccatore: consegnarsi a Dio. La vera lotta è con lui, che per il peccato consideriamo nemico. Per questo la nostra vittoria è la resa a lui. Il Figlio è colui che compie la volontà del Padre. Per questo "nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà". Non fu però esaudito, nel senso che fu esentato dalla morte; fu invece esaudito con la risurrezione, solo dopo aver accettato con obbedienza filiale la morte. Infatti "pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,7ss).
La paura di essere ucciso non fa cambiare itinerario a Gesù. La sua vita non è dominata dalla paura della morte (12,4), ma dalla fiducia nel Padre, anche nella prova estrema.
Il monte degli Ulivi insieme al tempio costituiscono lo scenario degli ultimi giorni di Gesù. Al Getsemani, luogo del torchio, l’umanità di Gesù, spremuta, lascerà apparire la sua essenza: è il Figlio di Dio, che si abbandona al Padre e ai fratelli.
I discepoli sono chiamati a seguirlo sino alla fine: "Voi siete infatti quelli che sono rimasti con me nelle mie tentazioni" (v. 28). La tentazione di cui parla è quella definitiva: perdere la fede. Gesù indica loro l’unica forza per non soccombere: la preghiera.
Nel momento decisivo, l’uomo è staccato da tutti, solo davanti a Dio, suo unico interlocutore. Di solito gli ebrei pregavano in piedi. Ma davanti alla morte, Gesù si inginocchia al cospetto del mistero di Dio. Così faranno anche i suoi discepoli (At 7,60; 9,40; 20,36; 21,5).
La parola Padre traduce l’aramaico Abbà (Mc 14,36). Alla fine di tutto, resta come unica sorgente di vita per Gesù la fiducia nel Padre, suo principio. Questo abbandono filiale al Padre nel momento della morte è la fede che salva. L’accettazione della morte è l’atto più radicale di fede che possiamo fare a Dio.
Gesù ha sperimentato il terrore e l’angoscia della morte, una morte violenta, ingiusta, insensata, in cui l’innocente è messo con i malfattori (v. 37). In questa sua morte Gesù, il Figlio, porta su di sé il peccato dei fratelli. Gesù soffre la decisione di bere questo calice, che contiene realmente tutto il male possibile. Sente tutta la ripugnanza della carne segnata dal peccato e dominata dalla paura della morte.
Gesù porta in sé la maledizione di ogni peccato: l’opposizione tra la nostra volontà e quella di Dio. Colui che non conobbe peccato ne subisce tutte le conseguenze e vive in sé questa sofferenza, più atroce della morte stessa.
Nell’ora della paura il Padre non ci lascia soli. Manda il suo angelo che infonde forza (Dn 3,49-50; 10, 18-19; 1Re 19,1-8; At 12,7-8). La nostra debolezza è il vaso che contiene la sua forza. Per questo Paolo dice: "Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo", e "quando sono debole è allora che sono forte". Infatti la potenza del Signore si manifesta pienamente nella mia debolezza (2Cor 12,9-10).
Agonia significa lotta. Nello scontro con la morte ogni uomo si sente perdente e perduto. Gesù invece prega più intensamente, affidandosi al Padre. La preghiera ci mette in comunione con il Padre della vita. Per questo è la forza che vince la morte. Ma questa stessa preghiera è lotta. Lotta tremenda con Dio, percepito come l’unico e misterioso nemico (Gen 32,23ss).
Dopo il peccato, Adamo si guadagna la vita con il sudore della fronte (Gen 3,19). Il nuovo Adamo, Cristo, ci guadagna la vita eterna con il suo sudore di sangue.
La preghiera ci dona la forza di vivere la morte come abbandono a Dio, sorgente della vita. La preghiera vince la morte perché ci mette con il Figlio nelle braccia del Padre che ci genera. In questo modo la morte non è la voragine che ci inghiotte, ma l’incontro con il Padre che ci accoglie nella vita eterna.

47 Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. 48 Gesù gli disse: "Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?". 49 Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: "Signore, dobbiamo colpire con la spada?". 50 E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l'orecchio destro. 51 Ma Gesù intervenne dicendo: "Lasciate, basta così!". E toccandogli l'orecchio, lo guarì. 52 Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: "Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? 53 Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre".

Il brano è strutturato dalla contrapposizione tra Gesù e tutti gli altri. Da una parte c’è lui. È solo, circondato dai nemici, tradito da Giuda, non compreso dai suoi, catturato come un brigante. Dall’altra c’è un gioco di denari, di spade, di bastoni e di falsi baci: le carte, con le quali il nemico da sempre gioca la partita della storia umana. Dio, che è amore e dono, viene incontro all’uomo egoista e bramoso di possedere. Il bene si consegna al male che lo prende. Così la luce entra nelle tenebre e la vita nella morte.
In Luca, dopo Pietro, Giuda è l’unico dei Dodici chiamato per nome da Gesù. È segno di amicizia. Anche se lo tradisce, gli resta amico. Anzi, è l’unico chiamato "amico", e proprio in questa situazione (Mt 26,50). Luca non dice che Giuda baciò il Signore. Riferisce invece queste parole di Gesù. Suonano stupore e maraviglia. Un gesto che esprime ogni bene è stravolto nel suo contrario. L’atto con cui Giuda consuma il suo tradimento è lo stesso con cui Gesù esprime il suo affetto. Bene e male si incontrano, percorrendo in senso inverso la stessa strada.
I discepoli non hanno ancora capito le parole di Gesù sulla spada (vv. 35-38). Sono ancora nella logica del nemico. Gesù reagisce alla violenza con l’amore, unica forza capace di vincerla, invece di moltiplicarla. Egli fa quanto ha comandato a noi: "Amate i vostri nemici..." (6,27-38). Non è come gli zeloti che rispondono al male con gli stessi strumenti. Vince il male con il bene (Rm 12,21). Infatti il Figlio è misericordioso come il Padre, benevolo verso i disgraziati e i cattivi (6,35-36). La salvezza che egli porta consiste nel fare misericordia a tutti, anche a chi gli fa del male.
Usando la spada, i discepoli sono ancora alleati dei nemici. Quante difese sbagliate di Gesù, che non rientrano nel suo Spirito! Se la fede viene dall’ascolto (Rm 10,27), la spada di Pietro è figura di tutti i nostri strumenti pastorali che impediscono l’ascolto e la fede, perché mozzano gli orecchi, invece di aprirli all’ascolto della Parola.
"Adesso smettete" sono le ultime parole di Gesù ai suoi discepoli prima della risurrezione. Egli non approva l’azione violenta. La spada non vince, ma moltiplica il male. La potenza e la violenza non servono al Regno. Anzi lo ritardano, perché precludono al presunto nemico la possibilità di convertirsi. Il messianismo di Gesù consiste nel curare dal male facendo del bene (7,18-23; At 10,38). Anche a chi in quel momento gli è nemico. Questo è l’ultimo miracolo di Gesù. È il segno più grande della sua misericordia, compiuto verso uno che sta lì in prima fila per catturarlo.
Gesù è trattato da malfattore: è al giusto che tocca portare l’ingiustizia. Il potere delle tenebre non ama la luce. Agisce nel nascondimento della notte. La morte di Gesù è l’ora del nemico, l’apice del potere del male. Ma cosa succede alle tenebre quando si impossessano della luce?

54 Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. 55 Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. 56 Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: "Anche questi era con lui". 57 Ma egli negò dicendo: "Donna, non lo conosco!". 58 Poco dopo un altro lo vide e disse: "Anche tu sei di loro!". Ma Pietro rispose: "No, non lo sono!". 59 Passata circa un'ora, un altro insisteva: "In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo". 60 Ma Pietro disse: "O uomo, non so quello che dici". E in quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. 61 Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". 62 E, uscito, pianse amaramente.

In Luca, dopo l’arresto, tutta la notte è occupata dal rinnegamento di Pietro e dal dileggio dei soldati. Solo al mattino, dopo che il discepolo avrà detto: "Non sono", uscirà la rivelazione di Gesù che dice: "Io sono".
Il racconto è tutto un gioco di occhi fissati su Pietro. Nello sguardo di Gesù egli riconoscerà le due verità complementari che costituiscono il Vangelo: il proprio peccato e il suo perdono.
Finalmente conosce insieme se stesso e Dio. Perdendo la sua identità presunta, troverà quella autentica: l’amore del suo Signore per lui. Il suo pianto sarà il suo battesimo, che gli purificherà il cuore e gli illuminerà gli occhi. D’ora in avanti Gesù non farà più niente. Finita l’azione, comincia la passione. Il Figlio dell’uomo diventa un oggetto nelle mani dell’uomo. È preso, consegnato, condotto, introdotto, condotto via e infine crocifisso. Faranno di lui ciò che vorranno. Dio, nel suo amore umile, si fa piccolo e si riduce all’impotenza per consegnarsi nelle nostre mani. E noi riverseremo su di lui tutto il male di cui siamo malati.
Pietro segue Gesù perché gli vuole bene. Tiene conto del proprio amore, ma non ancora della propria fragilità. "Dare la vita non è della debolezza umana, ma della potenza divina (s. Ambrogio). Lo seguirà nel martirio solo quando confiderà in lui invece che in se stesso.
Per mezzo di una donna e di due uomini, Pietro subirà tre tentazioni, come Gesù nel deserto. Verrà vagliato. Perderà le scorie della propria presunzione e rimarrà il grano pulito: la fedeltà del suo Signore, di cui il giusto vive. Mentre Gesù svela la sua identità, Pietro scopre la propria: è un peccatore per il quale il Signore muore.
In verità Pietro non conosce questo Gesù. Conosce un altro. Quello potente, quello che fa miracoli. Ancora non sa che cosa significhi stare con questo Gesù, impotente e condotto alla croce. La prima tentazione di ogni credente è proprio quella di non conoscere o di voler dimenticare Gesù crocifisso (Gal 3,1; Fil 3,18). Molti stanno con lui fino allo spezzare del pane. Tutti poi l’abbandonano! Il centro della fede cristiana, il problema serio, è conoscere Gesù e stare con lui, che è il Crocifisso per me.
Paolo scrive: "lo ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo e questi crocifisso" (1Cor 2,2).
Le parole di Pietro: "Non sono" assumono tutto il loro peso davanti a quelle di Gesù che dirà: "Io sono (v. 70). "Io sono" è il nome di Dio, colui che è; "non sono" è il nome dell’uomo che non sta con colui che è. Pietro scopre la propria verità. È il "non sono", l’inesistente, se non sta con colui del quale è immagine e somiglianza.
Come una marea montante, l’ostilità attorno a Pietro cresce fino a sommergerlo. Ora Pietro dichiara la sua estraneità assoluta nei confronti di Gesù.
Solo Gesù vince tutte le tentazioni (4,23). Noi cadiamo in tutte. Ma proprio e solo così comprendiamo che abbiamo bisogno di essere salvati, e sappiamo chi è il Signore che ci salva. Il nostro peccato è l’unica via attraverso la quale sperimentiamo Dio come misericordia. Se Pietro non fosse caduto non avrebbe capito Cristo che è morto per lui. Per lui sarebbe morto invano.
Non è Pietro che si volge a Gesù, ma Gesù che si volge a Pietro. L’uomo è incapace di volgersi a Dio. Gesù riconosce Pietro anche se Pietro dice di non conoscerlo. Il suo sguardo compassionevole non rinfaccia e non rimprovera nulla. Solo davanti a uno sguardo pieno d’amore l’uomo diventa libero. Si trova nudo davanti a Dio, nella responsabilità di accettare o meno il suo amore gratuito e senza condizioni.
"Pietro si ricordò della parola del Signore". Il ricordo della parola del Signore è il principio della conversione. È importante che Gesù abbia predetto il peccato di Pietro. Solo così Pietro può comprendere che Gesù gli rimane fedele anche se lui è infedele, perché Dio non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13). Non c’è altro modo per cogliere la sostanza del Vangelo. Se Pietro non avesse rinnegato, non avrebbe capito che non sarà lui a morire per il Signore, ma il Signore a morire per lui. Solo in quanto peccatore l’uomo può essere salvato e ottenere la sublimità della conoscenza del Signore come amore e misericordia.
Pietro si allontana da Gesù. Come Adamo, si sottrae allo sguardo di Dio. Ma dove fuggire lontano dal suo sguardo (Sal 139)? Egli ci ama fino al punto di stare con noi senza condannarci e giudicarci, proprio mentre è condannato e giudicato dalle nostre paure. La fede è accettare questo suo amore come propria identità: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore" (1Gv 4,16).
Il pianto amaro di Pietro è la fine della sua falsa identità. Questa sua morte a se stesso è il recipiente che accoglie la sua vera identità: l’amore che il Signore ha per lui. Questa è la vita nuova, la vita eterna. Le lacrime di Pietro sono il battesimo del suo cuore.

63 Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, 64 lo bendavano e gli dicevano: "Indovina: chi ti ha colpito?". 65 E molti altri insulti dicevano contro di lui.
66 Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: 67 "Se tu sei il Cristo, diccelo". Gesù rispose: "Anche se ve lo dico, non mi crederete; 68 se vi interrogo, non mi risponderete. 69 Ma da questo momento starà il Figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza di Dio". 70 Allora tutti esclamarono: "Tu dunque sei il Figlio di Dio?". Ed egli disse loro: "Lo dite voi stessi: io lo sono". 71 Risposero: "Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L'abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca".

L’uomo, anche se lo ignora, è costituito tale dal suo desiderio naturale di vedere Dio. Fatto a sua immagine e somiglianza, solo in lui trova la realtà di se stesso. Senza di lui è senza di sé. Ora finalmente, dopo il "non sono" del discepolo, ci è dato di contemplare in Gesù il vero volto di Dio.
Dalla bocca di Gesù esce la parola: "Io sono". Essa svela l’identità e il mistero di Dio: Gesù è Dio e Dio è Gesù. Egli è il Figlio misericordioso come il Padre. In lui, mentre vediamo la nostra verità di figli perduti, vediamo anche quella di Dio come amore che si fa carico del nostro male. Un parlare cristiano su Dio può partire solo dalla contemplazione di questo volto velato, che ne è la rivelazione piena. Dio, assumendo in Gesù il volto di tutti i senza volto, svela la sua essenza nascosta: amore misericordioso. Gesù è il Cristo (Re e Salvatore) proprio in quanto solidale con il male dell’uomo, è Figlio dell’uomo (Giudice supremo) proprio in quanto giudicato; è Figlio di Dio ("Io sono") proprio in quanto ingiustamente condannato a morte. Qui, e non prima, si presenta il problema della fede cristiana: credere nella debolezza di Dio. Qui il vangelo raggiunge il suo apice: vediamo il Salvatore, il Giudice e Dio stesso in colui che condanniamo, giudichiamo e uccidiamo.
La parola "Io sono" costituisce il culmine della rivelazione biblica: mostra a tutti chi è Gesù e chi è il Padre. Per questo viene ucciso. Ma proprio così si manifesta senza veli il vero Dio: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14,9). Il Padre delle misericordie.
Il Figlio dell’uomo è nelle mani degli uomini. La libertà è incatenata. La sapienza è derisa. La potenza è percossa. La Gloria è velata. Ma questa velazione è la sua rivelazione totale. Il velo del tempio nasconde la maestà di Dio; il velo del male del mondo lo rivela come amore. Questo volto velato è Dio stesso che ha perso il suo volto per noi. Da sempre l’inganno di satana ci ha nascosto il vero volto di Dio. Ora Dio fa del suo massimo velamento il suo svelamento definitivo. Pietro è stato chiamato a riconoscerlo per primo. Colui che passò beneficando e risanando tutti (At 10,38) è ora colpito dal male di tutti quelli che ha beneficato e risanato. Gesù è il Servo colpito dal male del mondo. Infatti si è caricato delle nostre sofferenze: il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui (Is 53,4-5). Non si è sottratto agli insulti e agli sputi; ha reso la sua faccia dura come pietra (Is 50,6-7). Tace e non dice chi è il colpevole. Il suo silenzio dice chi è Dio per noi: un amore che preferisce essere percosso e morire, piuttosto che accusare.
La parola di Cristo indica il re atteso, colui che avrebbe liberato il popolo. Gesù è il salvatore, ma non in quanto messia politico che prende il potere, ma in quanto Figlio dell’uomo che si consegna all’impotenza della croce.
Gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi non vogliono assolutamente credere in Gesù. Per cui non servono a nulla né le domande né le risposte. Il silenzio di Dio, oltre che annuncio del suo amore, è anche denuncia dell’incredulità dell’uomo.
Il Figlio dell’uomo riceve la gloria, il potere e il Regno e siede alla destra di Dio proprio sulla croce. Lì trionfa dei suoi nemici. Lì corregge le false attese messianiche.
Il sinedrio sta giudicando il suo giudice supremo, ma la sua ingiusta condanna alla morte di croce sarà il giudizio di Dio che dona la vita a tutti gli ingiusti.
Gesù è il Figlio di Dio. E ce lo rivela pienamente mentre dà la vita per noi. "Io sono" è la testimonianza piena di Gesù. Dice la sua identità e insieme svela chi è Dio. Dio dice il suo nome, quello stesso che udì Mosè dal roveto ardente: "Io sono" (Es 3,13-14). In Gesù si compie la rivelazione di Dio, iniziata nell’esodo. "Io sono" è colui che riempie di sé il nostro "non sono" perché anche noi possiamo diventare come "Io sono". "Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio" (s. Ireneo). Questa rivelazione di Gesù ci guarisce finalmente dalla falsa immagine di un Dio cattivo, origine di ogni male.
Egli verrà ucciso proprio per queste parole: "Io sono". Condannato come Dio, si rivelerà proprio nella sua uccisione. Infatti si lascia condannare ingiustamente alla nostra giusta pena per stare con noi, perché noi possiamo stare con lui. È l’Emmanuele, il Dio con noi.
La testimonianza è completa. Dalla sua bocca è uscita la parola definitiva: "Io sono Dio".

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CAPITOLO 23

1 Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero da Pilato 2 e cominciarono ad accusarlo: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re". 3 Pilato lo interrogò: "Sei tu il re dei Giudei?". Ed egli rispose: "Tu lo dici". 4 Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: "Non trovo nessuna colpa in quest'uomo". 5 Ma essi insistevano: "Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui".6 Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo 7 e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme.
8 Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. 9 Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. 10 C'erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. 11 Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. 12 In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia tra loro.

La duplice comparsa davanti a Pilato e a Erode mostra per contrasto la regalità di Gesù e mette in crisi l’ideale dell’uomo e l’idea stessa di Dio. Infatti il re è l’uomo ideale, libero e signore del creato a immagine e somiglianza di Dio. Ora Gesù ci rivela che la libertà divina consiste nell’amare e la sua signoria nel servire fino all’impotenza della croce. La sua regalità è ben diversa da quella dell’uomo (22,25ss). A Luca sta a cuore di provare l’innocenza politica di Gesù. È importante anche per la Chiesa, che si trova ad affrontare le stesse accuse e persecuzioni del Maestro. Ma è ancora più importante per capire cos’è il suo regno e la sua salvezza.
Gesù ci aveva parlato del Regno presente nella nostra storia come seme piccolo, preso e gettato nella terra, come un po’ di lievito preso e nascosto. Ora comprendiamo che il Regno è Gesù stesso: insignificante e disprezzato, piccolo e preso, gettato fuori le mura e nascosto sotto terra, sarà il grande albero che accoglie tutti gli uccelli, sarà il lievito che farà lievitare la pasta del mondo. È questo il Re, colui che viene nel nome del Signore.
Non dobbiamo aspettarne un altro, ma cambiare le nostre attese (7,18ss). È lui che depone i potenti dai troni (1,52) e ci salva, dandoci una nuova immagine di Dio, di re e di uomo.
Pilato è descritto dagli storici ebrei Filone e Flavio come duro e crudele (cf. 13,1). Qui appare come umano e ben disposto. Parlare bene dei nemici non è solo interesse apologetico, ma anche gesto sommo di misericordia.
L’accusa è triplice: perverte il popolo, impedisce di pagare il tributo a Cesare e dice di essere il Cristo re. Pilato prende in considerazione solo la terza accusa, la più importante, perché potrebbe minacciare la dominazione romana. Anche i cristiani saranno sempre perseguitati per motivi politici. Ma il loro martirio non sarà testimonianza di Gesù se non sarà evidente la loro innocenza politica. Dev’essere chiaro, come per Gesù, che non contendono il potere a Cesare e non lo pretendono.
Gesù riconosce di essere re. Ma non è come i re delle nazioni, che dominano e si fanno chiamare benefattori (22,25ss). Sarà re in quanto servo per amore, tanto libero da portare su di sé il male di quelli che ama, fino ad essere crocifisso come malfattore. Questa è la regalità di Dio (1,52). Il Crocifisso muta la falsa idea di Dio suggerita dal serpente e cambia il falso ideale dell’uomo, principio di ogni male. Ci rivela il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo. È re in quanto "testimone" della verità, di quella verità che ci fa liberi (Gv 18,37; 8,32). Gesù è dichiarato politicamente innocente dall’autorità romana. Gesù è crocifisso come giusto, solidale con gli ingiusti. Solo così si può capire chi è lui, e in lui chi è Dio, e qual è la salvezza che dona all’uomo (vv. 41-47).
Gesù non ha sobillato nessuno, ma ha chiamato tutti a convertirsi alla misericordia, che è la libertà dei figli, pagandone per primo i costi. Gli accusatori, indicandolo come galileo, intendono presentarlo come zelota. La Galilea infatti era un focolaio di rivoltosi.
Pilato, per levarsi un fastidio, invia Gesù da Erode. Lui infatti vorrebbe liberare Gesù (At 3,13-14). In quei giorni tutti i nemici di Gesù si trovano a Gerusalemme, riuniti contro il Signore e il suo Messia (Sal 2,1): "Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli di Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse" (At 4,27-28).
Già da 9,9 conosciamo il desiderio di Erode di vedere Gesù. Ora è contento, perché si compie. Erode non è mosso dal desiderio di convertirsi, ma dalla curiosità. Non vuole obbedire alla verità, ma soddisfare il suo prurito di cose straordinarie. Il brivido religioso interessa sempre più della fede. "Questa generazione è una generazione malvagia: essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno, fuorché il segno di Giona" (11,29).
Luca menziona solo qui il silenzio di Gesù. Richiama il Servo di Iahvè. Non apre bocca, come agnello condotto al macello (Is 53,7); è come uno che non sente e non risponde (Sal 38,14). Alle molte parole dell’uomo, il Figlio dell’uomo non risponde nulla. Il silenzio di Dio è la sua risposta alla cattiveria dell’uomo. Tace non per indifferenza o superiorità, ma per compassione verso chi lo accusa. Dio è misericordia. Se rispondesse, agli accusatori ingiusti spetterebbe la pena che vogliono infliggere a lui. Allora tace. Tace per non condannare, muore per non uccidere, è giustiziato per non giudicare, non denuncia nessuno per annunciare a tutti il perdono. Con il suo silenzio porta su di sé la nostra morte e dà per noi la vita. Gesù qui si manifesta così come vero re, immagine di Dio. È infatti libero e capace di amare come il Padre.
"Avendolo nientificato" (v. 11). È il disprezzo più radicale. Dio è ridotto a nulla e stimato nulla. Nel suo orgoglio Erode fa il contrario di Maria che magnificò (fece grande) il Signore. La regalità di Dio è ritenuta impotenza e stupidità, oggetto di scherno da parte dell’uomo. Erode riconosce Gesù come re. Lo riveste della veste bianca propria del re o del candidato al trono. Lo fa per burla. Non sa di essere lui una burla di re, come tutti i suoi pari. Schiavo del suo egoismo e incapace di voler bene, è l’uomo fallito. È a somiglianza della falsa immagine di Dio, suggerita dal serpente.
Quando l’inimicizia tra due persone diventa amicizia per essere nemici di Cristo, la situazione peggiora.

13 Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, 14 disse: "Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo; ecco, l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; 15 e neanche Erode, infatti ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. 16 Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò". 17 . 18 Ma essi si misero a gridare tutti insieme: "A morte costui! Dacci libero Barabba!". 19 Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio.
20 Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. 21 Ma essi urlavano: "Crocifiggilo, crocifiggilo!". 22 Ed egli, per la terza volta, disse loro: "Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò". 23 Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. 24 Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. 25 Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.

Questo brano ci narra il grande baratto: la vita del delinquente è scambiata con la morte del Giusto. L’uccisione di Dio è la salvezza dell’uomo. L’innocenza di Gesù è sottolineata tre volte da Pilato. Se fosse stato ucciso perché empio e ingiusto non ci avrebbe salvati. Il giudicato e il rifiutato da tutti ci appare in una solitudine assoluta. Tutti sono contro di lui e gridano: "Crocifiggilo!".
Questo brano ha un grande significato teologico. Chiarisce chi ha condannato Gesù e perché, e spiega il risultato e il significato della sua morte.
Chi ha condannato Gesù? Tutti, nessuno escluso. Tutti hanno peccato. Ognuno ha prestato la sua mano a Satana, vero autore della morte di Gesù.
Perché lo abbiamo condannato? Solo perché è il Figlio di Dio e non ha fatto nulla di male. A causa del peccato, il bene, invece che motivo di lode, è oggetto di invidia. Per essa entrò la morte nel mondo (Sap 2,24) e per essa il Figlio dell’uomo fu consegnato a morte (Mc 15,10). Gesù, condannato come buono dalla nostra cattiveria, porta su di sé il nostro male: "Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti". "Portò i nostri peccati nel suo corpo" (1Pt 3,18; 2,24); "Ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi" (Gal 3,13); "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2Cor 5,21).
Che cosa viene a noi da questa condanna? La giustificazione dai nostri peccati, la "grazia pasquale" che ci dà la vita non meritata invece della morte meritata. Barabba ne é la primizia. Il Santo e il Giusto muore al posto del peccatore ingiusto.
Che cosa significa la sua morte? È chiaramente la morte salvifica del servo di Iahvè! Egli dà la vita per noi portando su di sé la nostra morte. È una morte "vicaria", al nostro posto. Il Santo e il Giusto che si fa computare tra i malfattori (22,37; Is 53,12) e uccidere ingiustamente, rivela il mistero di Dio stesso: amore che si fa condannare alla nostra stessa pena per stare con noi. Qui Dio compie un gesto più potente di quello della creazione: strappa dalla morte la sua creatura perduta. È la notte pasquale, in cui è ucciso il figlio primogenito e liberato il popolo schiavo.
Ora entra in scena anche il popolo, che prima era favorevole a Gesù (19,48; 20,6.19.26.45; 21,3 8). Gesù muore per il peccato di tutti coloro che vogliono la sua condanna.
Pilato dichiara per tre volte Gesù innocente davanti a tutti. Sarà ucciso solo per la sua testimonianza della verità. I religiosi lo condannano come figlio di Dio (santo) e i politici come re (giusto). Il popolo si associa gridando: "Crocifiggilo!". Per questo Pietro potrà dire rivolto al popolo: "Voi avete rinnegato il santo e il giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l’autore della vita" (At 3,14-15).
Perché Pilato vuole punire Gesù se non è colpevole? È un mistero della sapienza divina e della stupidità umana. Gesù è trafitto per i nostri peccati, schiacciato per le nostre iniquità (Is 53,5).
In occasione della Pasqua il governatore liberava un prigioniero in ricordo della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Questo graziato a Pasqua è figura di tutti i graziati per il sangue dell’agnello innocente. È tolto di mezzo l’Autore della vita e graziato un disgraziato. La libertà di Barabba è frutto della condanna di Gesù. Il Giusto muore per l’ingiusto.
Barabba (figlio del padre) è il nome che si dava ai figli di nessuno. È messo a confronto con il Figlio del Padre. E nel giudizio degli uomini la bilancia pende a suo favore.
Pilato ha il potere di fare il bene, ma non la libertà di realizzarlo.
"Crocifiggilo! ". È la voce di tutti. È la richiesta della condanna a morte e la supplica perché venga immolato per la nostra salvezza. La croce, patibolo dello schiavo ribelle, sarà il trono del re obbediente al Padre. Questo grido del popolo è l’acclamazione che lo intronizza. "Maledetto chi pende dal legno" (Dt 21,23; Gal 3,13). Al legno viene appeso il frutto benedetto da cui viene la benedizione per tutti.
Per la terza volta Pilato dichiara l’innocenza di Gesù. È condannato proprio perché non ha fatto nulla di male. Chi fa il male lo fa portare agli altri. Solo chi non lo fa è capace di portare il male altrui.
Luca non descrive la flagellazione. L’accenna per due volte con il verbo punire.
La folla grida per la terza volta. Nel primo grido aveva chiesto la morte del Figlio del Padre per la vita del "figlio di nessuno". Nel secondo ha chiesto la crocifissione, logica conseguenza della liberazione del malfattore. Nel terzo ribadisce con forza crescente questa richiesta di morte.
La condanna di Gesù è alla fine convalidata da Pilato. Voluta da chi non poteva deciderla, viene decisa da chi non la voleva. Il male ha preso la mano a tutti quelli che si sono alleati contro Cristo. Barabba è "graziato". È la grazia pasquale: il Figlio del Padre prende il posto del figlio di nessuno. Questa grazia concessa ad ogni uomo è frutto della morte di Gesù per i peccatori: "Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui" (Is 53,5). "Siamo stati comprati a caro prezzo", "con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia" (1Cor 6,20; 1Pt 1,19).
Nel gesto di Pilato che lo consegna, è Cristo stesso che si consegna alla morte per i nostri peccati (Is 53,12). Gesù fa la volontà del Padre (22,42) abbandonandosi alla nostra volontà perversa e omicida. Il nostro peccato sarà l’occasione che compie il bene preordinato da Dio (At 4,28).

26 Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. 27 Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. 28 Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. 29 Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato.
30 Allora cominceranno a dire ai monti:
Cadete su di noi!
e ai colli:
Copriteci!
31 Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?".
32 Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati.

Inizia l’ultima tappa del ritorno del Figlio al Padre. È il cammino del martire verso il suo patibolo e del re verso il suo trono. Il brano ci presenta tre istantanee: il cireneo, le figlie di Gerusalemme e i due malfattori. Sono i tre modi d’incontro dell’uomo col Figlio dell’uomo. Nel cireneo vediamo chi é il vero discepolo. Nelle figlie di Gerusalemme vediamo chi è il vero popolo di Dio. Sono le persone che hanno verso Gesù lo stesso sentimento che Gesù ha verso di loro: la compassione. Il Signore le invita a piangere su di sé, cioè a convertirsi. La conversione è possibile proprio ora, perché il legno verde brucia al posto di quello secco. È il mistero della misericordia di Dio, che offre il perdono anticipato a tutti, perché tutti possano convertirsi ed essere salvi. Nei due malfattori, condotti "con lui" alla croce, vediamo rappresentata l’umanità intera davanti alla propria morte. Come Simone di Cirene è solidale con la croce di Gesù, così Gesù è solidale con la nostra. Ma mentre ogni uomo, come Simone di Cirene, è costretto a portare la propria croce, Gesù è il nostro cireneo volontario per amore. Con lui ora possiamo comprendere il senso della nostra croce, anche di quella che non vorremmo portare, come lo comprenderà uno dei malfattori crocifisso con lui.
Portano Gesù al Calvario, attraverso le vie centrali e più affollate di Gerusalemme. L’esecuzione deve servire come punizione esemplare e pubblica.
Simone di Cirene, città dell’Africa, è la persona più estranea al fatto, che si trova lì per caso, di passaggio. Viene dai campi e non ha nulla a che fare con quanto è successo. Il "caso", come un incidente che determinerà la sua vita, lo vuole protagonista. Mentre al discepolo tocca portare la propria croce (9,23), a lui tocca portare la croce altrui, addirittura quella di Cristo. È associato a lui pienamente, anzi, lo sostituisce. Il cireneo è per costrizione ciò che Gesù è per libera scelta. Ciò che il cireneo è per Gesù, Gesù lo è per tutta l’umanità. Tra i tanti, la ventura toccò proprio a Simone, l’africano di Cirene, il più sprovveduto e l’ultimo di tutti, un debole che non poteva ribellarsi, altrimenti gli sarebbe andata peggio. È sempre il "povero Cristo" che deve portare la croce! Il cireneo è costretto ad accogliere il dono più grande che possa essere concesso ad un uomo: essere compagno del Signore nel momento decisivo della salvezza, essere simile a lui nel momento più alto della sua gloria. I doni di Dio, specialmente i maggiori, sono confezionati dal caso, spesso malaugurato. Sottratti alla nostra decisione, sconvolgono i nostri piani, e noi ce ne lamentiamo. Ma il caso non esiste. Esso è pura ignoranza nostra e pura grazia di Dio. È lo spazio che la sua libertà si riserva nel pieno rispetto della nostra. Non cade foglia che Dio non voglia. Tutto coopera al bene di chi ama il Signore (Rm 8,28).
Nel cireneo, e in quanti, come lui portano il male che non hanno fatto, continua la storia della redenzione del mondo. I "poveri Cristi" sono coloro nella cui carne si compie ciò che ancora manca alla passione di Cristo (Col 1,24). Il cireneo, oltre che padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21), è padre di tutti i cirenei della storia. Il discepolo è solo colui che prende la propria croce ogni giorno e la porta dietro a Gesù (9,23; 14,27).
In realtà, la croce di Gesù non è sua, ma nostra. Spetta infatti a noi, che siamo malfattori, e non a lui che è giusto. Portando la sua, portiamo la nostra e, portando la nostra, ormai portiamo la sua, diventata gloriosa.
Il popolo prima gridava: "Crocifiggilo!". Ora lo segue mentre va alla crocifissione. Lo contemplerà morto e si convertirà battendosi il petto (v. 48). La contemplazione della croce è il luogo della conoscenza di Dio e della conversione a lui.
Nel pianto delle donne si avverano le parole di Zaccaria: "Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico; lo piangeranno come si piange il primogenito" (Zc 12,10). Gesù infatti è il Figlio unico e amato (3,22; 9,35; 20,13), il primogenito di ogni creatura (Col 1,15).
Mentre è condotto alla morte, Gesù non è dispiaciuto per il proprio male, ma per il male che fanno a se stessi coloro che lo crocifiggono. Non è preoccupato per sé, ma per chi lo rifiuta. Le parole rivolte alle donne di Gerusalemme sono il segno massimo della sua misericordia e l’invito definitivo alla conversione.
"Piangete su di voi" significa: riconoscete che piangendo sul mio male state piangendo sul vostro, che io sto portando per amore verso di voi.
La morte di Gesù è la fine del mondo vecchio e l’inizio di quello nuovo. Anche la sterilità, maledizione per eccellenza, diviene paradossalmente una benedizione. Gesù dice alle donne che per i loro figli sarebbe meglio non essere nati se non ascoltano la sua parola e non la mettono in pratica (11,28). La disobbedienza a Dio è la morte dell’uomo. Gesù, il frutto benedetto del grembo di Maria (11,27), porta su di sé questa maledizione.
Il legno verde è Gesù. Viene bruciato perché sia risparmiato dal fuoco il secco, che è l’uomo peccatore. Il giusto è giustiziato perché l’ingiusto sia giustificato. "Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Per l’iniquità del suo popolo fu percosso a morte. Il giusto mio servo giustificherà molti; egli si addosserà le loro iniquità. Portava il peccato delle moltitudini e intercedeva per i peccatori" (Is 53,5-12).
Salendo al Calvario, Gesù spiega alle donne ciò che avviene nella sua morte. Uno dei malfattori, crocifisso con lui, capirà. Il legno verde subisce la sorte di quello secco. I due malfattori rappresentano tutta l’umanità con la quale Cristo si è fatto solidale per sempre.

33 Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. 34 Gesù diceva: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno".
Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte.

Le prime e ultime parole di Gesù in croce sono rivolte al Padre. Gli chiede perdono per chi lo crocifigge e gli rimette nelle mani la sua vita, carica di tutti i nostri peccati. Al centro del racconto c’è la solidarietà con i fratelli perduti.
Il brano ci presenta la regalità di Gesù, principio di salvezza. Dall’alto della croce il Signore compie il giudizio di Dio sui nemici: perdona e dona il Regno ai malfattori. Qui comprendiamo bene in che senso Gesù è re e qual è la salvezza che porta. È un re che esercita la sua autorità nel servire; l’unico suo potere è amare fino alla morte. La sua salvezza non è quella che si attende l’uomo. È quella di un Dio che si fa condannare alla nostra stessa pena, pur di stare con noi.
Sulla croce Gesù realizza il Regno che aveva annunciato all’inizio (6,20-38). Lui è il re. Povero, affamato, piangente, odiato, bandito, insultato e respinto come scellerato, ama i nemici, fa loro del bene, li benedice, intercede per loro, resiste al male prendendolo su di sé, è disposto a subirne anche di più pur di non restituirlo, e dà agli altri la salvezza che ognuno vorrebbe per sé. Questa sua regalità rivela la grazia e la misericordia di Dio: è il Figlio uguale al Padre, che non giudica, non condanna, perdona e dona la vita per i fratelli.
Gesù è martire, ossia testimone dell’amore del Padre per tutti i suoi figli. La sua croce è giustificazione per tutti gli ingiusti è salvezza del mondo. Ogni teologia della liberazione, per non cadere nell’idolatria e produrre altre alienazioni, deve fare i conti con la croce di Gesù. Egli respinge come tentazioni le nostre attese di salvezza, basate su segni di forza e di potenza. Moltiplicherebbero quel male dal quale vuole strapparci.
"Salva te stesso" è il ritornello ripetuto sul Golgota. Rappresenta la suprema aspirazione dell’uomo che, mosso dalla paura della morte, cerca di salvarsi da essa a tutti i costi, instaurando la strategia dell’avere, del potere e dell’apparire. Ma proprio quest’ansia di vita genera l’egoismo, vera morte dell’uomo come figlio di Dio. Da qui nasce ogni altro male e ogni altro falso modo di intendere la vita e la morte. Gesù non ci libera dalla morte, ma dalla paura di essa, che ci avvelena tutta la vita. Infatti "il pungiglione della morte è il peccato" (1Cor 15,56). Il peccato è sostanzialmente quella menzogna che ci ha tolto la conoscenza di Dio come amore, e ci impedisce di accettare di essere da lui e per lui. Per questo temiamo l’incontro con lui, come la nostra morte, e viviamo schiavi di questa angoscia per tutta la vita. Lui ce ne libera, offrendoci la sua amicizia e standoci vicino anche nella morte. In questo modo la svuota del suo pungiglione. "Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Eb 2,14-15). Proprio lì dove noi temiamo la solitudine assoluta, il nulla e la dannazione, scopriamo un Dio che ci offre la sua solidarietà e la comunione con lui, che è la vita. La solitudine è l’unico male dal quale nessuno può salvarsi da solo.
Cade la falsa immagine di un Dio tremendo, che sta all’origine della morte, causa dell’egoismo, causa dell’ansia di vita, causa della brama di avere, di potere e di apparire, causa di ogni male. La salvezza che Gesù porta ha quindi la sua sorgente nella riconciliazione dell’uomo con il Padre della vita.
Questi due versetti ci presentano il benefattore che finisce tra i malfattori, fuori dalla sua città (20,15; Eb 13-12), fatto maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21). La croce, morte crudele e spaventosa, punizione dello schiavo, è il trono del re.
C’è solidarietà totale tra il Giusto e il malfattore. Questi due malfattori rappresentano tutti noi, chiamati a leggere il mistero di Dio presente al centro delle nostre croci.
Le prime parole del Crocifisso: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" danno il senso della sua vita e della sua morte. A Gesù sta a cuore il perdono per i suoi fratelli. In questa preghiera Gesù getta il seme del Regno, che è l’amore del Padre nel perdono del fratello. Egli non è come quei martiri "della giusta causa", quegli eroi di tutti i tempi, che insultano e disprezzano il nemico, minacciandogli la vendetta del cielo (2Mac 7,19). Condannato, giudicato e disprezzato, il Giusto assolve, giustifica e prega per i nemici ingiusti.
Il perdono è la chiave di lettura per comprendere la salvezza che Gesù ci porta (1,71.77). È quanto dovranno annunciare i suoi discepoli dopo di lui (24,27). La sua croce è la vicinanza di un amore più grande di ogni peccato commesso e di ogni male subito. In essa Dio scende sotto ogni possibile abisso, per essere con ogni uomo. Perdonando i suoi crocifissori, Gesù si rivela come Figlio del Padre che è la misericordia infinita.
Se gli uomini avessero saputo chi era Gesù non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1Cor 2,8). In questa ignoranza il nostro peccato non è attenuato, ma evidenziato: non conosciamo il Signore della gloria che crocifiggiamo. Siamo satanicamente ciechi davanti al nostro male e al suo bene.
Queste parole di perdono ai suoi crocifissori mancano in vari codici. Anche i cristiani di mestiere, come i monaci e gli ammanuensi, cercano di castrare il vangelo. A loro sembra eccessivo ciò che per Gesù è l’essenziale!

35 Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto". 36 Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: 37 "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". 38 C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
39 Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". 40 Ma l’altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? 41 Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". 42 E aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". 43 Gli rispose: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso".

La salvezza che il Figlio di Dio ha portato sulla terra sembra non avere alcuna rilevanza né religiosa né politica né personale; sulla croce pare che tutto finisca e torni come prima. Anzi, peggio di prima, perché il male sembra aver vinto un’altra volta. Dopo tante illusioni suscitate da Gesù, la tragica delusione! (cf. Lc 24,21). Ma proprio questa è la vittoria decisiva. Il nostro male radicale è il voler salvare noi stessi. Gesù, perdendosi per noi, lo vince. Le sue tentazioni riguardano l’inutilità della croce e della salvezza. Sono anche le tentazioni costanti della Chiesa e di ogni uomo. Bisogna uscire dalla trappola delle proprie attese egoistiche per cogliere la prospettiva di Dio.
La contemplazione del Crocifisso è il principio della nuova sapienza. Sul Calvario viene tolto il sipario dal Cristo e possiamo contemplarlo com’è: amore senza limiti per noi peccatori.
I capi del popolo vengono colti nell’atteggiamento preannunciato dal salmo 22,7-8: "Io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono il naso, scuotono il capo".
Salvare se stesso dalla morte è il principale pensiero dell’uomo. Ognuno è pronto a salvare se stesso a spese dell’altro. È la salvezza ingannatrice dell’egoismo, che è perdizione nostra e altrui. Gesù ha detto: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà" (Lc 9,24). Solo chi si perde per amore, salva se stesso e gli altri.
Nel v. 36 viene richiamato il salmo 69,22: "Quando avevo sete, mi hanno dato l’aceto". La sete di Gesù è il desiderio di donarci l’acqua della vita (cf. Gv 4,10; Ap 21,6). Noi gli abbiamo dato in cambio l’aceto della nostra morte.
I soldati manifestano il modo di pensare comune ad ogni uomo: il re è colui che vince con la forza e fa morire gli altri. Gesù invece manifesta la sua potenza perdendo e morendo per gli altri. La sua debolezza è la forza di Dio. Egli ci salva da ogni potere, che ha la sua forza nella schiavitù dell’egoismo.
La scritta sopra il capo di Gesù è una cosa estremamente seria. Gesù è veramente il re dei giudei. Il suo dominio è quello dell’amore: "Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32).
La bestemmia del malfattore è non riconoscere Dio sulla croce dove si rivela senza veli. Voler staccare Dio dalla croce è togliergli la sua gloria e confonderlo con l’idolo. Anche noi cristiani vogliamo un messia che salvi se stesso solo perché vogliamo salvare noi stessi. Dovrebbe essere lo specchio e la conferma dei nostri desideri egoistici. Questo malfattore rappresenta l’attesa dell’uomo che non conosce Dio, e lo fa a sua immagine e somiglianza.
L’altro malfattore, colui che viene chiamato "il buon ladrone", vede in croce una novità. Gesù Cristo gli fa conoscere il vero volto di Dio. Gesù è lì in croce con lui, perché lui possa essere in paradiso con Gesù. La salvezza è la vicinanza di Dio dove mi sento maledetto e solo. Egli è grazia e misericordia per me, peccatore perduto, fino a farsi lui stesso peccato e perdizione. Scrive san Paolo nella Lettera ai romani: "Ora a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (5,7-8).
Qualunque altro prodigio Dio avesse fatto per noi, non ci avrebbe persuasi del suo amore. Sarebbe stato un atto di potenza e di esibizione, che non avrebbe cambiato la nostra immagine di lui. Ma la sua impotenza in croce, la sua vicinanza a noi nel nostro male, la sua solidarietà con noi fino alla morte, ci tolgono ogni dubbio: Dio è amore e ama noi peccatori.
Liberati, dalla paura della morte e dell’egoismo, siamo finalmente liberi di vivere nell’amore di Dio da cui veniamo e verso cui andiamo. Possiamo finalmente vivere e morire in pace. E questa è la liberazione fondamentale.
Il malfattore in croce è l’unico che chiama Gesù per nome, senza ulteriore specificazione (cf. Lc 17,13; 18,38.39). Gesù è Dio che salva. Egli, come ogni uomo, teme di essere dimenticato. Ma Dio non dimentica nessuno. "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!" (Is 49,15).
Gesù si è fatto ultimo di tutti perché nessuno potesse più sentirsi abbandonato e maledetto. Egli è ormai nel punto più lontano da Dio, per essere vicino a tutti i lontani da Dio.
Il regno di Dio sono le braccia del Padre (v. 46). Ognuno entra nel suo regno affidandosi a Gesù. In lui tutto è compiuto.
Noi saremo sempre con Gesù, l’Emmanuele, perché lui è sempre con noi. Eravamo fuggiti lontano da lui ed egli ci ha raggiunti nel massimo della nostra lontananza e degradazione. Gesù è venuto con noi sulla croce, perché noi tornassimo con lui nel suo paradiso. Dio ha patito con noi, perché noi potessimo gioire con lui (Cf. Lc 15).

44 Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. 45 Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. 46 Gesù, gridando a gran voce, disse: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". Detto questo spirò.
47 Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: "Veramente quest'uomo era giusto". 48 Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. 49 Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.

La scena della morte di Gesù, secondo Luca, contiene varie particolarità rispetto a Matteo e Marco. Le principali sono le seguenti: invece della citazione del Salmo 22 e le relative parole su Elia, troviamo la citazione del Salmo 31; il velo del tempio si lacera prima della sua morte; il centurione lo proclama giusto; le folle si battono il petto.
Le brevi annotazioni degli avvenimenti che precedono e seguono la morte di Gesù ne illustrano i vari aspetti teologici. Le tenebre e l’oscurarsi del sole (v. 44) sottolineano la sua portata cosmica e salvifica. Crocifiggendo il Giusto, il mondo ripiomba nelle tenebre del caos iniziale (Gen 1,2). L’oscurarsi della terra è anche segno di lutto. È il pianto della creatura per il suo Creatore. Lo squarciarsi del velo del tempio (v. 45) significa che Dio non è più chiuso all’uomo. Si è aperto per raccogliere il Figlio (e con lui tutti i figli) che ritorna a casa. In lui ogni fratello ora è riconciliato e ha libero accesso al Padre. Cessa l’antica alleanza che denuncia il peccato e inizia la nuova che annuncia il perdono.
Morendo, Gesù si abbandonò al Padre. La diffidenza e la fuga dell’uomo diventano affidamento e ritorno a lui. È la vittoria sul veleno della menzogna antica, l’ingresso nel paradiso originario in cui il Benefattore introduce ogni malfattore che glielo chiede. La morte di Gesù è l’esaltazione piena di Dio; la sua Gloria torna tra gli uomini. Anche il centurione pagano la riconosce (v. 47). Nel giusto che muore con gli ingiusti si rende presente l’amore di Dio per noi.
Questa morte è uno "spettacolo" (v. 48), visione dell’essenza di Dio che si manifesta nella sua misericordia per l’uomo. Il Crocifisso è la visione di Dio, da cui scaturisce un nuovo modo di essere e di vivere. Finalmente l’uomo vede chi è Dio, si converte a lui e ritorna a lui nel quale solamente è se stesso e può vivere.
I conoscenti di Gesù e le donne (v. 49) raffigurano l’inizio della Chiesa, piccola, debole e impotente come il suo Signore. Riunita ai piedi della croce, raccoglie il frutto della compassione di Dio per il male degli uomini.
La morte di Gesù è l’uccisione dell’autore della vita (At 3,15). Non ci può essere male maggiore. Il peccato, principio di decreazione, è consumato. Tutto regredisce al caos primordiale. La tenebra, che si addensa attorno alla croce, segna la fine del mondo posto nelle mani del maligno e l’inizio di una nuova genesi. Questa tenebra allude alla profezia di Amos: "In quel giorno – oracolo del Signore Dio - farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno", per fare "come un lutto per un figlio unico" (Am 8,9-10). Tutta la creazione partecipa al dolore del Padre per la morte del Figlio.
La morte di Gesù ha un significato cosmico e storico, definitivo e universale. In lui finisce la creazione iniziata con la genesi e comincia la ricreazione che coinvolge tutto e tutti, Dio compreso.
In questa oscurità assoluta, dall’alto della croce, risuonerà forte la voce del Verbo creatore. Questo giorno è la notte della nuova creazione e dell’esodo definitivo. Si squarcia il velo del tempio. Ora Dio non ha più veli. Nel suo Figlio unico, dato per noi, si è svelato come il Padre delle misericordie (2Cor 1,3).
L’accesso a lui è aperto a tutti e per sempre. Nel fratello Gesù ogni uomo incontra il Padre. Per l’eccessivo amore con cui ci ha amati (Ef 2,4), Dio ha abbattuto il muro della separazione. Siamo tutti santi, suoi familiari e suo tempio nello Spirito (Ef 2,14-22).
All’ora nona si suonavano nel tempio le trombe per l’inizio della preghiera vespertina. Gesù associa la sua voce alta e forte a quella del popolo in preghiera. È eccezionale questo grido per uno che muore in croce. Nelle tenebre risuona una voce divina. È la voce potente del Verbo che fa nuove tutte le cose (Ap 21,5). È il grido dell’uomo nuovo che viene alla luce.
Luca fa dell’abbandono di Dio (Mc 15,34; Mt 25,46) il luogo dell’abbandono a Dio: la fede. Per questo, invece che dal Sal 22, cita dal Sal 31. È il lamento del giusto perseguitato che si mette nelle braccia di Dio. Gesù aggiunge all’inizio la parola: "Abbà, Papà". Sono le sue ultime parole. Le sue prime furono: "Non sapete che io devo essere nelle cose del Padre mio?" (2,49). La parola "Padre" sulla bocca di Gesù fa da inclusione a tutto il vangelo di Luca. Esso è tutto una rivelazione della paternità di Dio attraverso quanto il Figlio ha fatto e detto in ricerca dei suoi fratelli perduti. Ora è giunto alla fine della sua fatica. Si consegna al Padre e gli affida la sua vita al termine della sua missione. La sua morte da figlio obbediente e fratello di tutti i malfattori apre a tutti il varco della vita. È l’esodo definitivo. Veniamo dal Padre e ritorniamo al Padre. La nostra morte diventa il ritorno a casa. Come Gesù si affida nelle mani del Padre, così il discepolo si affiderà nelle mani di Gesù. Stefano dirà: "Signore Gesù, accogli il mio spirito" (At 7,59). La morte di Gesù è la nostra salvezza perché è la solidarietà di Dio con noi. Ma è anche l’esempio di come muore l’uomo nuovo, l’Adamo riconciliato col Padre.
La morte è l’atto di fede più grande. A causa del peccato rimane sempre, anche per il credente, la drammaticità della morte col suo travaglio. Ma è illuminata dalla presenza di Gesù, che è venuto a condividere la nostra sorte di malfattori.
Ai piedi della croce ci sono tre categorie di persone che "vedono": il centurione, le folle e i conoscenti con le donne. Tutti costoro guardano il grande avvenimento dell’esodo di Gesù con i segni che l’accompagnano. La contemplazione della croce è per tutti. È l’antidoto che Dio ha dato ai suoi figli per vincere il veleno del serpente (Gv 3,14-15; Nm 21,4ss). Da questo sguardo al Crocifisso nasce il nuovo popolo.
Il centurione, comandante dei soldati che eseguirono la crocifissione, è la persona spiritualmente più lontana. Ora glorifica Dio. Gloria (ebraico: kabod = peso) indica la sovrabbondante bellezza di Dio che rompe ogni argine e straripa nell’universo. Glorificare Dio significa riconoscerlo in concreto, dandogli nella nostra vita il peso che si merita. Nella morte di Gesù vediamo la gloria di Dio, tutto il suo amore per noi.
Alla sua nascita gli angeli glorificavano Dio in cielo (2,13-14). Alla sua morte gli uomini peccatori lo glorificavano in terra, primo fra tutti il responsabile diretto della sua crocifissione.
La morte di Gesù è la glorificazione piena di Dio come Dio, perché è l’esaltazione del suo amore per tutti e sopra tutti.
"Davvero quest’uomo era giusto". Cristo è colui che compie la volontà di Dio. In Gesù si compie pienamente la giustizia di quel Dio che "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1Tm 2,4). Ora finalmente capiamo cos’è la sua giustizia: è la misericordia del Padre (6,36) che giustifica i peccatori.
La morte di Gesù in croce è uno spettacolo, una rappresentazione di Dio: si apre il velo del Santo dei santi e vediamo faccia a faccia la profondità del mistero. "Guarderanno a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37). Nel Crocifisso abbiamo la visione di Dio-Amore che dà tutto se stesso. È il libro spalancato della misericordia di Dio. Il battersi il petto è segno di lutto e di conversione. È l’inizio della conversione di pentecoste.
Questi conoscenti di Gesù (v. 49) rappresentano la Chiesa con le sue note essenziali: seguire Gesù, stare ai piedi della croce, contemplare il Crocifisso e rispondere alla sua compassione in debolezza e vulnerabilità estrema.

50 C'era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. 51 Non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. 52 Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53 Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. 54 Era il giorno della parascève e già splendevano le luci del sabato. 55 Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, 56 poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.

La vita di Gesù è racchiusa tra due grotte, quella della nascita e quella della morte. È l’umiltà di Dio. È in tutto simile a noi che veniamo dalla terra e ad essa torniamo. Qui il suo amore raggiunge la massima umiltà (humus = terra), fino all’identificazione con noi. Il corpo di Gesù, messo sotto terra, è il seme che porterà il frutto della Vita. Il Messia non salva dalla morte, ma nella morte. Ora scende nel regno di colei che ha tutti in suo potere. La Vita varca le porta della morte. La luce entra nelle tenebre. Le prime parole rivolte da Dio all’uomo peccatore erano: "Uomo, dove sei?" (Gen 3,9). Qui Dio finalmente raggiunge l’uomo, perché non può più fuggire oltre. La tomba dove dormono tutti i figli di Dio diventa anche la tomba di Dio. Riposa con loro dopo averli cercati e amati da sempre.
La bontà (v. 50) consiste nel non seguire il consiglio degli empi (Sal 1,1); la giustizia nel non acconsentire alla loro condotta, ma adempiere la volontà di Dio. Giuseppe faceva parte del sinedrio, ma non era consenziente al parere e all’azione dei suoi colleghi.
Secondo la Scrittura ogni condannato è immondo. "Il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità" (Dt 21,23). Il corpo di Gesù, fatto per noi maledizione (Gal 3,13), è la benedizione promessa in Abramo a tutte le genti (Gen 12,3; 22,18).
Maria generò il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo adagiò nella mangiatoia (2,7). Giuseppe lo toglie dalla croce, lo avvolge nel lenzuolo e lo pone nel sepolcro.
Sono le prime e le ultime cure che le mani di una donna e di un uomo prestano a Dio.
La sepoltura di Gesù fu affrettata a causa del sabato imminente. Il sepolcro di Cristo è il compimento della creazione. Segna l’inizio del grande sabato definitivo, del giorno unico e senza tramonto, in cui Dio ha finito la sua opera. Ora Dio e l’uomo riposano perché ognuno ha trovato nell’altro la sua casa: Dio nell’uomo e l’uomo in Dio.

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CAPITOLO 24

1 Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. 2 Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; 3 ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. 4 Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. 5 Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? 6 Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, 7 dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno". 8 Ed esse si ricordarono delle sue parole.
9 E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. 10 Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. 11 Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.
12 Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto.

L’uomo pensa che la morte ponga fine a ogni speranza. La risurrezione, di conseguenza, non può che suscitare incredulità o ilarità (At 17,32; 26,24). Ai sadducei, che non la ritenevano possibile, Gesù aveva detto: "Non siete voi forse in errore, dal momento che non conoscete le Scritture né la potenza di Dio?" (Mc 12,24). La risurrezione è indeducibile da qualsiasi premessa umana: è rivelata a chi conosce la promessa e la potenza di Dio (20,27-40). È la realizzazione piena della salvezza di Dio. Egli non vuole la morte. Ha creato l’uomo per l’immortalità (Sap 11,26). Tutta la creazione, insieme con noi, è destinata alla risurrezione, espressione piena della nostra verità di figli di Dio (Rm 8,19-23).
Per questo non siamo "come gli altri che non hanno speranza" (1Ts 4,13) oltre la morte. "Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini" (1Cor 15,13-14).
Con la risurrezione di Cristo e degli uomini sta o cade il senso stesso della nostra fede. Essa infatti è esperienza del Cristo risorto. Luca insiste particolarmente sulla corporeità della risurrezione, perché l’ambiente culturale ellenistico al quale si rivolge la ritiene impossibile e addirittura disdicevole.
Il sepolcro è la bocca della morte che divora tutti e si chiude su tutti. Ma la pietra del sepolcro è rotolata via. L’ultima a morire non è la speranza, che muore subito, ma la certezza della morte, che costituisce la principale difficoltà a riconoscere il Risorto.
Il sepolcro vuoto è un dato fondamentale. È una condizione della fede pasquale. Il sepolcro vuoto di Gesù uccide la certezza più certa dell’uomo. Il mistero della morte, che si tramuta in vita, spiazza ogni possibile ragionamento. Il fatto non ha alcuna spiegazione.
Qui si inserisce l’annuncio che viene da Dio e che solo è in grado di far comprendere ciò che è accaduto. Questi due annunciatori continuano l’opera dell’angelo dell’annunciazione, che troviamo all’inizio del Vangelo: annunciano l’azione "impossibile" di Dio, che mantiene la sua promessa.
Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, poiché tutti vivono per lui (20,38). Cristo non è tra i morti, ma tra i vivi e cammina con loro (vv. 13-35). Il sepolcro vuoto volge la nostra mente in una direzione nuova e sorprendente. L’annuncio pasquale: "Non è qui. È risorto!" ci fa comprendere perché Cristo non è lì nel sepolcro, ma nello stesso tempo, ci rimanda altrove per incontrarlo. Il "ricordo" delle parole di Gesù è il principio di ogni incontro con lui. Il racconto del vangelo, strutturato attorno al "memoriale" eucaristico, è questa "anamnesi" trasmessa fino a noi, di ciò che Gesù ha fatto e insegnato (At 1,1). È la luce per vederlo e per riconoscerlo come risorto.
Il v. 7 è il nocciolo del kèrigma evangelico, la sintesi di tutto quello che Gesù ha fatto e detto.
"Le donne si ricordarono delle parole dette da Gesù". Questa frase ribadisce l’importanza del ricordo di Gesù. Per questo Luca ha scritto il Vangelo.
Le donne, come ricevono, così trasmettono l’annuncio al quale hanno creduto. Sono il prototipo del credente. Tutti i credenti arrivano all’incontro pieno con il Signore risorto attraverso l’annuncio e il ricordo del Signore che ce lo spiega.
Questi nomi sono le firme dei testimoni. Notiamo che sono tutte donne. Nella cultura ebraica non erano abilitate a testimoniare. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato (1Cor 1,28) e ha scelto la pietra scartata come testata d’angolo (20,17 = Sal 118,22).
L’annuncio di Pasqua è assurdo per tutti: ancor prima che a quelli di Atene (At 17,32), agli apostoli stessi. Anche Festo griderà a Paolo, che annunciava il Cristo risorto: "Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello" (At 26,24). L’incredulità è un passaggio obbligato per giungere alla fede. Nel brano seguente vedremo il cammino dall’incredulità alla fede.
Anche Pietro fa lo stesso cammino delle donne. E anche lui constaterà la medesima realtà: "Non è qui!". Il sepolcro vuoto azzera per tutti e per sempre ogni sicurezza di morte e mette davanti a quel mistero che solo l’annuncio può rivelare.

13 Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, 14 e conversavano di tutto quello che era accaduto. 15 Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. 16 Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. 17 Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste; 18 uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?". 19 Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20 come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. 21 Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22 Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23 e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24 Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto".
25 Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26 Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". 27 E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 28 Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29 Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro. 30 Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31 Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. 32 Ed essi si dissero l’un l’altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?". 33 E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34 i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone". 35 Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Questo episodio è una pagina esemplare per mostrarci come il Signore risorto è presente ancora oggi nella nostra vita di credenti e come possiamo incontrarlo. I due viandanti sono figura della Chiesa. Essa cambia cuore, volto e cammino quando incontra il suo Signore nella Parola e nel Pane.
Centro del racconto è il Cristo morto e risorto davanti al quale ogni uomo "è senza testa e lento di cuore a credere" (v. 25).
Potremmo anche noi, come le donne e come Pietro, andare al sepolcro. Come loro, lo troveremmo vuoto. Non è lì il Vivente. È per le strade del mondo in cerca dei fratelli smarriti. Li segue, li incontra, li accompagna per trasformare la loro fuga da Gerusalemme in pellegrinaggio verso il Padre.
Come ai due discepoli di Emmaus, Cristo si fa vicino a tutti noi. Ci incontra nella nostra vicenda quotidiana di viandanti della vita e si associa al nostro cammino, ovunque andiamo. Egli non si allontana da noi anche se noi ci allontaniamo da lui. È venuto per cercare e salvare ciò che era perduto (cf. Lc 5,32; 19,10).
Cristo in persona ci spiega le Scritture e ci apre gli occhi. Anche se rimane invisibile, lo percepiamo con l’occhio della fede. Tutti possono giungere a lui attraverso l’annuncio che lo rivela risorto e il gesto dello spezzare il pane.
La Parola e il Pane, con cui egli resta nel nostro spirito e nella nostra carne, sono il viatico della Chiesa fino alla fine dei tempi. La Parola e il corpo di Cristo ci assimilano a lui, donandoci lo Spirito, che è la forza per vivere da figli del Padre e da fratelli tra di noi.
Il parlare di Gesù è il primo modo di accorgersi della sua presenza. Il Risorto non abbandona i suoi, ma si fa vicino a tutti e ovunque. Può entrare anche attraverso le porte chiuse, negli occhi dei ciechi e nei cuori induriti. Come ha seguito il malfattore fino alla croce per offrirgli il Regno, ora segue ciascuno, in qualunque situazione, per fargli lo stesso dono.
Noi non possiamo aprirci gli occhi della fede. È un miracolo che solo Gesù può compiere attraverso la sua parola e i suoi sacramenti.
Il volto triste e scuro dei due discepoli è l’opposto di quello luminoso e trasfigurato del Signore (9,29). Solo la sua parola inonderà di luce e di calore il loro cuore. Gesù interroga i due perché esca da loro tutta l’amarezza e la delusione del loro cuore. La fede non è elusione, ma soluzione dei problemi. Questi non vanno né repressi né rimossi.
Questi due discepoli sono bene informati ed espongono con precisione il kerigma. Conoscono bene Gesù, ma solo fino alla sua morte. Il racconto, fedele e corretto, giunge fino alla porta stretta in cui non si vuole entrare. La croce è letta come la fine di ogni speranza. Solo il Risorto può farla comprendere come mistero di salvezza. Il pensiero dell’uomo resta profondamente deluso davanti al pensiero di Dio (Mc 8,31-33). Egli non ci salva secondo le nostre attese, liberandoci dal male e dalla morte, ma nel male e nella morte. Davanti alla croce, che è la sapienza e la potenza di Dio (1Cor 1,24), si frantumano i nostri idoli e le nostre speranze che si rivelano semplici garanzie delle nostre paure.
I due hanno ricevuto l’annuncio della risurrezione, ma è parso loro incredibile. Allora come adesso, questo è il problema: senza l’esperienza del Risorto, la fede è impossibile! Perché la fede è comunione diretta e personale con il Signore (4,42).
Da sempre il popolo d’Israele è "di dura cervice e dal cuore incirconciso". I discepoli sono chiamati "senza testa e lenti di cuore a credere" come se questo fosse il loro nome proprio, il tratto fondamentale della loro identità. La nostra testa è realmente impermeabile alla verità di Dio, perché è piena delle nostre idee sbagliate sul suo conto, e il nostro cuore è lento e raggelato dalle nostre paure di Dio e, di conseguenza, dalla tristezza del non sentirsi amati da lui. Prestiamo più fede alla menzogna di satana che alla verità di Dio. Il primo passo da fare è quello di prestare più ascolto alla sua parola che alle nostre paure.
Il v. 26 è il centro della catechesi del Risorto. La sua morte non è un incidente di percorso, estraneo alla promessa di Dio: è il passaggio obbligato per entrare nella gloria. Ovviamente solo dopo la risurrezione possiamo comprenderlo. Alla luce della sua Pasqua, la croce diventa la chiave interpretativa di tutta la Scrittura, e tutta la Scrittura diventa un commento alla croce come gloria di Dio. "Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento" (Ugo da San Vittore). Gesù risorto è contemporaneamente l’esegesi e l’esegeta della Parola. Tutta La Bibbia si riassume in una parola brevissima: Gesù.
Gesù risorto è alla ricerca di tutti i suoi fratelli. Per questo deve andare sempre oltre (vv. 28-29). Se si trattiene con noi è solo per coinvolgerci in questo movimento per andare oltre e arrivare a tutti fino agli ultimi confini della terra.
Il dimorare di Dio con noi è una delle espressioni che meglio ci fanno cogliere il significato dell’Eucaristia: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). Egli resterà con noi fino alla fine del mondo (Mt 28,20). Il suo pane spezzato è la sua dimora in noi e la nostra in lui.
L’abbondante mensa della Parola lungo il cammino è servita a far desiderare e comprendere la mensa del Pane. Nell’Eucaristia si spalancano i nostri occhi perché vediamo che è lui per noi. Questo riconoscimento avviene dopo la Parola nel dono del Pane.
Gesù dopo lo spezzamento del Pane non scompare, ma resta con noi invisibile. È invisibile perché, propriamente parlando, non è più con noi, ma in noi. La Parola e il Pane ce l’hanno messo nel cuore.
Dio nell’Antico Testamento si era rivelato nel roveto ardente (Es 3,2ss), ora si rivela nel cuore ardente di ogni uomo che ascolta la parola di Dio. Egli non si rivela più fuori, ma dentro di noi, come nostra vita. È lui il maestro interiore, la cui parola viva ed efficace risuscita in noi la speranza morta. Il suo potere non si impone, ma ci lascia liberi. Anzi, suscita la libertà del desiderio e dell’invocazione: "Dimora con noi!".
"Davvero il Signore è risorto!" è il grido di Pasqua. Il Cristo che fu visto da Simone è quello stesso che noi riconosciamo nell’Eucaristia. Il messaggio della risurrezione avanza attraverso la celebrazione dell’Eucaristia. È qui che la Chiesa fa esperienza che Cristo è il Vivente. L’annuncio della risurrezione, che si era aperto con diffidenza all’inizio del racconto (v. 23), dopo l’incontro con il Cristo che spiega le Scritture e spezza il Pane si trasmette da una Chiesa all’altra con partecipazione e gioia (v. 35).

36 Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". 37 Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. 38 Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39 Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". 40 Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41 Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". 42 Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43 egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
44 Poi disse: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". 45 Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: 46 "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto".

In questo brano Luca collega direttamente il nostro conoscere il Risorto con l’esperienza di Simone e degli altri con lui. La differenza tra noi e loro sta nel fatto che essi contemplarono e toccarono la sua carne anche fisicamente; noi invece la contempliamo e la tocchiamo solo spiritualmente, attraverso la testimonianza della loro parola e la celebrazione dell’Eucaristia.
Luca insiste molto sulla corporeità del Signore risorto. È una necessità nei confronti dell’ambiente ellenistico, che credeva all’immortalità dell’anima, ma non alla risurrezione dei corpi (cf. At 17,18.32; 26,8.24). Con la risurrezione della carne sta o cade sia la promessa di Dio che la speranza stessa dell’uomo di superare l’ultimo nemico, la morte (cf. 1Cor 15,26).
Chiave di lettura e sintesi delle Scritture è il Crocifisso, che offre la visione di un Dio che è amore e misericordia infinita. Ai piedi della croce cessa la nostra paura di Dio e la nostra fuga da lui, perché vediamo che egli è da sempre rivolto a noi e ci perdona. I discepoli saranno testimoni di questo (v. 48): faranno conoscere a tutti i fratelli il Signore Gesù come nuovo volto di Dio e salvezza dell’uomo.
La forza di questa testimonianza è lo Spirito Santo, la potenza dall’alto (v. 49). Come scese su Maria, scenderà su di loro (cf. Lc 1,35; At 1,8; 2,1ss). L’incarnazione di Dio nella storia continua e giunge al suo compimento definitivo. Dio ha reso perfetta la sua solidarietà con l’uomo: al tempo degli antichi fu "davanti a noi" come legge per condurci alla terra promessa; al tempo di Gesù fu "con noi" per aprirci e insegnarci la strada verso il Padre; ora, nel tempo della Chiesa, è "in noi" come vita nuova.
Gesù ha terminato la sua missione. Noi la continuiamo nello spazio e nel tempo. In lui e con lui, ci facciamo prossimi a tutti i fratelli, condividendo con loro la Parola e il Pane.
Il mistero di Cristo si può presentare solamente attraverso le Scritture. Solo Dio conosce il suo Inviato, il cammino che deve percorrere e la meta che deve raggiungere. I segreti di Dio non si scoprono attraverso la riflessione e la sapienza umana, ma solo attraverso la sua libera comunicazione. Per questo il richiamo alle Scritture non è facoltativo, ma obbligatorio per capire il piano di Dio e il cammino del suo Cristo.
La catechesi di Cristo si conclude con la missione degli Undici a tutte le nazioni perché siano i continuatori della sua opera e i testimoni della sua risurrezione. In essa sono racchiusi gli articoli del kerigma apostolico: l’annunzio della morte e risurrezione di Cristo (v. 46), la predicazione della conversione per la remissione dei peccati (v. 47) e la funzione della testimonianza (v. 48).
L’annuncio evangelico era cominciato con la predicazione della penitenza e la remissione dei peccati e si chiude con lo stesso tema (v. 47). Gesù ha assolto la sua missione nel costante tentativo di distogliere gli uomini dal male; ora la sua opera deve continuare attraverso i suoi inviati. Annunciando agli uomini il lieto messaggio del perdono dei peccati e della pace piena e perfetta con Dio, essi non saranno dei conquistatori, ma dei benefattori dell’umanità.
Ma prima di partire per la missione, la Chiesa dovrà ricevere il dono dello Spirito Santo. Se gli apostoli sono i continuatori e i testimoni di Gesù, devono ricevere la stessa investitura di Gesù. Egli si è mosso dopo aver ricevuto il battesimo nello Spirito (Lc 4,14); la stessa cosa deve compiersi per i suoi apostoli.
Questi messaggeri di pace, che si dirameranno da Gerusalemme verso tutte le parti del mondo, saranno corroborati dalla forza dello Spirito. La loro potenza è la forza della fede.
L’ascensione è narrata due volte da Luca, come conclusione del Vangelo e come inizio degli Atti. Il Signore non si allontana dai suoi. Sarà sempre in cammino con i pellegrini della storia, come i due discepoli di Emmaus.
Ma la sua presenza non sarà fisica, limitata nello spazio e nel tempo. Sarà spirituale, illimitata, ovunque e sempre. Prima era vicino a noi col suo corpo, ora è in noi col suo Spirito. Prima era visibile con il volto di un altro, ora è invisibile e ha preso il nostro volto.
Il suo distare non è un andare lontano, ma un elevarsi là dove può racchiudere in sé ogni orizzonte. Raggiunto il cuore del Padre, Gesù è vicino ad ogni fratello, perché ogni uomo è nel cuore di Dio.

50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52 Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

L’ascensione è narrata da Luca due volte: come conclusione del Vangelo e come inizio degli Atti. Il Signore non si allontana da noi. Sarà sempre in cammino con tutti i pellegrini della storia, come con i due di Emmaus. Ma la sua presenza non sarà fisica, limitata nello spazio e nel tempo. Sarà spirituale, illimitata, ovunque e sempre. La sua distanza assoluta è in realtà una vicinanza assoluta. Prima era vicino a noi con il suo corpo, ora è vicino a noi con il suo Spirito.
La sua ascensione è l’esaltazione della sua umanità alla dignità di Figlio di Dio. Dopo un lungo travaglio è nato il capo. Ma dov’è il capo, sarà tutto il corpo. In Gesù che ascende al cielo conosciamo compiutamente il mistero dell’uomo e del suo corpo. Sappiamo da dove viene, perché vediamo dove va; viene dal Padre della vita e a lui ritorna.
La glorificazione di Gesù con il suo corpo è la realizzazione della brama più profonda che il Dio della vita ha messo nell’uomo: diventare come Dio, vincendo la morte. Non è un sogno proibito (cf. Gen 3,4-5), ma il dono definitivo di Dio. Nel Cristo risorto e asceso al cielo vediamo chi siamo noi.
"Condurre fuori" (v. 50) indica l’azione di Dio quando libera il suo popolo. Nella trasfigurazione, Mosè ed Elia parlavano dell’esodo di Gesù che stava per compiersi in Gerusalemme (Lc 9,31). Ora nell’ascensione si compie perfettamente e definitivamente.
Il ritorno di Gesù al Padre è la redenzione del cosmo, il ritorno di tutto a colui dal quale è uscito. Il compimento dell’esodo di Gesù segna l’inizio del nostro: mentre ascende al cielo, conduce fuori anche i suoi discepoli. In lui anche noi siamo già risorti, fatti sedere nei cieli e glorificati (Fil 3,20; Col 3,3; Ef 2,6; Rm 8,30).
Dopo che Gesù ci ha benedetti con tutta la sua vita, anche noi possiamo benedire Dio. Il tempio, abitazione di Dio, è ora stabile abitazione dell’uomo. L’uno e l’altro abitano insieme. Dio si fa dimora dell’uomo e l’uomo diventa dimora di Dio. In questo modo è esaudita completamente la preghiera più vera e più profonda di ogni credente, il suo desiderio di eternità: "Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore" (Sal 27,4).

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